In queste settimane di maggio Torino è al centro di due accadimenti che, a diverso titolo, si collegano al contesto europeo.
Il primo è l’Eurovision Song Contest, una kermesse musicale internazionale nata nel 1956. In vista della sua realizzazione il Comune di Torino ha emesso un bando attraverso il quale cercava “volontari” da impiegare durante l’evento: 600 posti, tutti esauriti.
I ragazzi e le ragazze che hanno aderito alla campagna di reclutamento dovranno svolgere parecchie mansioni, dalla gestione flussi e servizi al pubblico alle informazioni sulle sedi turistiche, dall’accoglienza delegazioni ai presidi sala stampa, sino agli accrediti, ai trasporti ecc.; insomma dovranno lavorare in cambio di una uniforme di riconoscimento, di un buono pasto e di un biglietto d’autobus. La città di Torino, come nella vecchia iconografia dello zio Sam, ha puntato il dito verso i giovani: vi voglio e vi voglio gratis!
Ancora una volta la logica sottesa ai grandi eventi dimostra la sua totale incapacità di costruire qualcosa di durevole per il territorio e la sua rapacità dal punto di vista sociale. Siamo nel pieno dell’iper modernità, ci riempiamo la bocca con le possibilità tecnologiche, magari connesse all’uso bellico come nel ventilato polo torinese della N.A.T.O., e non vediamo che questo sistema economico continua a basarsi sul lavoro servile, sull’estrazione di valore da attività gratuite di giovani, precari, o più in generale di donne e migranti.
Il bando di reclutamento della città di Torino non ha avuto nessun accenno di critica né dalle forze che governano la città, né dalle forze che stanno all’opposizione. Questo la dice lunga sulla consonanza complessiva intorno all’idea del lavoro come variabile totalmente dipendente e al lavoratore come mero capitale umano senza diritti, da sfruttare e basta.
Tutto ciò è avvenuto a pochi giorni dal 1 maggio e dal fiume di retorica lavorista inutilmente diffusa proprio quando, sempre a Torino, il tradizionale corteo veniva diviso in due dalle forze dell’ordine al fine di isolare chi criticava apertamente guerra e politiche antisociali.
D’altro canto il bando di reclutamento approntato dal Comune di Torino, sicuramente attento a rimanere all’interno di una correttezza formale quanto ipocrita, ha fatto finta di non registrare l’esistenza di una recente risoluzione approvata nel Parlamento europeo, la quale condanna i tirocini non retribuiti. Il testo, che purtroppo non vieta quelle pratiche, sottolinea però che è necessario porvi fine per evitare che i giovani siano intrappolati in situazioni di sfruttamento come manodopera a basso costo o addirittura gratuita.
Su questa vicenda, proprio mentre scrivo, è in atto un’iniziativa per elaborare una doppia interrogazione parlamentare sia in sede europea (attraverso il GUE), sia in sede nazionale (attraverso ManifestA).
Il secondo accadimento che collega la città subalpina con la dimensione continentale è il Consiglio d’Europa, che si terrà il 19 e 20 maggio. Anche in questo caso le dichiarazioni di due importanti esponenti politici locali, il sindaco Lo Russo (PD) e il presidente della Regione Cirio (FI), hanno fatto registrare una sostanziale unità di intenti, connotata da una insopportabile estetizzazione della politica. Entrambi alla fine non sono stati capaci di andare oltre la magnificazione dei grandi eventi e della tradizionale eccellenza italiana a disposizione degli ospiti stranieri.
Il fatto che sia in atto una tragica guerra nel cuore d’Europa e che ogni occasione, tanto più se istituzionale e internazionale, debba essere sfruttata per fermarla non pare essere tra gli interessi della classe politica ospite.
In realtà il vergognoso deficit politico non è solo appannaggio dei politici piemontesi. I Ministri degli esteri membri del Consiglio d’Europa cosa riusciranno mai a dire a Torino fra qualche giorno?
Siamo di fronte a una strategia europea che sinora è stata fortemente autolesionista. Da una parte l’Europa non ha saputo porsi come elemento capace di mediare tra le parti in conflitto e dall’altra, proprio a causa di questa incapacità, si sta condannando a un declino economico sicuro di cui si vedono già le prime preoccupanti avvisaglie nei contorcimenti quotidiani delle classi popolari.
In campo dunque non c’è un profilo europeo in grado di lavorare per la pace sul terreno internazionale e l’integrazione cooperativa, solidale e rispettosa della natura su quello continentale.
Molti, specialmente in questo ultimo periodo, hanno tirato in ballo lo spirito di Ventotene, ma di quella idea, nata in uno dei posti più duri ed inospitali approntati dal regime fascista, non v’è traccia tra le proposte che stanno andando per la maggiore.
Sicuramente non c’è nella prospettiva di federalismo pragmatico disegnata da Mario Draghi, così come nell’articolato recente manifesto di uno dei king maker dell’attuale maggioranza di governo: Enrico Letta. E’proprio quest’ultimo che ha disegnato una nuova Europa fondata su una politica estera comune connotata dal piano di sanzioni messo a punto da Draghi e Yellen, ma si guarda bene dal dire quali misure andrebbero concretamente adottate per contrastare inflazione galoppante e crisi economica connessa all’aumento dei costi energetici e alla strategia delle sanzioni. E’ancora Letta, per fare un secondo e ultimo esempio, che propone una nuova strategia di sicurezza militare. Vorrebbe che Italia Spagna, Francia e Germania promuovessero un esercito europeo, autonomo dai singoli stati, una sorta di alibi per giustificare un cedimento alle grandi imprese produttrici di armi.
Ancora una volta e in modo sempre più evidente quello che manca in tutti questi ragionamenti è una precisa connessione tra giustizia sociale stabilita come canone europeo unificante, tensione ad una simile realizzazione a livello globale e una politica possibile di dialogo e pace. Le due cose marciano assieme e non a caso.
Se dal Consiglio d’Europa di Torino non è lecito aspettarsi risposte all’altezza dell’attuale situazione di crisi, è invece necessario organizzare una risposta sociale e politica in grado di contrastare l’attuale deriva suicidaria dell’Europa. Nel nostro Paese, nonostante l’attuale impianto politico comunicativo, le persone non sembrano troppo disposte a seguire pedissequamente le indicazioni belliciste. Forse lo fanno a partire da dati materiali, dalle difficoltà indotte sulla propria vita e non solo per precise ragioni etico-politiche. Questo non indica un limite, ma semmai una possibile linea di faglia in più su cui operare. A partire da Torino, da questa occasione da non lasciare alla vuota forma istituzionale, verso un nuovo appuntamento nazionale in grado di restituire protagonismo a un movimento plurale per la pace oggi semi-annichilito da un terribile dibattito pubblico.
di Alberto Deambrogio