Distratti. Forse è questo il termine più esatto a descrivere l’opinione pubblica europea. Nel pieno di una pandemia che forse nessuno pensava di poter vivere, il “distanziamento sociale” imposto per impedire i contagi ha di riflesso procurato anche un “distanziamento emotivo e conoscitivo” rispetto a quanto continuava ad accadere al di fuori delle macabre cifre del covid 19. Continuavano i conflitti in gran parte del pianeta, cresceva, nonostante l’aumento dei rischi, il numero degli sfollati e di chi cercava riparo in altri luoghi rispetto a quello in cui si era nati, cresceva il numero di chi, malgrado tutto si metteva in mare, dalle coste libiche in cui la guerra diveniva ogni giorno più cruenta, per cercare di raggiungere l’Europa, dalla Tunisia in piena crisi economica, dall’Algeria.
Ma il Mediterraneo Centrale, più che in passato era diventato un deserto, la mappa misera di un risiko su cui si consumavano e si consumano ancora eventi scellerati. Come chi si segue conosce ormai bene, quell’area di mare è divisa in zone SAR (Search And Rescue) sotto la responsabilità degli stati limitrofi. Ad oggi ne esistono 3: quella italiana, limitata, quella maltese, ampia ma poco coperta da mezzi di soccorso e quella libica, tanto ampia quanto priva di ogni forma di rispetto del diritto internazionale.
Teoricamente queste zone dovrebbero servire a garantire, come dice il nome, il salvataggio di chi è in difficoltà e la possibilità di accedere ad un POS (Place Of Safety) “porto sicuro, in cui chi sbarca non corre rischi. Nonostante infami accordi la Libia non è un porto sicuro, non lo è mai stato. Chi viene intercettato e ripreso dopo una fuga è ricondotto nei campi di detenzione sparsi nel paese, quelli formalmente riconosciuti e quelli gestiti dalle tante milizie che si contendono il paese. Violenza, ricatto, torture e stupri sono all’ordine del giorno, nel tentativo di strappare altri soldi a chi cerca rifugio in Europa.
Malta da tempo, forse da sempre, in nome del fatto che non è in grado di accogliere troppe persone, facilita il respingimento verso la Libia delle imbarcazioni di richiedenti asilo in difficoltà, l’Italia non ha mai fermato la politica dei “porti chiusi” di salviniana memoria, ora si è autodichiarata per decreto “porto non sicuro” in nome della pandemia e non accetta formalmente arrivi.
Da una parte poi, nella concretezza dei fatti il governo italiano è costretto a trovare escamotage perché non può lasciare morire in mare le persone, dall’altra intensifica le proprie relazioni con il governo di Tripoli per rimandare in dietro le barche che partono. Le navi delle Ong, quelle che con disprezzo l’attuale ministro degli esteri ha chiamato “taxi del mare” per un paio di mesi hanno dovuto tenere fermi gli equipaggi eppure, a dimostrazione che non è la loro presenza a favorire le partenze, in migliaia hanno continuato a cercare di giungere in Sicilia, Sardegna o a Lampedusa, con ogni mezzo necessario.
Alcuni ce l’hanno fatta, riuscendo anche a evitare ogni forma di intercettazione, altri hanno perso la vita in mare, ad allungare il bilancio di una epidemia che non si è mai fermata e che ha reso il Mediterraneo una fossa comune e quella rotta la più pericolosa al mondo. Di oggi 17 giugno il ritrovamento dell’ultima piccola vittima al largo di Zwya, aveva 6 mesi e si trovava in una piccola barca rovesciata, almeno 12 i morti. E poi in 60 al largo della Tunisia, in quella che è stata chiamata la “strage delle donne”, gran parte delle vittime erano poco più che ragazze, al giovane morto perché si è gettato in mare per arrivare a nuoto, alla inosservata “strage di Pasquetta”. Secondo fonti del Viminale dal primo gennaio al primo giugno di quest’anno sono state 5.119 le persone che sono giunte “illegalmente” in Italia, di cui 1.654 solo nel mese di maggio, segno di una fuga che non si è mai fermata.
