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Un Calvario lungo trent’anni I-II-III-IV

di Andrea
Amato

IMedio Oriente, palestra unipolare

C’è una regione del mondo, quella che va dalla Turchia alla Mauritania, passando per le Repubbliche Caucasiche, l’Afghanistan, l’Iran, i Paesi del Golfo, il Corno d’Africa e il Nord Africa, che le Nazioni Unite e le sue Agenzie, nonché un certo numero di cancellerie (compresa quella della Repubblica Popolare Cinese) chiamano WANA (West Asia & North Africa). Si tratta però di una denominazione puramente geografica e burocratica.1 In generale, la geopolitica ha assegnato a quest’area nomi del tutto parziali, sia dal punto di vista geografico che delle identità: Maghreb,2 Shaam,3 Levante,4 Mashreq,5 Mashreq Arabo,6 Medio Oriente,7 Vicino Oriente,8 Paesi Arabi,9 Paesi Islamici,10 Paesi del Golfo.11

I nomi della geopolitica

Stessa parzialità per i nomi dati dalle politiche dell’Unione Europea: Paesi Terzi Mediterranei,12 Paesi Partner Mediterranei,13 Paesi del Vicinato.14

Una sola denominazione geopolitica comprende l’insieme di questi paesi, quella di “Grande Medio Oriente”15 creata fin dagli anni ’70 dai think tank vicini al Pentagono e lanciata da George W. Bush nel G8 del febbraio 2004, che approvò la famosa “Iniziativa per il Grande Medio Oriente”, fatta propria poco dopo anche dalla NATO. Rispetto alle altre denominazioni sopra ricordate, che per lo più rappresentavano strategie coloniali o post-coloniali europee ovvero provenienti dal soft power dell’UE o delle Organizzazioni Internazionali, qui si trattava di un esplicito disegno d’intervento imperialistico da parte degli Stati Uniti. In quanto tale, fu molto criticato sia da parte araba che da quella europea. Non si capiva come si potesse concepire un intervento “riformatore” univoco in una regione che andava dal Maghreb al Pakistan, con situazioni, culture, storie e identità molto diverse, se non perché dettato dalla “guerra al terrorismo” e dalla volontà di neutralizzare, o meglio assoggettare, un’area di vasta instabilità, anche per farne una sorta di cortina nei confronti di pericoli che all’epoca erano solo potenziali: Russia e Cina.

I disastri di oggi hanno radici lontane

Indipendentemente dagli esiti di quella strategia e dalle diverse fisionomie che negli anni successivi ha avuto la politica estera americana, quell’area, vista col senno di poi, ha assunto sempre più un carattere comune: non più solo instabilità politica ed esplosione di conflitti sociali, non solo repressione delle libertà, ma guerre sanguinose, massacri , genocidi, milioni di profughi disperati, Stati nazionali andati in pezzi. I media non riescono a star dietro alle notizie quotidiane: Siria, Turchia, Iraq, Libano, Giordania, Gaza, Yemen, Bahrein, Egitto, Libia, Algeria. Del Marocco si parla poco, ma anche lì un potere feudale tiene in scacco una popolazione apparentemente apatica. Finanche la Tunisia, il paese della speranza, dopo le ultime elezioni corre sul filo del rasoio. Insomma, il Grande Medio Oriente sembra essere diventato una profezia al contrario.

Tutto questo ha a che fare con la caduta del muro di Berlino? Sì, certamente. Soprattutto con i due anni successivi al 1989, cioè con la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Mentre in Europa e in parte del modo arabo, l’89 veniva salutato con un moto di grande speranza per l’avvenire del mondo, gli Stati Uniti si dibattevano tra due opposti, ma alla fine convergenti, “sentimenti”. Da un lato l’ebrezza del potere sconfinato derivante dalla guida incontrastata di un mondo diventato ormai unipolare, dopo la fine del bipolarismo; dall’altro lo sgomento di non avere più “il” nemico su cui basare tutta la sua politica di potenza e l’esigenza di crearne subito un altro.

Il primo esercizio di potenza nel mondo unipolare

Prima ancora che, nel 1993 Samuel Huntington sistematizzasse la questione del “nemico” con la sua teoria sullo “Scontro delle Civiltà”, identificandolo nell’Islam, George H. W. Bush (padre) scatena, tra la fine del 1990 e l’inizio de 1991, la cosiddetta Guerra del Golfo. Una sorta di “rito sacrificale” offerto al popolo americano – così è stata definita16 – con lo scopo di scongiurarne la depressione dopo un lungo periodo di benessere, ma soprattutto per dare sfogo all’industria bellica e salvaguardare gli interessi petroliferi degli Stati Uniti. Il nuovo nemico è Saddam Hussein, che egli chiama “il nuovo Hitler”, contro cui mobilita un imponente intervento militare, Desert Storm, per il quale riunisce una vasta coalizione di 35 Stati. Si trattava dello stesso Saddam Hussein che, dal 1980 al 1988, nella guerra contro l’Iran, gli Stati Uniti avevano armato e finanziato, con l’appoggio di Francia e Italia.17

E’ la prima volta, dopo il Vietnam, che l’esercito americano interviene direttamente, così massicciamente, al di fuori del proprio territorio nazionale. Fino allora, gli Stati Uniti erano intervenuti nell’area attraverso il ben noto (soprattutto ai medio-orientali) metodo della “guerra per procura”. Così avevano fatto in Afghanistan dal 1980 al 1989, durante le presidenze Carter e Reagan, nella guerra contro i Sovietici, utilizzando uno schema che sarà ripetuto fino ai giorni nostri, e cioè reclutando, addestrando e armando musulmani da tutto il mondo, i Mujaheddin Afghani, usando i soldi dell’Arabia Saudita e il Pakistan come base operativa.18

Non si è riflettuto abbastanza sulle conseguenze non materiali che la Guerra del Golfo ha provocato nel mondo arabo. Chi in quegli anni ha avuto modo di frequentare i paesi arabi, conosce bene quella lacerazione sentimentale con l’Occidente, Europa compresa.19 Storicamente essa giungeva dopo quella causata dalla vicenda palestinese (con il corollario libanese). Se non si tengono presenti questi due primi strappi, non si capiscono i sentimenti di frustrazione, d’impotenza, di rabbia di un intero popolo; quella “infelicità” araba, magistralmente descritta da Samir Kassir,20 che sarebbe esplosa all’alba del ventunesimo secolo.

IIUn’incerta gestione del disordine

Le difficoltà del dopo-Guerra del Golfo

La vittoria di Bush padre in Iraq rafforzò indubbiamente l’euforia “unipolare” degli americani, la sensazione di poter imprimere ai destini del mondo qualunque direzione essi avessero voluto. Ma quella sensazione non durò molto. Già negli ultimi mesi della sua presidenza, lo stesso Bush non parlava più di modellare un “Nuovo Ordine Mondiale”, il suo cavallo di battaglia a partire dall’agosto 1990.21

Gli Stati Uniti dovettero confrontarsi con la necessità di far fronte ai danni provocati dalla Guerra del Golfo e alle turbolenze causate, in tutta l’area oggetto del nostro interesse (WANA), dalla fine del blocco sovietico. Risposte puntuali,22 autocratico e non sempre commendevoli, rivolte a una realtà puntiforme di crisi e di conflitti, presero il posto di un grande disegno strategico che avrebbe però comportato, da un lato, la rinuncia a qualche privilegio economico, dall’altra, una coraggiosa alleanza con Gorbaciov.23 Coraggio che gli Stati Uniti non ebbero.

In effetti, ci si trovava davanti a un “nuovo disordine”, fatto dell’esplosione di nuove crisi e del riaccendersi di vecchi conflitti. Certo, niente di paragonabile ai conflitti che oggi caratterizzano la situazione ormai tragica di questa regione del mondo, ma di cui quelle sono in gran parte le origini e i prodromi.

In primo luogo per quanto riguarda lo stesso Iraq. I paesi arabi e la Turchia avevano avuto un certo peso nella decisione di Bush di non entrare in Baghdad. L’eventuale dissoluzione dell’Iraq avrebbe, infatti, rappresentato rischi per tutti. La costituzione di uno stato curdo al nord non sarebbe stata apprezzata dalla Turchia, mentre un’entità sciita faceva paventare il pericolo iraniano. Ciononostante, agli occhi dell’opinione pubblica mondiale, bisognava fare qualcosa per proteggere curdi e sciiti da nuove persecuzioni da parte di Saddam. Così il vincitore americano impone due no fly zones, al nord e al sud del paese. Ma queste non impediscono a Saddam di reprimere nel sangue le ribellioni curde e sciite avvenute lungo tutti gli anni ’90. Tutto ciò nell’assoluta indifferenza dell’Occidente. In fin dei conti, Saddam fa ancora una volta comodo agli Stati Uniti; evita una sparizione/spartizione dell’Iraq tutta a favore dell’Iran. E poi impedisce una sua democratizzazione che sarebbe un esempio pericoloso per i vicini arabi e per gli interessi americani.

