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Un fuoco reazionario in parlamento

di Roberta
Padovano

Riprendiamo da comune-info.net con lo stesso titolo – “Maestà il popolo ha fame! Vietate la maternità surrogata!”. Un meme che circola sui social sintetizza così l’uso sprezzante e volgarmente feroce del tema da parte dal governo Meloni, assistito da rappresentanze dell’opposizione. Fermare la gestazione per altri come emergenza più che nazionale, universale, planetaria. Che importa se la gestazione per altri in Italia è illegale, anzi importa, perché così si rimesta nella confusione, e si alza il tiro con una proposta ora in iter alla Camera per convertirla in reato universale, qualunque cosa sia.

Sullo stesso asse si colloca l’attacco alle famiglie Arcobaleno su più fronti. Dalla richiesta del ministero dell’Interno di non trascrivere i certificati di nascita dei/delle figli/e di due madri o di due padri alle interpretazioni retroattive della Procura di Padova. Non solo si negano diritti e tutele, ma si afferma la discriminazione perseguitando le persone casa per casa. Rispetto ai diritti civili e alla repressione omolesbobitransfobica con questo governo siamo sul bordo dell’abisso.

Come siamo arrivat3 a questo punto? Malgrado un insieme di movimenti vasto e di lunga durata, che da decenni riempie piazze e manifestazioni di migliaia di persone che chiedono riconoscimento e diritti per la pluralità dei modi di vivere generi, orientamenti, identità, sessualità, affettività, relazioni, di vivere insomma. Un movimento che mentre chiede cose per sé produce cambiamenti negli immaginari collettivi, nei linguaggi e contribuisce fortemente a costruire uno spazio sociale più largo e abitabile da molte differenze, che sempre più lo abitano.

Invece, le leggi in Italia restano specchio dell’unico modello di vita familiare che ha piena cittadinanza, quello eteronormato di fare famiglia e filiazione. Anche la legge Cirinnà è una conferma di questo: le unioni civili sono un dispositivo concepito per sole coppie dello stesso sesso, che ricalca il matrimonio eterosessuale con lo stralcio dell’impegno di fedeltà (sic) e dell’accesso all’adozione: gli eterosessuali non possono accedere alle unioni civili, meglio ribadirlo perché è talmente incredibile che in molt3 continuano a non aver colto che si tratti di una legge ghetto.

Per comprendere quello che sta accadendo oggi è utile ricordare che la legge Cirinnà è stata votata (2016, governo centro sinistra) a patto dello stralcio della stepchild adoption. E l’uso dell’inglese per dire figlio non biologico, sembra esprimere bene la mancanza di parole per dirlo, la fatica semantica per nominare una genitorialità non legata alla procreazione, evidentemente fuori dal vocabolario e dall’immaginario dominante. Ed è questo il punto, incardinato in quella legge 40/2004, che vieta la procreazione medicalmente assistita alle persone singole, oltre che alle coppie dello stesso sesso. Inizialmente era vietata la fecondazione eterologa anche alle coppie eterosessuali, ma la Corte Costituzionale (2014) ha dichiarato illegittimo il divieto, lasciandolo in vigore solo per le coppie dello stesso sesso. Se questa non è omofobia di Stato che cosa è? Lo è  – l’Italia è attualmente trentaquattresima in Europa per la tutela dei diritti lgbt+(rapporto ILGA Europe 2023) – ma rappresenta molto di più.

Di cosa si nutre questo persistente rifiuto politico di riconoscere pari dignità ai diversi modi di costruire famiglia attraverso gli strumenti del potere legislativo? Ha un background solido e di lungo periodo, collegato ai movimenti reazionari che tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo hanno iniziato un’offensiva per opporsi all’evoluzione sociale e alle sue conseguenze sui diritti sessuali e riproduttivi, inseriti per la prima volta nel sistema dei diritti dalle conferenze ONU del Cairo e di Pechino. Una reazione, cui ha dato l’avvio il Vaticano, ma dal respiro internazionale, come hanno preziosamente mostrato le ricerche di Sara Garbagnoli e Massimo Prearo, che hanno svelato che cosa vi sia dietro la cortina di fumo e di fuffa veicolata per anni attraverso i maggiori media generalisti. La lotta contro la “teoria del gender” è tutt’uno con la difesa della cosiddetta famiglia naturale, o tradizionale. Poggia su una visione filosofica e giuridica fondata sull’esistenza di un diritto naturale, universale e immutabile, perché conforme a una presunta natura dell’uomo (maschile sovraesteso voluto), dunque intrinsecamente vero e giusto.

Nel contesto italiano questa visione, insieme all’ordine sociale che difende, l’egemonia eteropatriarcale, ha saputo conquistare solide alleanze tra le forze politiche capaci di sfiancare e stroncare battaglie per proposte di legge che andassero nella direzione di diritti anche minimi: tra gli ultimi esempi clamorosi, l’affossamento della legge contro l’omolesbobitransfobia, il ddl Zan, che inseriva accanto alle discriminazioni per razza, etnia e religione (già contemplate) anche le discriminazioni per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità.

