di Tommaso Chiti – Fra pochi giorni, in occasione della Giornata mondiale per l’eliminazione della violenza di genere, oltre alle numerose iniziative di sensibilizzazione, scenderanno di nuovo in piazza centinaia di migliaia di manifestanti, per ribadire pubblicamente la denuncia di una deriva apparentemente inarrestabile.
Da 20 anni le Nazioni Unite hanno istituito questa giornata, scelta all’Incontro Femminista Latino-americano e dei Caraibi (Bogotà, 1981), per ricordare le tre sorelle Mirabal, dissidenti ed oppositrici del regime del dittatore dominicano Trujillo; e per questo assassinate brutalmente il 25 novembre 1960.
Soltanto nel giugno del 2015 però, con una manifestazione davanti al Congresso argentino a Buenos Aires, è nato un movimento trasversale e popolare di condanna ai numerosi femminicidi, che in certi paesi fanno registrare una vittima ogni trenta ore; una ogni tre giorni circa invece in Italia. Secondo il rapporto ‘Femminicidi e violenza di genere’ di EURES sarebbero 142 le vittime di violenza di genere nel 2018 nel nostro paese; e già 94 quelle accertate nell’anno corrente.
Nei paesi latino-americani sembra maggiore il tributo di sangue versato da donne che sfidano il potere o che si battono per un riscatto non solo femminista, ma egualitario ed ecologista. Alcuni casi emblematici sono quelli dell’attivista brasiliana Marielle Franco, il cui omicidio pare coinvolgere anche l’attuale presidente Bolsonaro; oppure ancora l’assassinio dell’ambientalista indigena Berta Caceres in Honduras. Guardando più ad est, invece, è forte la connessione dei movimenti femministi di NUDM con la rivoluzione delle combattenti delle forze di autodifesa popolare (YPJ) in Rojava, nel nord-est della Siria, come esempio di liberazione dall’oscurantismo di daesh (ISIS), unito all’emancipazione delle donne in Medio-Oriente.
Secondo ActionAid, in Italia e nel mondo subisce violenza, mediamente, una donna su tre dai 15 anni in su. Il timore della violenza è confermato dal dato secondo il quale il 53% di donne in tutta l’Unione Europea afferma di evitare determinati luoghi o situazioni per paura di essere aggredita.
La violenza non si arresta all’atto individuale degli uomini – spesso ‘con le chiavi di casa’, in quanto partner o parenti delle vittime (autori del 62,7% di stupri e del 38% del totale di femminicidi) – ma deriva da un sistema di subordinazione ancora di tipo patriarcale, che pone la donna in una condizione subalterna, esponendola così a vari tipi di violenze: quella domestica, quella della discriminazione di tipo tradizionale – fra stereotipi e pratiche di mutilazioni genitali – a quella politico-eoconomica, insita nel modello neoliberista.
Al centro delle rivendicazioni del movimento NUDM sono infatti gli spazi femministi e di autodeterminazione, partendo soprattutto dall’eccessiva ingerenza dell’obiezione di coscienza nei consultori pubblici, fino allo scarso finanziamento per i centri antiviolenza, in contemporanea con un aumento dei fondi istituzionali ad organizzazioni antiabortiste (caso emblematico della protesta delle ‘Smutandate’ in Toscana). Spazi vissuti come luoghi di resistenza, di soggettivazione e di creazione di reti femministe, per fronteggiare la violenza maggiore, quella derivata appunto dalle gerarchie di genere.
Secondo NUDM infatti l’indipendenza economica è la condizione fondamentale per affrancarsi dalla violenza, per essere libere di scegliere: Le molestie e gli abusi si riproducono infatti in condizioni di minaccia e di ricatto, nella vergogna e nella solitudine, spesso in analogia alle condizioni subite sul posto di lavoro. Per questo una delle maggiori istanze è la liberazione dalla povertà, dallo sfruttamento, dal rischio di licenziamento o del mancato rinnovo di contratto e dei documenti di soggiorno.
In questo senso la violenza patriarcale è vista come pilastro del modello neoliberista, che si articola in discriminazioni di genere e di tipo razzista, anche come rapporti sociali oltre che di classe, per la concentrazione di profitti e la perpetrazione di diseguaglianze socio-eocnomiche.
La piattaforma della mobilitazione ‘Non Una di Meno’ del prossimo 23 novembre punta quindi su una resistenza transfemminista, fatta di sorellanza ed antifascismo, con un approccio decisamente intersezionale e rivendicazioni concrete come la ridefinizione dei consultori e di altri spazi pubblici; e lo sciopero come pratica di conflitto.
Insieme con la lotta ai cambiamenti climatici animata da FFF, il movimento di Non Una di Meno si impone nelle agende politiche e nell’opinione pubblica come una delle poche realtà di mobilitazione dal carattere internazionalista.
Le condizioni di violenza e sfruttamento, che spesso hanno intensità diversa a seconda della localizzazione geografica, possono essere ricondotti ad un processo di oppressione di carattere globale, che pertanto può essere sovvertito da un approccio femminista transnazionale, in grado di combatterne le articolazioni locali, a partire dalle sue implicazioni strutturali.
Tommaso Chiti
FONTI:
https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne/il-fenomeno/omicidi-di-donne