Non sono solo le popolazioni curde e sciite a subire le conseguenze nefaste della Guerra del Golfo ma tutto il popolo dell’Iraq, affamato dalle sanzioni imposte al paese. Bisognerà attendere il 1996 perché l’embargo venga attenuato dal programma delle Nazioni Unite Oil for food (approvato obtorto collo dagli Stati Uniti) che permetterà all’Iraq di vendere petrolio in cambio di cibo e medicine per alleviare le sofferenze del popolo iracheno.

Un altro paese vittima delle conseguenze della Guerra del Golfo è il Libano. Uscito in rovina da una guerra civile durata quindici anni (dal 1975 al 1990),24 questo paese continua a non avere pace. Gli Stati Uniti debbono ricompensare la Siria per la partecipazione alla Coalizione contro l’Iraq, e favoriscono la sua occupazione militare del Libano, azzerando il tentativo di affrancamento, appena iniziato dal generale Michel Aoun,25 costretto all’esilio. Il “protettorato” siriano si protrarrà sino al 2005, sovrintendendo alla ricostruzione del paese, realizzata dal Primo Ministro Rafiq Hariri.26

Per i primi dieci anni la presenza siriana si estende a tutto il paese ad eccezione della regione del Libano del Sud. Questa è occupata, dal 1982, da Israele che vi rimane sino al 2000, non senza averla prima bombardata ben due volte: nel 1993 (“Operazione Responsabilità”) e nel 1996 (“Operazione Uva dell’Ira”). Naturalmente, con il benevolo consenso degli Stati Uniti. Anche Israele deve essere ricompensata, non per aver partecipato alla Guerra del Golfo ma per la sua assenza dalla Coalizione, dalla quale era stata tenuta lontana per garantire le presenze arabe. L’accondiscendenza americana alle aggressioni di Israele doveva servire anche a fargli riconquistare, a livello regionale, il prestigio che la Guerra del Golfo aveva offuscato.

Il disordine si estende anche di là della zona centrale del Medio Oriente; per esempio nel Maghreb, dove, le conseguenze della Guerra del Golfo si sommano a cause derivanti direttamente dalla dissoluzione del blocco sovietico. Infatti, da un lato, la frustrazione per la sconfitta ha rafforzato la contestazione islamista, dall’altro, il ritorno dei Mujaheddin Afghani ha ingrossato le fila delle organizzazioni dell’islamismo radicale. L’Algeria è il paese dove il fenomeno è più eclatante, perché, contrariamente alla Tunisia dove le elites integraliste vengono, senza mezzi termini, imprigionate, lì, essendo fallito nel 1991 il tentativo di normalizzazione dell’islamismo politico, con la partecipazione del FIS27 alle elezioni, prende avvio un conflitto interno (impropriamente chiamato guerra civile)28 che durerà un intero decennio.

Non si può quindi che concordare con quanto George Corm29 affermava nel 2007: “La scomparsa dell’URSS nel 1989-1990 non ha affatto facilitato il ritorno del Medio Oriente alla stabilità. I regimi arabi clienti dell’Unione Sovietica o vicini a essa (Siria, Libia, Iraq) sopravvivranno alla sua scomparsa. E, contrariamente a ciò che affermano gli Stati Uniti e molti commentatori occidentali, la scomparsa del gigante sovietico non porta con sé quella dei roventi problemi del Medio Oriente, tutti generati dallo smembramento dell’Impero Ottomano, dalle ambizioni petroliere delle potenze occidentali e dall’occupazione da parte di Israele dei territori non solo in Cisgiordania e Gaza ma anche in Siria e Libano”.30

I limiti e il declino del soft power di Bill Clinton

Fin dall’inizio del suo mandato presidenziale nel 1993, Bill Clinton fa capire chiaramente che, da un lato, avrebbe privilegiato le questioni interne, dall’altro avrebbe dato alla sua politica estera una curvatura opposta a quella del suo predecessore. Non più interventi militari diretti, ma esercizio della leadership americana con gli strumenti del multilateralismo. Ciò non significava un’assenza o una fuga dalla regione del West Asia e Nord Africa ma piuttosto l’assunzione di un ruolo di facilitatore di accordi. In realtà in nessun caso questo ha prodotto risultati duraturi tali da eliminare i conflitti.

Il caso più importante è quello degli Accordi di Oslo del 1993, che avrebbero dovuto gettare le basi per la risoluzione del conflitto israelo-palestinese. Dopo la storica stretta di mano tra Arafat e Rabin, benedetta da Bill Clinton sul prato di Camp David, l’attuazione degli Accordi prende l’impervia strada d’interminabili negoziati sullo statuto di Gerusalemme Est e sul diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi. E mentre si realizza una ripartizione dei Territori Occupati in tre zone (secondo il grado d’intensità del controllo israeliano), ripartizione che non garantisce la piena autonomia palestinese, lo stesso Rabin31 promuove una massiccia espansione degli insediamenti di coloni nei Territori, attuando un piano predisposto dal suo predecessore Sharon. Da lì inizia la deriva che riaccende il conflitto. Dagli attentati palestinesi causati dall’incremento degli insediamenti, alla passeggiata di Sharon sulla Spianata delle Moschee, al conseguente scoppio della Seconda Intifada, alle risposte militari israeliane e al muro, all’apartheid e agli eccidi di palestinesi dei giorni nostri. Ci vollero anni perché si capisse che l’insuccesso di Oslo era già scritto negli Accordi e soprattutto in ciò che non c’era scritto. Ma nonostante la sua fallacità, l’operazione di Oslo era riuscita ad accreditare la leadership etica degli Stati Uniti.

Un altro caso è quello del Nagorno-Karabakh, regione caucasica contesa da Armenia e Azerbaijan. Dopo il primo conflitto armato scoppiato nel 1992 tra questi due stati appena diventati indipendenti dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’OSCE32 costituisce un organismo di mediazione, il Gruppo di Minsk, composto da 13 paesi e co-presieduto da Stati Uniti, Francia e Russia, il quale perviene ad un accordo per il cessate il fuoco nel 1994. Il conflitto è stato temporaneamente congelato, ma da allora vari scontri si sono susseguiti; l’ultimo è del 2016 e il Gruppo di Minsk è ancora in funzione. Nonostante l’inanità di questo sforzo di pacificazione che li vede ufficialmente coinvolti, gli Stati Uniti sono ben presenti nel Caucaso Meridionale, con un uso accorto dei loro aiuti finanziari a tutte e tre le Repubbliche Caucasiche (Georgia, Armenia e Azerbaijan), sì da tutelare i propri interessi in un’area tra le più dotate di risorse di idrocarburi.

Nonostante tenesse a presentarsi al mondo con il profilo del mediatore, Clinton smentì più volte questa rappresentazione, ricorrendo all’intervento militare americano, seppure sotto l’insegna della NATO. Il primo fu quello in Somalia nel 1993, con l’invio di un contingente speciale con lo scopo di catturare Aidid, il “signore della guerra” che aveva attaccato ripetutamente le forze ONU. Operazione che si concluse con un imbarazzante insuccesso, costato la vita di 18 soldati statunitensi.

L’anno dopo intervenne in Haiti per riportare al potere il presidente Aristide, spodestato da un colpo di stato. Nella guerra nei Balcani intervenne due volte attraverso la NATO: nel 1995 in Bosnia (dopo il massacro di Srebrenica) e nel 1999 bombardando la Serbia e devastando Belgrado. Infine, per rappresaglia nei confronti di Al Qaida che aveva rivendicato gli attentati del World Trade Center di New York del 1993 e quelli delle Ambasciate americane in Kenia e Tanzania, del 1998, Clinton ordinò il bombardamento di basi di Al Qaida in Afghanistan e in Sudan.