Una potenza di fuoco reazionario parlamentare che costituisce in qualche modo una specifica anomalia della situazione italiana: con l’impegno e le lotte femministe e dei movimenti lgbtq+, i cambiamenti sono evidenti e visibili ovunque, dalle piazze alle scuole, ai luoghi di lavoro e di cultura e di socialità, cambiamenti presenti in Italia come in molti altri paesi in Europa, ma che qui non si sono tradotti in diritti e tutele, come altrove.

Una situazione che non ha ovviamente impedito alle vite di esistere, cambiare, andare avanti, sfidando la mancanza di diritti e tutele. Nel corso di questi anni sempre più coppie lesbiche e gay hanno cercato soluzioni altre per tutelare i propri figli, appellandosi alla magistratura e ai sindaci per fare valere i propri diritti fondamentali. Anche ora, per esempio, davanti all’obbrobrio della Procura di Padova che impugna gli atti di nascita, l’unica strada praticabile sembra essere quella del ricorso contro gli annullamenti da parte dei genitori. La via giudiziale.

Una via giudiziale per tutt3?

Come attivista transfemminista lgbtq+ avverto un forte bisogno di riflettere, collettivamente, su quali strategie siano possibili oggi in questo paese. Per continuare a contrastare il sessismo, l’omolesbobitransfobia certo è necessario un lavoro culturale permanente, come contro il razzismo. Ma come uscire dall’impasse dell’anomalia suddetta, dello sbarramento persistente da parte del potere legislativo? Come non farci sfiancare dalla guerra di logoramento sui diritti e continuare a produrre pensiero e pratiche di liberazione?

Tornando alla via giudiziale, se le conseguenze del proprio modo di essere e di amare sono considerate un reato, la strada sembra spingere a fare i conti con le conseguenze della illegalità. Come assumerle con consapevolezza politica, il più collettivamente possibile, ciascun3 con il posizionamento che gli corrisponde, per condizione e coraggio personale? È un tema che merita riflessioni più profonde e accorte, ma ugualmente desidero almeno nominare qualcosa che sembra stagliarsi all’orizzonte come uno scenario comune a differenti movimenti sociali. Penso ad esempio a movimenti ecologisti come Extinction Rebellion, Friday for Future e altri che nelle loro pratiche contemplano forme di disobbedienza civile anche radicale o atti di denuncia dell’ingiustizia climatica che possono incorrere in denunce, arresti, in reati, appunto. Oppure ad altri movimenti che difendono spazi di socialità e cultura non mercificata nelle città e che nel farlo si espongono alla repressione. Forse qualcosa potrà nascere, più che da astratte convergenze delle lotte, dalle frequentazioni e esperienze incrociate tra movimenti. Ibridazioni che possano sviluppare forme di resistenza vitale contro la guerra della monocultura della famiglia “naturale” con la sua patria estensione, dell’estrattivismo predatorio, della mercificazione di ogni forma del vivente come T.I.N.A. thatcheriano sempre verde. (There Is No Alternative)

A fronte di un governo che fa della difesa della famiglia “naturale” e di stirpe italica il valore fondante, di un dicastero che ha scelto di nominarsi “per la famiglia, la natalità e le pari opportunità”, oltre alla satira capace di coprire di ridicolo tutto questo, cosa si può fare? Cosa ha senso se non alzare di molto la posta?

Più che ingaggiare battaglie per tutele parziali, incappando nel fuoco di fila diretto o franco tiratore dei difensori in parlamento del modello unico di famiglia e filiazione, perché non riprendere un punto caro a una parte dei movimenti femministi e lgbtq+ già anni fa, la riforma del diritto di famiglia, a partire dalla insopportabile nominazione singolare. L’ultima riforma risale al 1975, all’epoca una rivoluzione, che attuò modifiche sostanziali, come il passaggio dalla potestà del marito alla potestà condivisa tra i coniugi. Son passati quasi cinquant’anni.

Recentemente la corte d’appello di Cagliari ha riconosciuto a un bambino la condizione di figlio di due madri, che non sono una coppia sentimentale, e che nella vita quotidiana si prendono cura e responsabilità genitoriale. Si tratta di esperienze di vita sempre più diffuse, riconosciute, narrate. Anche l’eco avuto in questi mesi dalla testimonianza di Michela Murgia sulla sua famiglia plurale sembra esprimere il bisogno di nominare, vedere riconosciuti i molti diversi modi di fare unione, di prendersi cura e responsabilità, di amarsi, di vivere genitorialità o multigenitorialità, di chiamarsi famiglie se lo si vuole. Allo Stato e alle sue leggi si può chiedere solo rispetto e tutele. Ecco, “solo” questo, potrebbe essere un punto di una agenda condivisa nel prossimo futuro?

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