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Un Calvario lungo trent’anni III

di Andrea
Amato

Capitolo I
Capitolo II

Mondo unipolare e dominio economico

Molto si è detto e scritto sul rapporto tra la fine del blocco sovietico e l’esplosione della globalizzazione economica e finanziaria. Al di là della ricerca delle causalità (quanto l’una cosa abbia concorso a determinare l’altra, e viceversa), sono indubitabili la concomitanza e le interdipendenze tra i due accadimenti storici. D’altra parte, essendo gli Stati Uniti il centro motore della globalizzazione, nel momento in cui essi diventano potenza unipolare, è ovvio che questa diventa il terreno privilegiato attraverso cui si esercita il loro dominio economico sul mondo. Al quale non sfugge, ovviamente, la regione dell’Asia Occidentale e Nord Africa (WANA), dove il tradizionale dominio, caratterizzato soprattutto dal controllo del petrolio, viene corroborato – oltre che dal versante militare – dall’espansione della globalizzazione economica e in particolare dal culmine di quella che è stata chiamata la “terza tappa” della globalizzazione finanziaria (1986-1995)1.

Insieme alla globalizzazione, approda la sua ideologia, il neo-liberismo, con il suo carico di liberalizzazioni e privatizzazioni, che si applica a sostituire – in alcuni casi, molto rapidamente -l’impianto socialista delle strutture economiche precedenti, creando un ceto di potenti affaristi, pudicamente chiamati “uomini d’affari”, arricchitisi grazie alle nuove “riforme”. In definitiva, il neo-liberismo, in quasi tutti questi paesi, anziché creare economie competitive, ne ha rafforzato la fisionomia di economie di rendita. L’incrocio tra questa realtà e la liberalizzazione degli scambi internazionali non poteva che incrementare un processo di marginalizzazione economica di gran parte dei paesi dell’area, marginalizzazione che continua fino ai giorni nostri.

I meccanismi della marginalizzazione

Al destino della marginalizzazione non sfuggono nemmeno alcuni paesi in cui a partire dagli anni ’80 vi è stato un certo sviluppo degli IDE (Investimenti Diretti Esteri). E’ il caso delle delocalizzazioni – da parte di imprese europee del settore tessile/abbigliamento/calzaturiero – delle fasi a più alta intensità di manodopera della catena del valore. I lavoratori marocchini, tunisini ed egiziani delle aziende delocalizzate hanno da sempre subito la concorrenza asiatica ma questa è divenuta asfissiante con l’ingresso della Cina nel WTO2 nel 2001 e la fine degli Accordi Multifibre (AMF)3 nel 20054.

L’indebitamento e la crisi del debito

La dimensione della marginalità e della subalternità economica dell’area è evidenziata dai pesanti passivi delle bilance nazionali dei pagamenti negli anni ’90, dovuti a bilance commerciali perennemente in deficit (con l’eccezione di alcuni paesi petrolieri), volumi di IDE e aiuti notevolmente inferiori alle rimesse degli emigrati, ingenti flussi finanziari negativi dovuti al servizio del debito. Ed è proprio l’indebitamento pubblico, l’aggancio per l’assoggettamento economico di questi paesi.

Di solito, l’indebitamento è sempre conseguente a un accattivante marketing finanziario5. Così è stato per i paesi arabi. Nei due decenni precedenti, le grandi banche del mondo occidentale avevano bisogno di piazzare il loro eccesso di liquidità, legato soprattutto ai petrodollari. Lo fecero distribuendo prestiti “facili” in quasi tutti i paesi in via di sviluppo. All’inizio degli anni ’80, molti paesi iniziarono ad avere difficoltà a rimborsare i prestiti. Anche nell’area WANA era scoppiata la crisi del debito!6 

Washington Consensus e neo-liberismo

Quando un paese non riesce a rispettare le scadenze della restituzione e del pagamento degli interessi, ricorre al FMI (Fondo Monetario Internazionale). Questo può “aiutarlo” a restituire i soldi alle banche con una ristrutturazione del debito (principalmente con il riscaglionamento) e la concessione di nuovi prestiti, suoi e della BM (Banca Mondiale)7, per onorare i debiti con le banche e per finanziare cosiddetti progetti di sviluppo. La ristrutturazione del debito è, però, condizionata dall’impegno del paese ad attuare un PAS (Programma di Aggiustamento Strutturale), “concordato” con le Istituzioni di Bretton Woods (FMI e BM).