IIIDominio economico e marginalizzazione

Mondo unipolare e globalizzazione

Molto si è detto e scritto sul rapporto tra la fine del blocco sovietico e l’esplosione della globalizzazione economica e finanziaria. Al di là della ricerca delle causalità (quanto l’una cosa abbia concorso a determinare l’altra, e viceversa), sono indubitabili la concomitanza temporale e le interdipendenze tra i due accadimenti storici. D’altra parte, essendo gli Stati Uniti il centro motore della globalizzazione, nel momento in cui essi diventano potenza unipolare, è ovvio che questa diventa il terreno privilegiato attraverso cui si esercita il loro dominio economico sul mondo. Al quale non sfugge, ovviamente, la regione dell’Asia Occidentale e Nord Africa (WANA), dove il tradizionale dominio, caratterizzato soprattutto dal controllo del petrolio, viene corroborato – oltre che dal versante militare – dall’espansione della globalizzazione economica e in particolare dal culmine di quella che è stata chiamata la “terza tappa” della globalizzazione finanziaria (1986-1995).32

Insieme alla globalizzazione, approda nell’area la sua ideologia portante, il neo-liberismo, con tutto il suo carico di liberalizzazioni e privatizzazioni, che si applica con impegno a sostituire – in alcuni casi molto rapidamente – l’impianto socialista delle strutture economiche precedenti, creando un ceto di potenti affaristi, ipocritamente chiamati “uomini d’affari”, arricchitisi grazie alle nuove “riforme”. In definitiva, il neo-liberismo, in quasi tutti i paesi dell’area, anziché creare economie competitive, ne ha rafforzato la fisionomia di economie di rendita. L’incrocio tra questa realtà e la liberalizzazione degli scambi internazionali non poteva che incrementare il processo di marginalizzazione economica di gran parte di questi paesi, marginalizzazione che continua fino ai giorni nostri.

I meccanismi della marginalizzazione

Al destino della marginalizzazione non sfuggono nemmeno alcuni paesi in cui, a partire dagli anni ’80, vi è stato un certo sviluppo degli IDE (Investimenti Diretti Esteri). E’ il caso delle delocalizzazioni – da parte d’imprese europee del settore tessile/abbigliamento/calzaturiero – delle fasi a più alta intensità di manodopera della catena del valore. I lavoratori marocchini, tunisini ed egiziani delle aziende delocalizzate hanno da sempre subito la concorrenza asiatica ma questa è divenuta asfissiante con l’ingresso della Cina nel WTO33 nel 2001 e la fine degli Accordi Multifibre (AMF)34 nel 2005.35

L’indebitamento e la crisi del debito

Negli anni ’90, la dimensione della marginalità e della subalternità economica dell’area WANA è evidenziata dai pesanti passivi delle bilance nazionali dei pagamenti. Passivi dovuti a bilance commerciali perennemente in deficit (con l’eccezione di alcuni paesi petrolieri), volumi di IDE e aiuti internazionali notevolmente inferiori alle rimesse degli emigrati, ingenti flussi finanziari verso i paesi industrializzati, dovuti al servizio del debito. Ed è proprio l’indebitamento pubblico a costituire un facile aggancio per l’assoggettamento economico di questi paesi da parte degli Stati Uniti.

Di solito, l’indebitamento è conseguente a un accattivante marketing finanziario.36 Così è stato per i paesi arabi. Nei due decenni precedenti (’70 e ’80), le grandi banche del mondo occidentale avevano bisogno di piazzare il loro eccesso di liquidità, legato soprattutto ai petrodollari. Lo fecero distribuendo prestiti “facili” in quasi tutti i paesi in via di sviluppo. All’inizio degli anni ’80, molti paesi iniziarono ad avere difficoltà a rimborsare i prestiti. Anche nell’area WANA era scoppiata la crisi del debito!37

Washington Consensus e neo-liberismo

Quando un paese non riesce a rispettare le scadenze della restituzione e del pagamento degli interessi, ricorre al FMI (Fondo Monetario Internazionale). Questo può “aiutarlo” con una ristrutturazione del debito (principalmente con il riscaglionamento) e la concessione di nuovi prestiti, suoi e della BM (Banca Mondiale),38 per onorare i debiti con le banche e per finanziare cosiddetti progetti di sviluppo. La ristrutturazione del debito è, però, condizionata dall’impegno del paese ad attuare un PAS (Programma di Aggiustamento Strutturale), “concordato” con le Istituzioni di Bretton Woods (FMI e BM).

I PAS non facevano altro che mettere in pratica il famoso Washington Consensus, l’intesa stabilita nel 1989 tra Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti. Un’intesa su un insieme di politiche economiche da imporre, in cambio di concessioni creditizie, ai paesi con difficoltà di bilancio. Lo scopo dichiarato era quello di creare le condizioni per la stabilità e la crescita economica,39 e prevedeva un set di “riforme” ispirate rigorosamente alla ideologia neo-liberista, tra cui: rigida disciplina di bilancio (austerità), riduzione della spesa pubblica per impieghi ritenuti improduttivi (sanità, istruzione, sostegno ai prezzi dei beni di prima necessità), riduzione delle imposte dirette, svalutazione della moneta, liberalizzazione dei tassi d’interesse, del commercio estero e degli investimenti esteri, privatizzazioni, deregolamentazione dei mercati e dell’economia.

Le conseguenze dei PAS furono devastanti per i paesi arabi costretti ad accettarli, in primo luogo i paesi del Maghreb (Marocco, Algeria, Tunisia, Mauritania) ma anche Egitto, Giordania, Libano, Bahrein, Yemen. Da un lato, disoccupazione, povertà, spesso insopportabile per l’eliminazione del prezzo politico dei beni di prima necessità, a cominciare dal pane. Dall’altro, sistemi produttivi sempre più fragili e resi dipendenti dai mercati esterni. Per contro, avendo causato l’abbassamento dei prezzi delle materie prime, in primo luogo del petrolio, i primi beneficiari dei PAS furono le multinazionali. Inoltre, non va dimenticato che tutte le opere infrastrutturali finanziate dalla Banca Mondiale, erano realizzate da imprese occidentali, soprattutto americane, che oltre a lucrare alti profitti, spesso evadevano le tasse, impoverendo ancora di più i paesi debitori.

Paul Krugman40 ha chiamato il Washington Consensus la “nuova saggezza dominante”, divenuta, negli anni ’90, norma nei dibattiti economici. Il suo carattere ideologico viene così spiegato: “Ma come ogni saggezza dominante, essa deriva da un processo circolare, fondato più sul fatto che dei personaggi importanti danno forza al dogma per averlo essi stessi assunto, che non su delle prove concrete”.41

Se nei paesi dell’area WANA, i PAS, proprio per l’evidenza dei loro risultati negativi, hanno suscitato dissenso e ostilità (ad eccezione che nelle ristrette cerchie di politici, funzionari, esperti e “uomini d’affari” che con i PAS si sono abbondantemente impinguati), bisogna riconoscere che il Washington Consensus, forse per il suo carattere operativo di “piano d’azione” – una sorta di manuale pratico delle teorie di Milton Friedman e dei suoi Chicago Boys – ha avuto un ruolo non secondario nella diffusione nel mondo occidentale, e in particolare in Europa, dell’ideologia neo-liberista.”42

“Un curioso misto d’ideologia e di cattiva economia, un dogma che talvolta dissimulava appena degli interessi privati.” Così Joseph Stigliz43 definisce l’azione del FMI, nella prefazione alla prima edizione del libro in cui ha mosso pesanti critiche all’operato dello stesso FMI.44

In definitiva, il comandamento principale dell’ortodossia neo-liberista, contenuto nel Washington Consensus e praticato dal FMI, è la guerra santa contro l’intervento dello Stato in economia.”45

Ricolonizzazione?

Poiché il FMI era (ed è tuttora) ancorato ai mercati finanziari globali, svolgendo il ruolo di garante nei confronti dei creditori, la sua funzione di strumento principe della globalizzazione finanziaria a trazione americana è diventata sempre più evidente. Una specie di ricolonizzazione.

A un nuovo colonialismo, fa pensare anche il modus operandi del FMI.Se il governo del paese destinatario dell’intervento, non ottempera alle prescrizioni del PAS, il FMI smette di erogare il finanziamento. E’ il principio della “condizionalità”.46 Condizioni per la concessione di una linea di credito; condizioni per non interromperla. Questo il ricatto continuo attraverso cui il FMI s’intromette pesantemente su ogni decisione di politica interna, col pretesto delle ricadute sull’economia del paese. E qual è il provvedimento di un governo nazionale che non abbia riflessi di carattere economico?