Ma in mare nessun soccorso. I naufragi sono stati segnalati da allarm phone il “centralino” allestito da volontari che da anni prende le chiamate dalle imbarcazioni e le gira alle autorità italiane, poche le navi umanitarie che in tempi di covid sono potute salpare. È il caso della Alan Kurdi (dal nome del bambino la cui immagine di corpicino sulla spiaggia è divenuta per breve tempo simbolo dell’ignavia europea), dell’ong tedesca Sea Eye. La nave ha effettuato un soccorso, è riuscita ad entrare nel porto di Palermo, i salvati sono stati trasportati in quarantena su una nave passeggeri, la Rubattino e in questa maniera trasferiti di diritto ma non concretamente sul territorio italiano ad inizio maggio. La Alan Kurdi è ancora ferma a Palermo perché a detta delle autorità italiane non rispettava le necessarie caratteristiche di sicurezza per effettuare salvataggi. Ovvero non doveva salvare persone? Le doveva lasciare in mare aperto ad affogare per formalità non rispettate? A questo cinismo ha risposto il ministero dei Trasporti tedesco, affermando che la Alan Kurdi ha tutte le carte in regola per navigare e soccorrere e che le autorità italiane sono in torto. Negli stessi giorni, un’altra nave, che per altro si stava recando in cantiere a Bilbao, la basca Aita Mari dell’ong, Maritimo, ha effettuato soccorsi, ha portato le persone salvate a Palermo ed è bloccata con le stesse accuse.
Perché nel Mediterraneo Centrale non si devono salvare vite. La Sea Watch 3 dell’omonima ong tedesca resa nota dalla vicenda di Carola Rackete, è malgrado tutto in queste ore al largo delle coste libiche. Dotata anche di un piccolo aereo per ricerca dall’alto, il Moonbird, ad oggi non ha effettuato salvataggi diretti. L’aereo ha intercettato 3 imbarcazioni troppo lontane dalla nave madre, le ha segnalate alle autorità italiane e maltesi ma ad intervenire sono state quelle di Tripoli che hanno ricondotto i fuggitivi in Libia. Gli assetti di Frontex avevano già rilevato la loro presenza ma non hanno ritenuto opportuno intervenire. Dalla Sea Watch dicono tranquillamente che col nuovo governo i toni sono solo apparentemente cambiati rispetto all’uso propagandistico e aggressivo dei porti operato da Salvini.
Ora c’è meno clamore ma si attuano identiche politiche. Quando non si può fare a meno si spendono vagoni di soldi per le navi da quarantena, lasciando crollare le strutture a terra destinate all’accoglienza, ma rispetto alle ong la politica è la stessa. I salvataggi sono subordinati agli accordi internazionali, se ci sono paesi disponibili ad accogliere i profughi si può anche procedere ma, nell’attesa, è meglio non partire. E mentre la Open Arms, anch’essa spagnola sono ferme nel porto iberico di Burriana per lavori e nello stesso porto è ancorata la Sea Watch 4. L’Ocean Viking dei francesi di Sos Mediterranée è ormeggiata a Marsiglia, anch’essa in attesa di poter ripartire. Il 9 giugno ha preso il largo il rimorchiatore Mare Jonio di “Mediterranea”, attendevano da molto di poter ripartire e finalmente ci sono riusciti.
Ma è sufficiente? Senza una politica congiunta europea no. Senza che siano le navi militari dei paesi coinvolti, supportati dal resto del continente, senza una radicale revisione del regolamento Dublino e l’apertura di corridoi legali di ingresso, ogni intervento sarà, quando riesce, unicamente riparatore a tragedie già avvenute e non potrà certamente contrastare il traffico di persone oggi più che mai fiorente. Viaggiare sulla rotta più rischiosa del pianeta oggi è ancora più pericoloso che in passato quindi il solo risultato è che i prezzi che i trafficanti impongono sono aumentati. Dovrebbe essere interesse europeo.