I PAS non facevano altro che mettere in pratica il famoso Washington Consensus, l’intesa stabilita nel 1989 tra Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. Un’intesa su un insieme di politiche economiche da imporre, in cambio di concessioni creditizie, ai paesi con difficoltà di bilancio. Lo scopo dichiarato era quello di creare le condizioni per la stabilità e la crescita economica8 e prevedeva un set di “riforme” ispirate rigorosamente alla ideologia neo-liberista, tra cui: rigida disciplina di bilancio (austerità), riduzione della spesa pubblica per impieghi ritenuti improduttivi (sanità, istruzione, sostegno ai prezzi dei beni di prima necessità), riduzione delle imposte dirette, svalutazione della moneta, liberalizzazione dei tassi d’interesse, del commercio estero e degli investimenti esteri, privatizzazioni, deregolamentazione dei mercati e dell’economia.

Le conseguenze dei PAS furono devastanti per i paesi arabi costretti ad accettarli, in primo luogo i paesi del Maghreb (Marocco, Algeria, Tunisia, Mauritania) ma anche Egitto, Giordania, Libano, Bahrein, Yemen. Da un lato, disoccupazione, povertà, spesso insopportabile per l’eliminazione del prezzo politico dei beni di prima necessità, a cominciare dal pane; dall’altro, sistemi produttivi sempre più fragili e resi dipendenti dai mercati esterni. Per contro, avendo causato l’abbassamento dei prezzi delle materie prime, in primo luogo del petrolio, i primi beneficiari dei PAS sono le multinazionali. Inoltre, non va dimenticato che tutte le opere infrastrutturali finanziate dalla Banca Mondiale, sono realizzate da imprese occidentali, soprattutto americane, che oltre a realizzare alti profitti, spesso evadono le tasse, impoverendo ancora di più i paesi debitori.

R. Krugman9 ha chiamato il Washington Consensus la “nuova saggezza dominante”, divenuta, negli anni ’90, norma nei dibattiti economici. Il suo carattere ideologico viene così spiegato: “Ma come ogni saggezza dominante, essa deriva da un processo circolare, fondato più sul fatto che dei personaggi importanti danno forza al dogma per averlo essi stessi assunto, che non su delle prove concrete”10.

Se nei paesi dell’area WANA i PAS, proprio per l’evidenza dei loro risultati Paul dominante negativi, hanno suscitato dissenso e ostilità (ad eccezione delle ristrette cerchie di politici, funzionari, esperti e “uomini d’affari” che vi hanno lucrato), bisogna riconoscere che il Washington Consensus, forse per il suo carattere operativo di “piano d’azione” – una sorta di manuale pratico delle teorie di Milton Friedman e dei suoi Chicago Boys – ha avuto un ruolo non secondario nella diffusione nel mondo occidentale, e in particolare in Europa, dell’ideologia neo-liberista”11.

“Un curioso misto d’ideologia e di cattiva economia, un dogma che talvolta dissimulava appena degli interessi privati.” È come definisce l’azione del FMI, Joseph E. Stigliz12 nell’introduzione al libro in cui ha mosso pesanti critiche al suo operato del FMI13.

Il comandamento principale dell’ortodossia neo-liberista, contenuto nel Washington Consesus e praticato dal FMI, è la guerra santa contro l’intervento dello Stato in economia”14.

Ricolonizzazione?

In definitiva, poiché il FMI era (ed è tuttora) ancorato ai mercati finanziari globali, svolgendo il ruolo di garante nei confronti dei creditori, la sua funzione di strumento principe della globalizzazione finanziaria a trazione americana è diventata sempre più evidente. Una specie di ricolonizzazione.

A un nuovo colonialismo, fa pensare anche il modus operandi del FMI. Se il governo del paese destinatario dell’intervento, non ottempera alle prescrizioni del PAS, il FMI smette di erogare il finanziamento. E’ il principio della “condizionalità”15. Condizioni per la concessione di una linea di credito; condizioni per non interromperla. Questo il ricatto continuo attraverso cui il FMI s’intromette pesantemente su ogni decisione di politica interna, col pretesto delle ricadute sull’economia del paese. E qual è il provvedimento di un governo nazionale che non abbia riflessi di carattere economico? A fronte di questa continua violazione della sovranità nazionale si è, salvo rare eccezioni, assistito a una “incondizionata” acquiescenza dei governi nazionali, che si spiega solo con la situazione di sudditanza dovuta alle emergenze finanziarie che li hanno spinti a chiedere la “protezione” del FMI. Spesso l’acquiescenza si accompagna alla paura a manifestare la pur minima osservazione rispetto a misure che essi ritengono addirittura nefasti per il proprio paese, perché questo basta per essere definito un atteggiamento “ostile” al FMI, che, a quel punto si sente autorizzato a interrompere l’erogazione del finanziamento. Talvolta, per avere questa punizione, è bastato solo un peccato di omissione; per esempio non aver informato il FMI di una misura ovvia e assolutamente rientrante nei suoi criteri. E’ successo all’Etiopia, nel 1997, oggetto del disappunto congiunto di FMI e Stati Uniti, per aver rimborsato anticipatamente un prestito – misura di per sé encomiabile – senza l’avallo preventivo del FMI16.