A fronte di questa continua violazione della sovranità nazionale si è, salvo rare eccezioni, assistito a una “incondizionata” acquiescenza dei Governi, che si spiega solo con la situazione di sudditanza per le emergenze finanziarie che li spinge a chiedere la “protezione” del FMI. Spesso l’acquiescenza si accompagna alla paura di manifestare la pur minima osservazione rispetto a misure che essi ritengono addirittura nefaste per il proprio paese, perché questo basta per essere definito un atteggiamento “ostile” al FMI che, a quel punto si sente autorizzato a interrompere l’erogazione del finanziamento. Talvolta, per questa punizione, è bastato solo un peccato di omissione; per esempio non aver informato il FMI di una misura ovvia e assolutamente rientrante nei suoi criteri. E’ successo nel 1997 all’Etiopia, oggetto del disappunto congiunto di FMI e Stati Uniti, per aver rimborsato anticipatamente un prestito – misura di per sé encomiabile – senza l’avallo preventivo del FMI.47

Il ruolo politico del FMI

A dimostrare la valenza politica dell’operato del FMI nell’area WANA, basterebbe l’esempio dell’Algeria all’inizio degli anni ’90. L’allora Capo del Governo, Mouloud Hamrouche (1989-1991) aveva acceso grandi speranze, con un vasto programma di riforme per modernizzare un paese ancora impigliato nelle rigidità del nazionalismo socialista. Per poter finanziare le riforme, Hamrouche ha bisogno di liquidità e si rivolge al FMI. Dato il carattere liberale del programma di riforme, questo poteva benissimo essere accettato, almeno come primo passo per sbloccare il sistema economico algerino. Con la consueta arroganza, il FMI risponde che il prestito si sarebbe potuto erogare ma con la solita condizionalità dei Programmi di Aggiustamento Strutturale. Hamrouche rifiuta ma dopo poco è costretto a dimettersi e l’Algeria si avvia al decennio più buio della sua storia.48

L’opacità, spesso la segretezza, del processo decisionale ha caratterizzato la gestione degli interventi del FMI, nonostante i proclami sulla trasparenza.49 Un’opacità talvolta funzionale a operazioni “improprie” come, per esempio, erogare, anche attraverso la corruzione, fondi destinati alla “stabilizzazione politica” all’interno di un paese, oppure volti a ottenere contropartite geopolitiche.50

Si è prima detto del nesso tra FMI e globalizzazione finanziaria e, di conseguenza, tra FMI e Stati Uniti. Ma c’è n’è un altro più diretto ed esplicito, anche se non tutti se lo ricordano: gli Stati Uniti hanno un sostanziale diritto di veto su tutte le decisioni del FMI.

 

IV – Potenza unipolare e petrolio

Petrolio e globalizzazione

Se con la globalizzazione finanziaria, il debito diventa lo strumento principale di sottomissione51 dei paesi dell’area WANA (West Asia & Nord Africa) da parte degli Stati Uniti, ormai potenza unipolare, negli anni novanta rimangono saldi, anzi si rafforzano, i pilastri tradizionali del dominio economico americano, in primo luogo il petrolio.

Il petrolio conserva un posto rilevante nell’economia mondiale globalizzata. Una doppia circolazione conferisce agli idrocarburi un ruolo di acceleratore della globalizzazione. In primo luogo, per il commercio degli idrocarburi: più di due terzi del petrolio prodotto nel mondo è oggetto di transazioni internazionali. In secondo luogo, le eccedenze finanziarie generate da queste transazioni alimentano la finanziarizzazione dell’economia mondiale e la globalizzazione finanziaria.

Il controllo dell’oro nero

Fin dall’immediato dopoguerra, gli Stati Uniti usano il petrolio come arma della loro politica di potenza. Per questo il controllo delle risorse petrolifere dell’Arabia Saudita (le sue riserve sono le più importanti al mondo, circa il 25%) è stato il primo obiettivo della loro politica petrolifera.52 L’interesse degli USA per il petrolio saudita non è legato ai loro bisogni, bensì a quelli dei paesi europei. Attraverso il controllo degli approvvigionamenti si può favorire o indebolire lo sviluppo dei paesi importatori di petrolio. Pertanto, controllando l’Arabia Saudita e le sue risorse d’idrocarburi, gli USA possono fare pressione sui loro concorrenti.

La strategia degli USA mira principalmente al controllo dei prezzi. Obiettivo che non possono conseguire direttamente ma facendo giocare ai paesi petrolieri del Golfo, alleati degli Stati Uniti, in primo luogo l’Arabia Saudita, un ruolo decisivo per piegare l’OPEC agli interessi americani.53 Non va inoltre dimenticato che, fino alla recente crisi con il Qatar, l’Arabia Saudita ha il pieno controllo del Consiglio di Cooperazione del Golfo, attraverso il quale esercita il ruolo di “guardiano” del Golfo, sorvegliando il 45% delle riserve di petrolio del mondo.

Inoltre, è decisivo il controllo del riciclaggio dei petrodollari. Per questo, fin dai tempi di Kissinger, gli Stati Uniti hanno indotto i Sauditi a investire le loro laute rendite nell’economia americana, e, poiché i petrodollari sono introdotti anche in Europa, essi conferiscono al dollaro quel valore internazionale attraverso il quale gli USA esercitano il loro dominio nell’economia mondiale. Infine non va dimenticato che i soldi della monarchia saudita vengono impiegati anche per combattere il comunismo dappertutto nel mondo.(Dopo la morte di Nasser, l’Arabia Saudita incomincia a investire milioni di dollari nell’economia egiziana, per sottrarre l’Egitto all’influenza sovietica. Con i loro finanziamenti i sauditi aiutano, in Congo, Mobutu a reprimere la contestazione del Katanga, appoggiano, in Somalia, Siad Barre nella guerra dell’Ogaden. Partecipano attivamente anche alla “Lega anticomunista mondiale”. Cfr. Michel Collon – Gregoire Lalieu, La strategie du chaos. Imperialisme et Islam. Entretiens avec Mohamed Hassan, Investig’Action – Couleur Livres, 2017.))

Va infine ricordato che controllare il petrolio significa anche decidere delle sorti dei paesi produttori. Gli idrocarburi rappresentano il 40% del PIL di questi paesi e sono il veicolo principale, se non unico, del loro inserimento nell’economia mondiale.

Petrolio e potenza militare

Con le presidenze di Bush padre e Bill Clinton, il nesso tra petrolio e presenza e interventi militari degli Stati Uniti diventa evidente agli occhi del mondo e, soprattutto dei popoli arabi. La guerra del Golfo viene intrapresa per impedire all’Iraq di Saddam Hussein, da un lato, di acquistare una posizione troppo importante sommando la produzione e le risorse petrolifere di Iraq e Kuwait54, dall’altro, di rappresentare una minaccia per l’Arabia Saudita, il fedele ausiliare di cui ormai gli Stati Uniti non possono fare a meno.55 Anche la decisione di lasciare Saddam Hussein a governare l’Iraq ebbe il suo tornaconto petrolifero. Grazie al perdurare della “minaccia” irachena, gli Stati Uniti poterono, infatti, insediare la loro presenza militare in Arabia Saudita, Kuwait, Qatar, Bahrein e Oman (con libero uso dei loro spazi aerei e accesso ai porti), dispiegando così un ombrello securitario sui principali paesi produttori di petrolio della penisola arabica.

Ma per mantenere il controllo delle risorse petrolifere, gli Stati Uniti usano anche la via di mantenere un paese nel caos e nell’anomia. E’ il caso della Somalia. Non sono le riserve petrolifere somale ma l’uso che ne potrebbe fare un paese ben governato, a preoccupare gli Stati Uniti. In questo ancora oggi brucia quanto accaduto in Sudan, dove il petrolio scoperto nel 1978 dagli americani viene venduto alla Cina.

Petrolio e sanzioni

Negli anni ’90 ci fu una nutrita messe di sanzioni – adottate direttamente dagli USA o per il tramite del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – che colpirono l’Iraq56, l’Iran57 e la Libia.58 Ancorché mosse da finalità strategiche generali e ufficialmente motivate come “punizioni” inflitte ai cosiddetti “stati canaglia”(Rogue States)59 per i loro comportamenti reprobi e inaccettabili dalla comunità internazionale, queste sanzioni avevano l’effetto di penalizzare i paesi produttori di petrolio poco docili (“elettroni liberi”), a tutto vantaggio dei paesi ausiliari.

