editoriali

Un partito Post-Democristiano e neoliberista

di Franco
Ferrari

La ricostruzione di una sinistra che rompa con il paradigma liberista e dia vita ad uno strumento politico radicato nelle classi popolari non sarà sicuramente un processo lineare e privo di difficoltà come ci hanno già confermato gli anni che sono trascorsi dal fallimento elettorale della Sinistra Arcobaleno.

Un passaggio inevitabile di questo percorso è definire chiaramente natura e ruolo nel sistema politico dei due partiti che in modo diverso ne occupano lo spazio sinistro (senza necessariamente essere “di sinistra”): il Movimento 5 Stelle e il Partito Democratico.

Tra le figure intellettuali che hanno seguito con favore, anche se in modo critico, il percorso del partito fondato da Beppe Grillo, c’è sicuramente il sociologo Domenico De Masi. In una recente intervista al Manifesto (19 agosto 2022) ha confermato la sua valutazione del Movimento: “Ho sempre detto che nel 2018 era fatto da granelli di destra e di sinistra. Poi Salvini si è fregato i granelli di destra e il M5s si è quasi dimezzato. Non è di sinistra perché serve cultura di sinistra e oggi non ce l’ha nessuno. Non c’è pedagogia. Per avere il M5s di sinistra, noi intellettuali di sinistra avremmo potuto educarli. Io l’ho fatto ma sono stato l’unico. Gli altri avevano la puzza sotto al naso. Le condizioni per tentare c’erano: erano il gruppo con più donne, più giovani, più laureati.”

Anche De Masi ritiene che, in vista delle elezioni del 25 settembre, sia stata persa un’occasione nel non costruire “un vero polo di sinistra” che avrebbe però richiesto una scelta da parte di Sinistra Italiana diversa da quella di accodarsi al PD.

De Masi prevede, come quasi tutti gli osservatori, un periodo di opposizione che potrebbe “essere l’occasione per trovare un modo di rifondare la sinistra. E bisognerebbe partire proprio dai 14 milioni di poveri che ci sono in Italia, ma devono diventare una classe, una classe sociale consapevole: individuare i nemici, come Meloni, e organizzarsi”. Sembra chiaro che il sociologo escluda che questa “rifondazione della sinistra” possa avvenire nel o col PD, mentre è meno chiaro se il partito di Conte possa ancora contribuire a questa prospettiva.

Bevilacqua: il grande lavacro neoliberale

Sul ruolo e la natura del PD è intervenuto con un articolo approfondito, pubblicato sul sito Left.it, Piero Bevilacqua. L’autore ha ricostruito la storia del PD dalla sua fondazione per arrivare ad una conclusione che viene così sintetizzata dalla redazione: “Da quando è nato, nel 2007, il Partito Democratico si è sempre più allontanato dal mondo del lavoro e dai ceti popolari abbracciando il pensiero neoliberale che ha mostrato tutti i suoi limiti nella difesa dei diritti e nella lotta per la giustizia sociale”.

Secondo Bevilacqua questa formazione, “erroneamente”, è sempre stata considerata “l’amalgama di due grandi eredità politiche, quella comunista e quella democristiana. Non è così. Tanto i dirigenti comunisti che quelli cattolici, prima di fondersi avevano subito una profonda revisione della loro cultura originaria. Prendiamo gli ex comunisti. Dopo il 1989 essi hanno attraversato, come tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il grande lavacro neoliberale, mutando profondamente la loro natura. (…) In sintonia con Clinton, che nel corso degli anni 90 ha abolito la legislazione di Roosevelt sulle banche, essi hanno liberalizzato i capitali, reso flessibile il mercato del lavoro, avviato ampi processi di privatizzazione di imprese pubbliche e beni comuni, isolato ed emarginato i sindacati. (…)

Negli anni 90 le élites di queste forze, hanno compiuto un capolavoro politico: hanno abbandonato il loro tradizionale insediamento sociale (classe operaia e strati popolari) e hanno salvato se stesse come ceto, mettendosi alla testa del processo di globalizzazione.”

Per Bevilacqua questa trasformazione è legata al fatto che questi gruppi dirigenti erano “nutriti di cultura sviluppista” e che questo li ha portati facilmente a vedere nell’espansione senza freni del “mercato” la possibilità di allargare la quota di ricchezza destinata ai ceti subalterni.

“Dunque le forze che danno vita al PD non sono gli epigoni dei vecchi partiti popolari, nati dalla Resistenza, sono forze del tutto nuove, indossano il vestito smagliante del vecchio avversario di classe. Ma quello di Veltroni e degli altri nasce come un progetto invecchiato, perché vuole imporre in Italia il bipartitismo in una fase storica in cui esso è al tramonto negli stessi Paesi in cui ha avuto più fortuna.”