Il ruolo politico del FMI

A dimostrare la valenza politica dell’operato del FMI nell’area WANA, basterebbe l’esempio dell’Algeria all’inizio degli anni ’90. Il Capo del Governo, Mouloud Hamrouche (!989-1991) aveva acceso grandi speranze nel paese con un vasto programma di riforme per modernizzare un paese ancora impigliato nelle rigidità del nazionalismo socialista. Per poter finanziare le riforme, Hamrouche ha bisogno di liquidità e si rivolge al FMI. Dato il carattere liberale del programma di riforme, questo poteva benissimo essere accettato dal FMI, almeno come primo passo per sbloccare il sistema economico algerino. Con la consueta arroganza, il FMI risponde che il prestito si sarebbe potuto erogare ma con la solita condizionalità dei Programmi di Aggiustamento Strutturale. Hamrouche rifiuta ma dopo poco è costretto a dimettersi e l’Algeria si avvia al decennio più buio della sua storia17.

L’opacità, spesso la segretezza, del processo decisionale ha caratterizzato la gestione degli interventi del FMI, nonostante i proclami sulla trasparenza18. Un’opacità talvolta funzionale a operazioni “improprie” come, per esempio, erogare fondi destinati, anche attraverso la corruzione, alla “stabilizzazione politica” all’interno di un paese oppure a ottenere contropartite geopolitiche19.

Si è prima detto del nesso tra FMI e globalizzazione finanziaria e, di conseguenza, Stati Uniti. Ma c’è n’è un altro più diretto ed esplicito, anche se non tutti se lo ricordano: gli Stati Uniti hanno un sostanziale diritto di veto su tutte le decisioni del FMI.