Il controllo del Mediterraneo

Negli anni ’90, gli Stati Uniti importano circa il 50% del loro fabbisogno d’idrocarburi. Non basta quindi controllare l’area di maggiore provenienza di questo fabbisogno, e cioè il Medio Oriente, ma occorre garantire la sicurezza del corridoio mediterraneo da Suez a Gibilterra. Tutta la politica estera degli Stati Uniti verso i Paesi dell’Africa settentrionale è informata da questa esigenza di sicurezza. Dopo Camp David, l’Egitto riceve dagli USA un assegno annuo di 1,5 miliardi di dollari, di cui 1,3 per spese militari. Tunisia e Marocco sono paesi alleati e resi sicuri da governi autoritari. In Marocco c’è la spina del conflitto annoso del Sahara Occidentale. C’è, però, James Baker, ex Segretario di Stato con Bush padre, che, inviato personale del Segretario Generale delle Nazioni Unite, sta tentando, con i suoi due“Piani”, una mediazione tra Marocco (sostenuto dalla Francia) e Polisario (sostenuto dall’Algeria.60 La Libia, l’unico “Stato canaglia” e, al tempo stesso importante produttore di idrocarburi, è stato neutralizzato con le sanzioni.

La questione più complessa rimaneva quella dell’Algeria. Grande paese produttore di petrolio e gas, sede d’importanti investimenti americani nel settore energetico, esportatore di petrolio e gas negli Stati Uniti, l’Algeria aveva da tempo attirato l’attenzione e l’interesse degli USA, trovando sempre accomodamenti soddisfacenti con governi algerini, sebbene questi non fossero ancora inclini alle aperture liberiste che essi avrebbero auspicato.

Da quando, però, l’Algeria aveva iniziato a essere dilaniata dal conflitto interno, durato per tutti gli anni ‘90 (il “decennio nero”), l’attenzione si era tramutata in grande preoccupazione.61 Per questo gli americani, in un mai esplicito conflitto con la Francia, si fanno mallevadori della nomina di Liamine Zéroual alla Presidenza della Repubblica. Piuttosto che l’incertezza della cosiddetta “guerra civile”, preferiscono che il potere sia in mano a un poco qualificato militare, che lo esercita in modo autoritario, ma al quale si può suggerire, essendone ascoltati, di aprirsi a compromessi con la parte “moderata” degli integralisti islamici.

L’interesse per gli oleodotti

La fine del blocco sovietico aveva aperto agli Stati Uniti le porte di un’altra area assai ricca di risorse d’idrocarburi, il Caucaso meridionale e il Bacino del Mar Caspio. La penetrazione americana in questa area è emblematica del rapporto tra le Majors americane del petrolio e l’Amministrazione USA. Immediatamente dopo l’indipendenza delle ex Repubbliche Sovietiche, furono le Compagnie petrolifere a occupare posizioni di rilievo nello sfruttamento delle risorse d’idrocarburi di questi paesi, segnatamente Kazakhstan,62 e Azerbaijan63 trattando direttamente con i loro Governi. Ma anche direttamente con la Russia, approfittando, da un lato, del clima “cooperativo” che si era stabilito tra Russia e Stati Uniti, dall’altro, delle aperture mercatiste di Eltsin.64

All’inizio degli anni ’90, gli Stati Uniti non avevano ancora una linea strategica per le aree del Caucaso e dell’Asia Centrale, che andasse oltre i richiami all’indipendenza, la democrazia, i diritti umani. Fu a seguito delle pressioni delle lobbies petrolifere, che l’Amministrazione Clinton, non solo definì esplicitamente questa strategia65 ma intervenne concretamente nella regione. La prima occasione fu la promozione dell’oleodotto Bakou-Tbilissi-Cheyhan che doveva portare il petrolio del Caspio dall’Azerbaijan al Mediterraneo, attraverso la Georgia e la Turchia. Con una forte iniziativa diplomatica che metteva insieme le compagnie petrolifere con i governi dei paesi interessati, gli Stati Uniti imposero la scelta del percorso dell’oleodotto, facendo prevalere i loro interessi strategici su altre opzioni economicamente più valide. A causa delle sanzioni fu evitato il passaggio attraverso l’Iran, che dal punto di vista geografico sarebbe stato la soluzione più razionale. La Russia dovette rinunciare a far passare il pipeline dai suoi territori. Anche il logico attraversamento dell’Armenia dovette essere scartato.66 L’opera era esplicitamente destinata a premiare la Turchia per il sostegno agli USA nella guerra del Golfo, ma il percorso fu allungato per evitare di attraversare il Kurdistan turco.

La vicenda dell’oleodotto Bakou-Tbilissi-Cheyhan rese evidente un rapporto più complesso tra intervento politico USA e interessi delle lobbies petrolifere. Gli Stati Uniti si muovono, è vero, a supporto delle compagnie, ma non sono più l’agente dei loro interessi immediati. Queste debbono accettare anche di ridurre i propri profitti, per un interesse strategico (e a lungo termine anche economico) più importante, che è la sicurezza delle pipelines.67 E sicurezza vuol dire che esse debbono rimanere assolutamente sotto il controllo degli Stati Uniti, evitando che cadano in mano altrui, cioè dell’Iran e della Russia.68

Tutto ciò segna un’evoluzione della geopolitica degli idrocarburi, che non si limita più al controllo del momento estrattivo ma si estende a quello del trasporto.

Battute d’arresto

La politica americana, tra razionalità economica e interesse strategico, può avere buon gioco finché la Russia si limita a una politica di contenimento (un riflesso della guerra fredda), ma quando questa, alla fine degli anni ’90, mette in atto un intervento decisamente proattivo nei confronti delle ex Repubbliche sovietiche, gli Stati Uniti cominciano ad avere qualche insuccesso. E’ il caso del progetto di gasdotto Trans-Caspico (Trans-Caspian Gas Pipeline – TCGP) che dal Turkmenistan, attraversando il Mar Caspio e passando per Azerbaijan, Georgia e Turchia, sarebbe dovuto arrivare al Mediterraneo. Il progetto portato avanti, dal 1998, alacremente dall’Amministrazione Clinton, prevedeva la costruzione di un “corridoio” Est-Ovest, sotto il controllo americano e, ancora una volta, evitando ogni influenza russa e iraniana sulle risorse d’idrocarburi del Bacino del Caspio. Ma nel 2000, il riavvicinamento tra Russia e Turkmenistan aveva indotto il Governo turkmeno, nonostante le pressioni di Washington, a rifiutare di patrocinare l’opera, inferendo un colpo mortale al progetto e alle attese americane.69

E’ quindi in quegli anni che comincia il “grande gioco” della geopolitica dei gasdotti che, oltre alla Russia, vedrà, negli anni successivi, l’entrata nella partita di altri giocatori, in primo luogo la Cina. Una partita tuttora in corso.

Gli Stati Uniti non riuscirono a portare a compimento un altro progetto, promosso da Unocal nel 1998:70 quello dell’oleodotto che avrebbe dovuto portare il petrolio del Caspio verso il consumo asiatico, attraversando l’Afghanistan e il Pakistan. Questa volta furono i Talebani a opporsi al progetto. Si parla anche di una sovvenzione di 43 milioni di dollari, erogata dal Governo USA al regime dei Talebani, nel maggio 2001, sei mesi prima dell’attentato alle Torri Gemelle, nella speranza, senza successo, di far loro accettare il progetto dell’oleodotto.71 Progetto che fu definitivamente abbandonato dopo l’11 settembre. E’ arduo sostenere che la guerra in Afghanistan, iniziata un mese dopo, sia una conseguenza di questo insuccesso; ma non è del tutto fuori luogo ritenere che tra le sue motivazioni vi sia anche il petrolio.