Perseguendo la visione istituzionale dei gruppi dirigenti del PD, orientata al maggioritario e alla trasformazione dei partiti in “agenzie di marketing elettorale”, che “nella stagione di euforia neoliberista i partiti hanno consegnato al mercato, cioè al potere privato, non poche prerogative che erano del potere pubblico.”

Un partito, quello di Letta, che “grazie alla capacità manipolatoria dei gruppi dirigenti (…) e della grande stampa” è riuscito a “celare la sua natura conservatrice”. Bevilacqua ricorda il Jobs Act per segnalare che non si può scaricare la responsabilità solo su Matteo Renzi. Anche dopo di lui il PD non si è mai mosso per arginare la precarietà e l’ha, anzi, estesa sempre di più anche al lavoro pubblico. “Nel Ministero dei Beni Culturali – ricorda Bevilacqua – presieduto per un totale di 7 anni da Enrico Franceschini, siamo al ‘caporalato di Stato’, con una miriade di giovani che tengono in piedi musei e siti con contratti a tempo determinato e salari da fame”. Lunga la lista delle scelte politiche compiute dal PD in questi anni che Bevilacqua valuta negativamente, tra cui quella di promuovere, col Governo Gentiloni, l’autonomia differenziata, tramite gli accordi preliminari siglati con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna. E’ apparso piuttosto singolare che alcuni costituzionalisti indicassero la necessità di un accordo elettorale col PD per evitare di portare a termine il percorso di “autonomia differenziata”, dimenticando che questa è il prodotto proprio delle scelte politiche di questo partito e che la Giunta dell’Emilia-Romagna Bonaccini-Schlein ne è una fervida sostenitrice.

La conclusione di Bevilacqua è che il Partito Democratico, in questi ultimi 15 anni di storia, “è il maggiore responsabile del declino italiano. Per tale ragione tutte le rare lucciole di persone effettivamente progressiste che si aggirano disperse nella pesta notte del suo conservatorismo, concorrono, sia pure involontariamente, a nascondere la natura antipopolare di questo partito, i danni storici inflitti all’Italia. Votarlo non è il meno peggio, ma il peggio.”

Nencioni: gli ex comunisti scrivono, gli ex democristiani comandano

Un altro intervento che analizza la natura del PD ce lo ha offerto Tommaso Nencioni sul Manifesto del 17 agosto 2022. Se Bevilacqua vede in questo partito il frutto di una contemporanea evoluzione in senso neoliberista delle due componenti principali che l’hanno costituito, quella di derivazione comunista e quella di formazione democristiana, per Nencioni è evidente che è la seconda a prevalere nel partito. “Gli ex comunisti scrivono; gli ex democristiani nel frattempo comandano” è la sua sintetica conclusione.

Da questo deriva che l’agire politico del PD andrebbe visto alla luce dell’esperienza dei secondi piuttosto che di quella dei primi. L’analisi di Nencioni si concentra su tre aspetti sostanziali di cultura politica, di tradizione degasperiana e morotea, ereditati dal PD.

L’autore li descrive così: “1) La Dc è stata il garante del vincolo esterno in Italia, nella sua doppia versione atlantica ed europea, quando (raramente) i due vincoli sono entrati in contrasto tra di loro, la Dc ha sempre scelto la fedeltà a quello atlantico; 2) La Dc ha sempre identificato la salvezza della (debole) democrazia italiana con la propria centralità nel sistema politico del Paese. 3) La politica delle alleanze della Dc, pur a geometria variabile, è sempre stata subordinata alla tenuta dei due fattori precedenti. Per cui ogni alleanza, anche la più spregiudicata, è stata ritenuta possibile, a patto che questa non mettesse in forse il vincolo esterno e non minacciasse la centralità democristiana”.

Per Nencioni è a partire da questi elementi di fondo che si può comprendere ”la scelta elettorale apparentemente suicida di abbandonare il dialogo con Conte”. Questa rottura “da un lato nasconde una paura – che il rapporto con una forza di peso tendenzialmente equivalente ne mini la centralità, rischio corso col Conte II; dall’altro una conclamata esigenza – quella cioè che gli alleati siano ‘affidabili’ in politica estera: questo è stato risposto esplicitamente a chi chiedeva il motivo per cui “Fratoianni sì e Conte no”.

Ora il PD, che sembra aver già scontato la sconfitta della eterogenea e abborracciata coalizione che ha messo in piedi a fini elettorali, “scommette tutto sull’implosione della destra a urne chiuse, per riproporre surrettiziamente la propria funzione di garanzia nel prossimo parlamento”.

Guardando alla prospettiva Nencioni ritiene che “il lavoro politico da fare per le forze di progresso è tutto interno alla società italiana, e ci sono sempre più dubbi sulla possibilità che sia lo strumento più adatto a portarlo avanti”. In realtà per molti da tempo questo non è più un dubbio ma una certezza.

Franco Ferrari

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