  1. cfr. François Chesnais, La mondialisation financière. Genèse, cout et enjeux. Syros, Paris, 1996.[]
  2. World Trade Organisation (Organizzazione Mondiale del Commercio).[]
  3. Si tratta di Accordi internazionali in deroga al GATT, che dal 1974 al 2005, hanno fissato quote d’importazione dei prodotti del tessile e abbigliamento, per proteggere le produzioni dei paesi industrializzati.[]
  4. Nella marginalizzazione dell’area c’erano paesi meno marginalizzati di altri. Per esempio la Turchia. Per rimanere nel campo del tessile/abbigliamento, nonostante i salari in Turchia fossero il doppio di quelli magrebini, i prodotti turchi importati in Europa sono stati sempre il doppio o il triplo di quelli del Marocco o della Tunisia. Ciò a causa dell’Unione doganale, istituita con l’UE nel 1995, che concede alla Turchia la regola della “trasformazione sostanziale”, cioè la possibilità di trasformare prodotti provenienti da tutto il mondo, a differenza degli altri Paesi Partner Mediterranei, sottoposti alle regole d’origine.[]
  5. Così è successo anche nella finanza mondiale, a partire dalla seconda metà degli anni’90, con i “nuovi prodotti finanziari” (derivati, futures, ecc.) e poi con i subprime loans che hanno portato all’esplosione della bolla immobiliare negli Stati Uniti.[]
  6. La crisi del debito, scoppiata in Messico nel 1982, ha una triplice origine: 1) la decisione, nel 1979, di Paul Volcker, Presidente della Federal Reserve, di aumentare notevolmente i tassi d’interesse per contrastare l’inflazione negli Stati Uniti. Poiché i tassi d’interesse dei crediti internazionali sono legati a quelli USA, anche questi hanno avuto un’impennata (tra il 1970 e il 1980 sono passati dal 4-5% al 16-18%; 2) un forte ribasso dei prezzi delle materie prime, causato da un eccesso di offerta per la necessità dei paesi debitori di procurarsi dollari con cui rimborsare i crediti; 3) un sensibile calo dell’offerta creditizia, a causa dei timori delle banche occidentali proprio per le palesi difficoltà dei debitori. Un vero e proprio circolo vizioso.[]
  7. Inizialmente la Banca Mondiale finanziava solo progetti soprattutto infrastrutturali. Dagli anni ’80 ha cominciato a erogare un sostegno finanziario generale con “prestiti all’aggiustamento strutturale”. Ma poteva farlo solo se approvati e secondo le condizioni poste dal FMI.[]
  8. “Stabilità e crescita” è anche il nome dato nel 1997 al Patto stabilito dagli Stati membri dell’UE per il controllo dei bilanci statali.[]
  9. Paul Robin Krugman, statunitense, è economista, saggista, docente all’Università di Princeton, editorialista del New York Times nonché premio Nobel per l’economia nel 2008.[]
  10. Paul R. Krugman, Pop Internationalism, M.I.T. Cambridge (Massachussets), 1996 (traduzione francese, La mondialisation n’est pas coupable. Vertus et limites du libre- echange, La Decouverte, Paris 1998. Pag. 133.[]
  11. Agli inizi degli anni ’90, in una riunione al Comitato Economico e Sociale Europeo, reagendo a un mio intervento sulla necessità dell’intervento pubblico in economia, un esperto olandese mi apostrofò più o meno così: “Ma si rende conto che quello che lei sta dicendo è contrario al Washington Consensus?” e vedendolo strabuzzare gli occhi alla mia risposta affermativa, mi sono reso conto che per quel giovane economista era inconcepibile che un membro di un Organismo dell’UE non fosse d’accordo con il Washington Consensus.[]
  12. Joseph Eugene Stiglitz, statunitense, è economista, saggista, Premio Nobel per l’economia nel 2001. Ha lavorato nell’amministrazione Clinton come Presidente dei consiglieri economici (1995-1997) ed è stato Senior Vice President e Chief Economist (1997-2000) presso la Banca Mondiale prima di essere costretto alle dimissioni dal Segretario del Tesoro Lawrence Summers.[]
  13. Così continua Stiglitz: “Quando le crisi irrompevano, il FMI prescriveva delle soluzioni certamente standard, ma arcaiche e inadatte, senza tener conto degli effetti che esse avrebbero avuto sugli abitanti dei paesi ai quali si intendeva applicare” ( Joseph E. Stiglitz,  La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino, 2002.).[]
  14. Ecco come ne parla ancora Stiglitz: “Le prescrizioni del FMI, in parte fondate sull’ipotesi sorpassata secondo la quale il mercato approda spontaneamente ai risultati più efficaci, vietano gli interventi dello Stato sul mercato, che sarebbero invece auspicabili: le misure che possono guidare la crescita economica e migliorare il destino di tutti. Ciò che è messo in causa, quindi, nella maggior parte degli scontri che riferirò, sono delle idee, e le concezioni del ruolo dello stato che ne derivano” (Ibid.).[]
  15. Il dogma della condizionalità è stato esportato nell’allora Comunità Economica Europea, fin dai primi interventi di aiuto ai Paesi in via di sviluppo. E da allora continua ad informare tutte le politiche europee di cooperazione.[]
  16. Joseph. E. Stiglitz, op.cit.[]
  17. Un altro esempio del ruolo politico svolto dal FMI, in una regione adiacente. Come tutti i paesi mediterranei, la Iugoslavia, negli anni ’70, aveva attinto ai petrodollari, contraendo cospicui prestiti delle banche occidentali. Dopo la crisi del debito anche in Iugoslavia interviene il FMI. Gli obiettivi politici erano chiari:  sostenere economicamente la Iugoslavia, paese non allineato, con lo scopo tradizionale di destabilizzare il blocco sovietico, ma anche per impedirne un eventuale riallineamento. Con l’avvento di Gorbaciov, questi obiettivi venivano meno. Il FMI chiuse pertanto i rubinetti. E’ difficile dire quanto questa scelta (ovviamente degli Stati Uniti) abbia pesato nella dissoluzione della Iugoslavia, ma certamente non ne è stata indifferente.[]
  18. Ecco come ne parla lo stesso Stigliz: “Sono stato felice di vedere quanto sia stata sottolineata, durante la crisi finanziaria del 1997-1998, l’importanza della trasparenza, ma rattristato dall’ipocrisia delle istituzioni – FMI e Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti – che la reclamano in Asia: esse debbono annoverare se stesse fra le meno trasparenti che io abbia mai conosciuto nella vita pubblica” (Joseph E. Stigliz, op.cit.).[]
  19. Un vasto campionario di episodi di questo genere è contenuto nel libro autobiografico di John Perkins, un ex consulente della Banca Mondiale, il cui compito è stato irretire e corrompere alcun governanti per l’accensione di ingenti prestiti per mega progetti a beneficio di predatrici multinazionali americane (John Perkins, Confessioni di un sicario dell’economia, Minimun Fax, 2004).[]
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