Andrea Amato

  1. Un’altra denominazione geografica ma relativa a un’area più circoscritta, è quella introdotta dalla Banca Mondiale: MENA (Middle East & North Africa).[]
  2. Politicamente il Maghreb è oggi quello dell’UMA (Unione del Maghreb Arabo) che comprende: Algeria, Libia, Marocco, Mauritania e Tunisia).[]
  3. L’antica Siria Islamica che, sotto il Califfato Abbaside, si estendeva dal golfo di Alessandretta (oggi in Turchia) fino al Sinai, comprendendo gli attuali territori di Siria, Libano, Israele, Palestina e Giordania. Chiamata anche Grande Siria. La denominazione Shaam è tornata in auge, in campo internazionale, con l’Organizzazione jihadista DAESH (ISIS), Stato Islamico dell’Iraq e dello Shaam (Dawla al Islamya fi’l Iraq wa as-Shaam) []
  4. Per la Repubblica di Venezia, e poi per gli inglesi, il Levante (o Levante Mediterraneo) era lo Shaam degli arabi, cui venivano aggiunti la Turchia, Cipro e talvolta anche l’Egitto e la Cirenaica. Gli Stati del Levante, in senso francese, sono Siria e Libano, da quando nel 1920, furono, dalla Società delle Nazioni, sottoposti al Mandato della Francia.[]
  5. In origine il Mashreq era rappresentato da un territorio che comprendeva lo Shaam e la Mesopotamia. Per l’UE, vi si aggiunge l’Egitto ma si toglie l’Iraq; con l’ambiguità mai risolta se del Mashreq faccia o no parte anche Israele.[]
  6. Oltre ai paesi del Mashreq formato UE, ne fanno parte l’Iraq, gli Stati del Golfo, lo Yemen e il Sudan.[]
  7. Termine oggi controverso quanto alla connotazione geografica. Era evidente, quando si collocava tra un Estremo Oriente, che cominciava con l’India, e un Vicino Oriente che arrivava ai Balcani, parte dell’Impero Ottomano. In generale, oggi per Medio Oriente s’intende il territorio del Mashreq Arabo, senza il Sudan ma con Israele, Turchia e Iran e, talvolta Afghanistan e Caucaso.[]
  8. Denominazione usata ormai solo dalla Diplomazia francese. Corrisponde all’accezione corrente di Medio Oriente.[]
  9. Sono i Paesi membri della Lega Araba, cioè quelli del Maghreb e del Mashreq Arabo, con in più Somalia, Gibuti e Comore.[]
  10. Sono i Paesi dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica.[]
  11. Sono i sei Stati membri del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) e cioè: Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Oman e Qatar, cioè tutta la penisola arabica eccetto lo Yemen.[]
  12. I Paesi del Sud e dell’Est del Mediterraneo ai quali era rivolta la Politica Mediterranea della Comunità Europea dal 1976 al 1995. Da notare che tra questi Paesi vi era anche la Iugoslavia.[]
  13. Sono i 12 Paesi del Partenariato Euro-Mediterraneo (Processo di Barcellona) del 1995: Algeria, Autorità palestinese, Cipro, Egitto, Giordania, Israele, Libano, Malta, Marocco, Siria, Tunisia e Turchia. Quest’ultima non ne fece più parte quando divenne Paese Candidato all’ingresso nell’Unione Europea, così come Malta e Cipro dopo esserne diventati Stati Membri.[]
  14. Nel 2003, l’UE (presidenza Prodi) lanciò la PEV (Politica Europea di Vicinato), che si rivolgeva a un insieme di Paesi intorno all’UE (“cerchio di amici”), che comprendeva i paesi del Partenariato Euro-Mediterraneo e i vicini dell’est (con l’esclusione dei Balcani,): Bielorussia, Ucraina, Moldavia, Armenia, Georgia e Azerbaijan. I paesi dei Balcani Occidentali (ex Iugoslavia e Albania) non erano compresi perché candidati o candidati potenziali.[]
  15. In realtà l’espressione in lingua inglese è più precisa “Greater Middle East”: Medio Oriente più grande o Medio Oriente allargato.[]
  16. cfr. Lloyd Demause, The emotional life of Nations, Karnac Books, 2002.[]
  17. Sono noti gli scandali della Montedison – per la fabbricazione di armi chimiche in Iraq – e della BNL da cui passavano i finanziamenti americani al governo iracheno. A seguito di quest’ultimo scandalo, l’Addetto militare dell’Ambasciata italiana a Baghdad si suicidò.[]
  18. Fin dall’inizio della guerra, Osama Bin Laden fu uno degli organizzatori e finanziatori dell’addestramento dei Mujaheddin; aveva costruito in Pakistan una serie di campi, dove operavano istruttori americani e pakistani e dove sembra fossero presenti anche consiglieri britannici.[]
  19. Dei dodici Stati membri dell’allora Comunità Europea, solo il Lussemburgo non partecipò alla Coalizione.[]
  20. cfr. Samir Kassir, L’infelicità araba, Einaudi 2006. Samir Kassir, intellettuale e politico libanese, uomo di sinistra e sostenitore della causa palestinese, fu assassinato con un’auto bomba nel 2005, all’età di 45 anni.[]
  21. Discorso pronunciato il 2 agosto 1990 da George H. W. Bush all’Aspen Institute, in presenza di Margaret Tatcher.[]
  22. Talvolta si trattava anche di non risposte, come nel caso della dissoluzione della Iugoslavia, vicenda dalla quale gli Stati Uniti si tennero sostanzialmente in disparte, fino alle sue fasi finali. Ma anche questa era una conseguenza della Guerra del Golfo; sebbene questa fosse andata bene, l’opinione pubblica americana non avrebbe gradito un’altra avventura militare.[]
  23. In realtà erano state proprio le aperture di Gorbaciov a favorire le ambizioni geostrategiche di Bush.[]
  24. E’ stata chiamata anche “Guerra civile per procura”, innanzi tutto perché accanto agli attori libanesi, contrapposti su basi confessionali (cristiani contro musulmani), sono intervenuti direttamente la Siria e l’OLP, da un lato, e Israele, dall’altro. Per questo quella de Libano è stata definita sia “guerra imperialistica siriana” sia “spostamento in Libano del conflitto arabo-israeliano. Ma guerra per procura, anche perché dietro le componenti libanesi e i loro fiancheggiatori espliciti, vi sono i grandi burattinai che tirano le fila da lontano, e cioè: Stati Uniti e Francia, da un lato, e Russia e Iran dall’altro.[]
  25. Michel Aoun, cristiano maronita, capo dell’esercito e poi, dal 1988 al 1990, capo di uno dei due governi (l’altro era guidato dal sunnita Salim el Hoss) che, nella confusa fase finale della guerra civile, si contendevano contemporaneamente la legittimità della guida del paese. Aoun è, dal 2016, il Presidente della Repubblica Libanese.[]
  26. Rafiq Hariri, sunnita, miliardario, rappresentante degli interessi sauditi, amico di Jacques Chirac, fu Capo di ben cinque Governi tra il 1992 e il 2004. Allineato al potere siriano fino al 2004, quando ne diventa oppositore. Lo stesso anno viene assassinato. L’ONU, su richiesta francese, apre un’inchiesta, a tutt’oggi non ancora conclusa.[]
  27. Fronte Islamico di Salvezza. Partito islamista fondato nel 1989. Nelle elezioni locali del 1990 vince nella maggioranza dei comuni e delle province. Al primo turno delle elezioni legislative (26/12/1991) conquista la maggioranza dei seggi. Non ci sarà un secondo turno perché l’esercito interrompe il processo elettorale e scioglie il FIS. Ancora oggi è forte il dissenso tra quelli che considerano quest’atto un colpo di stato e quelli che pensano che esso fosse obbligato per evitare uno stato teocratico e salvare la democrazia. Una volta messi fuori legge, i militanti del FIS danno vita a una lotta terroristica attraverso organizzazioni jihadiste che si succedono nel tempo, fino ai giorni nostri.[]
  28. Quella degli jihadisti algerini, in effetti, non è solo guerra contro lo Stato ma anche contro la società civile.[]
  29. George Corm, libanese, economista, storico, professore universitario, esperto presso Organizzazioni Internazionali. Dal 1998 al 2000 è stato Ministro delle Finanze della Repubblica Libanese.[]
  30. George Corm, Histoire du Moyen Orient. De l’Antiquité à nos jours. La Decouverte, Paris, 2007[]
  31. Itzhak Rabin fu assassinato nel 1995.[]
  32. Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, riunisce tutti i paesi europei più Stati Uniti e Canada insieme a quelli dell’ex URSS.[][]
  33. World Trade Organisation (Organizzazione Mondiale del Commercio) []
  34. Si tratta di Accordi internazionali in deroga al GATT, che dal 1974 al 2005, hanno fissato quote d’importazione dei prodotti del tessile e abbigliamento, per proteggere le produzioni dei paesi industrializzati.[]