Sempre nei primi 6 mesi del 2020 in Spagna sono arrivate 7697 persone, in Grecia 10076, a Malta 1694, e stanno arrivando ora i periodi di mare calmo. In Libia si alternano fasi di fragile tregua dovuta forse a nuovi equilibri geopolitici internazionali fra la Turchia di Erdogan e la Russia di Putin e in cui l’Europa sembra aver rinunciato a svolgere qualsiasi ruolo diplomatico, la Tunisia è a rischio mentre poco si sa di quanto avviene tanto negli altri Paesi della sponda sud del Mediterraneo, quanto in quelli dell’Africa Sub Sahariana dove ad oggi sembra che il covid sia rimasto contenuto ma in cui gli elementi di criticità, soprattutto economica, sembrano precipitare sempre più. È quindi lecito aspettarsi nuovi arrivi e sarebbe semplicemente di buon senso attivare politiche in grado di non trasformare poche migliaia di persone in un’arma propagandistica per le destre nazionaliste ma, ad esempio, rendere praticabili i suggerimenti che arrivano da alcune città solidali tedesche che si dichiarano disponibili a sobbarcarsi gli oneri di una accoglienza con prospettive.
Questo come elemento di azione temporanea, mantenendo l’obiettivo di modificare radicalmente le politiche di immigrazione tanto nell’UE quanto nei singoli Stati membri.
E non è solo il Mediterraneo ad essere punto di crisi. La “rotta balcanica” da mesi è ridivenuta percorso obbligato per chi, giungendo soprattutto dai paesi asiatici, non vuole rischiare la vita in mare e si avventura in percorsi più lunghi e faticosi ma con maggiori possibilità di salvezza. Il gruppo Visegrad continua a fare muro con i richiedenti asilo (salvo poi andare a cercare forza lavoro migrante a tempo attraverso agenzie private in Vietnam, Mongolia, Bangladesh), ma il confine fra Italia e Slovenia è tornato ad essere nodo cruciale a partire dal blocco della circolazione in area Schengen anche ai cittadini UE imposto con l’emergenza virus. Ora il confine si è riaperto ma nel frattempo altro accade che poco o nulla ha di regolare. Tutto ha origine nel passato, in un accordo firmato fra Italia e Slovenia il 3 settembre del 1996 finalizzato a favorire la riammissione sul territorio dei due Stati sia di cittadini di uno dei due Stati contraenti sia cittadini di Stati terzi. Si tratta, secondo ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione) di accordi illegittimi in quanto intergovernativi, stipulati in maniera semplificata e non ratificati dal parlamento (art 80 della Costituzione). Ma gli elementi di illegittimità sono non solo questi, di fatto applicandoli oggi, si viola lo stesso trattato di Schengen privando le persone che sono sottoposte al riaccompagnamento alla frontiera della privazione di libertà personale e si viola il principio di non refoulement.
Questi “accompagnamenti informali” (così sono stati definiti dal ministro dell’Interno italiano Luciana Lamorgese, fanno sì che cittadini i quali non hanno voluto, o più spesso potuto, chiedere asilo in Italia o soprattutto in Slovenia, siano rispediti dall’Italia oltre il confine. Da qui le autorità slovene rimandano, cittadini provenienti soprattutto da Afghanistan e Pakistan, o in Croazia (paese UE quindi ignorando ancora una volta le stesse stringenti normative europee) oppure in Bosnia e Serbia quindi in “paesi terzi” e non sicuri, bypassando la stessa “Direttiva rimpatri” (115/2008) che presto dovrebbe essere aggiornata in maniera peggiorativa. Bosnia e Serbia hanno in qualche maniera incentivato le partenze nella paura dei contagi, l’Europa, ma parliamo di poche centinaia di persone, ha risposto alzando steccati o rimpallandosi responsabilità e rendendosi responsabili di violazioni continue a tutte le normative nazionali, europee e internazionali. L’ennesimo reato verso persone vulnerabili ma tanto il Paese e il continente, come si diceva all’inizio, sono ancora distratti
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Mi vergogno un poco di questo comportamento dei Paesi Europei!! La memoria è corta, si dimentica quando in anni passati eravamo noi a partire per bisogno di lavoro,del minimo indispensabile per vivere! In tempi non lontanissimi la Germania era il luogo dove la gente del Sud Italia partiva in cerca di lavoro e “pane”,Oppure ancora prima verso l’America” .Partenze senza garanzie e attraverso conoscenti che avevano già fatto quel percorso! Senza conoscere la lingua e sicurezza alcuna!