  35. Nella marginalizzazione dell’area c’erano paesi meno marginalizzati di altri. Per esempio la Turchia. Per rimanere nel campo del tessile/abbigliamento, nonostante i salari in Turchia fossero il doppio di quelli magrebini, i valori dei prodotti turchi importati in Europa sono stati sempre il doppio o il triplo di quelli del Marocco o della Tunisia. Ciò a causa dell’Unione Doganale, statuita con l’UE nel 1995, che concede alla Turchia la regola della “trasformazione sostanziale”, cioè la possibilità di trasformare prodotti provenienti da tutto il mondo, a differenza degli altri Paesi Partner Mediterranei, sottoposti alle regole d’origine.[]
  36. Così è successo anche nella finanza mondiale, a partire dalla seconda metà degli anni’90, con i “nuovi prodotti finanziari” (derivati, futures, ecc.) e poi con i subprime loans che hanno portato all’esplosione della bolla immobiliare negli Stati Uniti.[]
  37. La crisi del debito, scoppiata in Messico nel 1982, ha una triplice origine: 1) la decisione, nel 1979, di Paul Volcker, Presidente della Federal Reserve, di aumentare notevolmente i tassi d’interesse per contrastare l’inflazione negli Stati Uniti. Poiché i tassi d’interesse dei crediti internazionali sono legati a quelli USA, anche questi hanno avuto un’impennata (tra il 1970 e il 1980 sono passati dal 4-5% al 16-18%; 2) un forte ribasso dei prezzi delle materie prime, causato da un eccesso di offerta per la necessità dei paesi debitori di procurarsi dollari con cui rimborsare i crediti; 3) un sensibile calo dell’offerta creditizia, a causa dei timori delle banche occidentali proprio per le palesi difficoltà dei debitori. Un vero e proprio circolo vizioso che, se pure in forme diverse, si è prodotto anche nell’area WANA.[]
  38. Inizialmente la Banca Mondiale finanziava solo progetti di sviluppo, soprattutto infrastrutturali. Dagli anni ’80 ha cominciato a erogare un sostegno finanziario generale con “prestiti all’aggiustamento strutturale”. Ma poteva farlo solo se approvati e secondo le condizioni poste dal FMI.[]
  39. “Stabilità e crescita”, come è noto, è anche il nome dato nel 1997 al Patto stabilito dagli Stati membri dell’UE per il controllo dei bilanci statali.[]
  40. Paul Robin Krugman, statunitense, è economista, saggista, docente all’Università di Princeton, editorialista del New York Times nonché premio Nobel per l’economia nel 2008.[]
  41. Paul R. Krugman, Pop Internationalism, M.I.T. Cambridge (Massachussets), 1996. Nostra traduzione dall’edizione francese, La mondialisation n’est pas coupable. Vertus et limites du libre- echange, La Decouverte, Paris 1998. Pag. 133[]
  42. Agli inizi degli anni ’90, in una riunione al Comitato Economico e Sociale Europeo, reagendo a un mio intervento sulla necessità dell’intervento pubblico in economia, un esperto olandese mi apostrofò più o meno così: “Ma lo sa che quello che lei sta dicendo è contrario al Washington Consensus?” e vedendolo strabuzzare gli occhi alla mia risposta affermativa, mi sono reso conto che per quel giovane economista era inconcepibile che un membro di un Organismo dell’UE non fosse d’accordo con il Washington Consensus.[]
  43. Joseph Eugene Stiglitz, statunitense, è economista, saggista, Premio Nobel per l’economia nel 2001. Ha lavorato nell’amministrazione Clinton come Presidente dei consiglieri economici (1995 – 1997) ed è stato Senior Vice President e Chief Economist (1997 – 2000) presso la Banca Mondiale prima di essere costretto alle dimissioni dal Segretario del Tesoro Lawrence Summers.[]
  44. Così continua Stiglitz: “Quando le crisi irrompevano, il FMI prescriveva delle soluzioni certamente standard, ma arcaiche e inadatte, senza tener conto degli effetti che esse avrebbero avuto sugli abitanti dei paesi ai quali si intendeva applicare.” Nostra traduzione da Joseph E. Stiglitz, La grande désillusion, Fayard, Paris, 2002, pag.23, prima edizione in Francia di: Joseph E. Stiglitz, Globalization and Its Discontents, Norton, New York, 2002. Nell’ultima edizione, Joseph E. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori. Antiglobalizzazione nell’era di Trump, Einaudi, Torino, 2018, la prefazione del 2002 non è stata riportata.[]
  45. Ecco come ne parla ancora Stiglitz: “Le prescrizioni del FMI, in parte fondate sull’ipotesi sorpassata secondo la quale il mercato approda spontaneamente ai risultati più efficaci, vietano gli interventi dello Stato sul mercato, che sarebbero invece auspicabili: le misure che possono guidare la crescita economica e migliorare il destino di tutti. Ciò che è messo in causa, quindi, nella maggior parte degli scontri che riferirò, sono delle idee, e le concezioni del ruolo dello stato che ne derivano.” La grande désillusion, op.cit. pag. 21[]
  46. Il dogma della condizionalità è stato esportato nella Comunità Economica Europea, fin dai primi interventi di Aiuto internazionale. E da allora continua a informare tutte le politiche europee di cooperazione.[]
  47. cfr. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, op. cit. pag. 151[]
  48. Un altro esempio, in una regione adiacente, è il ruolo politico svolto dal FMI in Iugoslavia. Come tutti i paesi mediterranei, negli anni ’70, anch’essa aveva attinto ai petrodollari, contraendo cospicui prestiti con le banche occidentali. Dopo la crisi del debito anche in Iugoslavia interviene il FMI. Gli obiettivi politici erano chiari: sostenere economicamente la Iugoslavia, paese non allineato, con lo scopo tradizionale di destabilizzare il blocco sovietico, ma anche per impedire un eventuale riallineamento della stessa Iugoslavia. Con l’avvento di Gorbaciov, questi obiettivi venivano meno. Il FMI, su impulso degli Stati Uniti, chiuse pertanto i rubinetti. E’ difficile dire quanto questa scelta abbia pesato sulla dissoluzione della Iugoslavia, ma certamente non vi è stata indifferente.[]
  49. Ecco come ne parla lo stesso Stigliz: “Sono stato felice di vedere quanto sia stata sottolineata, durante la crisi finanziaria del 1997-1998, l’importanza della trasparenza, ma rattristato dall’ipocrisia delle istituzioni – FMI e Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti – che la reclamano in Asia: esse debbono annoverare se stesse fra le meno trasparenti che io abbia mai conosciuto nella vita pubblica.” La grande désillusion, op.cit. pag. 22[]
  50. Un vasto campionario di episodi di questo genere è contenuto nel libro autobiografico di John Perkins, un ex consulente della Banca Mondiale, il cui compito è stato quello di irretire e corrompere alcuni governanti per l’accensione d’ingenti prestiti destinati a finanziare mega progetti di dubbia utilità ma di sicuro beneficio per predatrici multinazionali americane. John Perkins, Confessioni di un sicario dell’economia, Minimun Fax, Roma, 2004[]
  51. E’ celebre – e ancora attualissimo – l’aforisma di John Adams, secondo presidente USA (1735-1826): “Ci sono due modi per conquistare e rendere schiava una Nazione. Uno è con la spada, l’altro con il debito”. []
  52. La presenza USA in Arabia Saudita comincia negli anni ’30 con la concessione del Governo saudita alla Standard Oil of California che insieme alla Texaco, nel 1944 costituisce la Arabian American Oil Company – ARAMCO. Solo nel 1973, il Governo saudita acquisisce il 25% della Compagnia.[]
  53. L’apogeo di questa strategia fu raggiunto a metà degli anni ‘80, quando il prezzo del petrolio fu ricondotto al livello voluto dagli USA: tra i 16 e i 18 dollari al barile. Un prezzo relativamente basso, che indusse molti paesi produttori ad aumentare le quantità immesse nel mercato. La conseguenza fu un ulteriore crollo dei prezzi che nel 1986 scese anche sotto i 10 dollari. Fu chiamato il “contro-shock petrolifero”, in contrapposizione agli shock del 1973 (reazione alla fine della convertibilità del dollaro in oro, amplificata dalle reazioni alla guerra del Kippur) e del 1979 (guerra Iraq-Iran). L’interesse degli USA al crollo dei prezzi, in quel momento, era molteplice. Il più esplicito era quello di aumentare i consumi nei paesi occidentali. Non si può non notare, poi, una connessione tra il “contro-shock petrolifero” e la “contro-rivoluzione” neo-liberista di Ronald Reagan e Margaret Tatcher. Ma se si guarda ai suoi risultati, il “contro-shock” è stato il colpo mortale inferto all’economia dell’Unione Sovietica.[]
  54. Il Kuwait aveva visto negli anni ’60 la presenza della Zapata Petroleum Company, la società che aveva fatto la fortuna della famiglia Bush. []
  55. L’invasione del Kuwait da parte dell’Iraq fu peraltro la risposta a disattese rivendicazioni petrolifere. A seguito della guerra con l’Iran, l’Iraq si era trovato pesantemente indebitato (60 miliardi di dollari) con Arabia Saudita, Kuwait e Emirati Arabi Uniti. Ritenendo di essersi sacrificato per la sicurezza di tutti i paesi arabi, l’Iraq aveva chiesto la cancellazione dei debiti e un risarcimento – consistente nel diritto di trivellazione nei giacimenti situati al nord del Kuwait – per i danni subiti dall’aumento della produzione di petrolio da parte dei vicini (soprattutto il Kuwait), approfittando della guerra con l’Iran.[]
  56. Con le sanzioni contro l’Iraq, imposte dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU nell’agosto del 1990, le riserve petrolifere irachene vengono congelate (una sorta di riserva strategica per l’avvenire) mentre l’Arabia Saudita s’accaparra del 75% delle sue esportazioni. []
  57. Nel marzo 1995 Bill Clinton emana un primo Ordine Esecutivo che vieta il commercio di idrocarburi con l’Iran, seguito da un secondo che estende il divieto a tutte le attività commerciali e d’investimento. La normativa delle sanzioni all’IRAN viene sistematizzata con l’Iran-Libya Sanctions Act (ILSA) adottato dal Congresso USA nell’agosto 1996. Queste misure si situavano all’interno della strategia del dual containment che si prefiggeva d’intervenire, direttamente o indirettamente, ora contro Teheran ora contro Baghdad. L’escalation impressa da Clinton aveva l’obiettivo di mettere in difficoltà il governo di Rafsanjani.[]
  58. Mentre le sanzioni del 1992-93 adottate contro la Libia, dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, a seguito dell’attentato aereo di Lockerbie, non riguardavano il petrolio, il Congresso USA nel 1996 approva l’ILSA (l’Iran-Libya Sanctions Act), che vieta ogni tipo di commercio con i due paesi.[]
  59. L’espressione è stata usata per la prima volta, su Foreign Affairs nel 1994, dal consigliere per la sicurezza nazionale Anthony Lake. Si riferiva a quelle «nazioni che mostrano un’incapacità cronica a impegnarsi costruttivamente col mondo esterno», segnatamente a Iran, Irak, Libia, Corea del Nord e Cuba. Essa è stata successivamente utilizzata sia da Bill Clinton che dal suo segretario di Stato Madaleine Allbright. Le azioni che caratterizzano uno “Stato canaglia” sono: tentativi di produrre armi di distruzione di massa; sostegno al terrorismo; trattamento biasimevole dei propri cittadini; propaganda ostile nei confronti degli Stati Uniti.
    L’espressione è stata aspramente criticata da Noam Chomsky, in Rogue States. The Rule of the Force in World Affair, Cambridge MA, South End Press; trad. it. Egemonia americana e “stati fuorilegge”, Bari, Edizioni Dedalo, 2001. Si veda anche J. Derrida, Stati canaglia: due saggi sulla ragione, Cortina, Milano, 2003.[]
  60. Il “Piano Baker 1” prevedeva la totale autonomia (salvo politica estera e difesa) del Sahara Occidentale all’interno dello Stato del Marocco. Accettato dal Marocco, fu respinto da Polisario e Algeria. Il “Piano Baker 2” prevedeva l’autodeterminazione del popolo saharaui tramite referendum. Formalmente accettato dalle due parti, non fu mai applicato per la disputa insorta per l’identificazione dell’elettorato.[]
  61. Nel suo saggio, Vers une sécurité commune en Méditerranée (ed. Les études de Damoclès, Lyon, 2000), Bernard Ravenel riporta un lungo elenco di dichiarazioni di personalità americane che danno conto di questa preoccupazione.[]
  62. Fin dall’indipendenza del Kazakhstan, la Chevron è presente nei giacimenti di Tengiz e Karaghanak (gas naturale) mentre Exxon e Conoco sono tra le Compagnie che si spartiscono lo sfruttamento del giacimento offshore di Kachagan.[]
  63. Nel 1994 viene firmato il “Contratto del secolo” (così chiamato per l’ampiezza dell’area di sfruttamento e il numero e l’importanza dei contraenti) tra il Governo Azero e tredici Compagnie petrolifere di otto paesi. Tra queste le major americane Exxon e Amoco. Un successivo contratto coinvolge anche la Chevron, nel cui Consiglio d’amministrazione siede Condoleezza Rice, futura Segretario di Stato nel secondo mandato di George W. Bush.[]
  64. Nel 1992, nelle isole Bermuda, si costituiva il Caspian Pipeline Consortium, per la costruzione e la gestione dell’oleodotto che, a tutt’oggi, trasporta il petrolio kazako dal campo petrolifero di Tenghiz, sul Mar Caspio, al terminal di Novorossiysk, sulla costa russa del Mar Nero, attraversando territorio russo. Componevano il Consorzio i Governi di Russia (attraverso la Transneft) e Kazakhstan e le americane Chevron e Mobil nonché altre società russe, kazake e occidentali (l’Agip vi aveva una quota del 2%). L’oleodotto entrò in funzione solo nel 2003. Più che da problemi politici, il ritardo fu dovuto agli intralci burocratici frapposti dalle entità territoriali russe, preoccupate solo di lucrare il più possibile dalla loro rendita di posizione.[]
  65. Nel 1995, il Consigliere per la Sicurezza Nazionale di Bill Clinton, Sandy Berger, si fece promotore di una proposta di strategia per la regione del Caspio, varata ufficialmente, nello stesso anno, dal Deputies Committee. Questa strategia – messa a punto da successivi interventi dell’Amministrazione Clinton (soprattutto di Strobe Talbott, Special Adviser del Segretario di Stato per i New Independents States) – si pone cinque obiettivi: 1) Rafforzare l’indipendenza dei Nuovi Stati Indipendenti (Armenia, Azerbajan, Georgia); 2) Promuovere l’orientamento pro-occidente di questi Stati e creare un quadro regionale di cooperazione con la Turchia; 3) Diversificare l’offerta energetica nel mondo, riducendo l’eccessiva dipendenza dalle risorse del Golfo Arabo-Persico; 4) Escludere l’Iran da ogni accesso ai benefici economici legati allo sviluppo della regione; 5) Promuovere gli interessi delle compagnie americane nella regione. (cfr. Samuel Lussac, Géopolitique du Caucase: au carrefour énergétique de l’Europe de l’Ouest, Editions Technip, Paris 2010. Vedi anche: Ilya Levine, US Policies in Central Asia: Democracy, Energy and the War on Terror, Routledge, London, 2016). []
  66. Nonostante l’opposizione dell’Azerbaijan (in conflitto con l’Armenia per il Nagorno-Karabach), gli Stati Uniti avevano proposto il passaggio attraverso l’Armenia ma il Governo di Robert Kotcharian rifiutò l’offerta per evitare di fare in cambio concessioni sul Nagorno-Karabach. La decisione di aggirare l’Armenia comportò 600 chilometri di tubi in più (il costo per km era di 1,6 milioni di dollari). []
  67. cfr. Laurent Ruseckas, State of the field. Energy Issues in Central Asia and the Caucasus, Access Asia Review Vol 1, No. 2, July 1 1998. The National Bureau of Asian Research, Seattle. []
  68. Non tutte le compagnie accettarono le nuove regole del gioco. Chevron e Exxon si sfilarono sostanzialmente dell’oleodotto Bakou-Tbilissi-Cheyhan, riducendo al minimo la loro partecipazione al Consorzio, lasciandone la guida alla British Petroleum, divenuta all’occasione la più fedele alleata di Washington.[]
  69. Bill Clinton in persona, il 18 novembre 1999, aveva assistito alla firma della Dichiarazione relativa all’avvio del progetto. Nel marzo 2000, i capi di stato della Turchia e del Turkmenistan avevano confermato l’opzione per il gasdotto. Nel giugno dello stesso anno, il Presidente Niyazov, dopo aver riaffermato la prosecuzione dei programmi in corso con l’Iran, decide di porre fine al progetto, obbligando la Shell e l’americana PSG International, promotori del progetto, a cessare le loro attività nel Turkmenistan. Clinton tenterà , senza successo, di far retrocedere il Presidente turkmeno dalla sua decisione.[]
  70. Nel 1998, John Maresca, Vice Presidente dell’Unocal Corporation, sostenuto anche da Dick Cheney (Segretario alla Difesa con Bush padre e futuro Vice presidente degli Stati Uniti), riesce a convincere il Congresso dell’interesse americano per l’oleodotto. []
  71. Cfr. Michel Collon – Gregoire Lalieu, op. cit.[]
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