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Il lungo declino dell’Italia industriale

di Alfonso
Gianni

di Alfonso Gianni –

Il drammatico caso dell’Ilva di Taranto ha riacceso i riflettori sul declino industriale del nostro paese. Tanto più che non si tratta di un caso isolato, basti pensare alla vicenda dell’Alitalia o a quella che investe il settore degli elettrodomestici. Al di là di quelli che saranno gli esiti dei tardivi confronti in corso fra governo, Mittal e sindacati, una cosa appare chiara. Quando due diritti tutelati dalla Costituzione si fronteggiano, come nel caso dell’Ilva, il lavoro da un lato e la salute di chi lavora e di un’intera cittadinanza dall’altro lo Stato deve sentire l’obbligo di intervenire non con misure mediatorie o tampone, ma riassumendo la figura di stato imprenditore, quindi attraverso una nazionalizzazione che è l’unica possibilità di decarbonizzare e bonificare l’azienda e allo stesso tempo di garantire l’occupazione esistente sia per garantire la produzione di acciaio necessaria, sia per dare vita ad in processo di conversione ecologica e produttiva degli impianti. Lo stesso comportamento di Mittal, con la richiesta degli esuberi e la contemporanea pretesa di godere di uno scudo penale, evidenzia come il capitale privato, in questo caso multinazionale, è solamente interessato alla profittabilità nel più breve tempo possibile per i propri investimenti. Affidarsi ad esso significa condannare occupazione e salute e mettersi nelle mani dell’altalena del mercato internazionale.

Ma purtroppo il carattere pubblico della proprietà non garantisce di per sé un positivo esito della vicenda. E’ la precondizione necessaria ma non sufficiente. C’è bisogno di una politica industriale che tenga conto di complessi fattori, quali gli impegni alla riduzione delle emissioni che portano alla crisi climatica, l’integrazione nel mercato internazionale, le relazioni con il territorio – in questo caso addirittura con una città -, la difesa e lo sviluppo della occupazione, le condizioni di sicurezza del lavoro.

Un insieme di cose quindi che tutte insieme dovrebbero costituire una politica, una programmazione, una visione di largo e lungo respiro, una moderna politica industriale quindi. Cosa di cui l’Italia è priva da troppo tempo. E “Industria 4.0”, come vedremo meglio poi, non rappresenta affatto la risposta a questo problema ormai cronico che segna la debolezza del nostro paese.

Nei primi anni del nuovo millennio uscì un piccolo ma assai denso libro di uno dei più importanti sociologi italiani, Luciano Gallino, scomparso nel 2015. Già il titolo diceva tutto: La scomparsa dell’Italia industriale (Einaudi editore, 2003). Dopo una rapida ma puntuale analisi dei principali settori industriali, quali l’informatica, l’elettronica, l’aeronautica civile, la chimica, l’alta tecnologia, Gallino giungeva a una lapidaria conclusione: “La settima economia del mondo – cioè quella italiana – pare essere diventata un nano industriale”. Non solo ma l’Italia rischiava così di diventare una semplice colonia industriale di altri paesi. Sono passati 25 anni, un quarto di secolo, da quando Gallino scriveva quelle parole e la situazione attuale non fa che confermarle. 

L’Italia è uscita dall’informatica, eppure ne era stata l’antesignana, grazie alla straordinaria capacità innovativa della Olivetti di Ivrea – già famosa per le sue macchine da scrivere – di Adriano Olivetti, figlio di Camillo, il fondatore, e dei suoi valenti ingegneri e tecnici.  Alla mostra di New York dell’ottobre 1965 l’Olivetti presentò una macchina, chiamata P101 che la grande stampa americana di allora definì come the first desk top computer of the world. Ma, per quanto ciò possa sembrare paradossale, il destino dell’azienda era già segnato, come rivelano anche i documenti resi oggi disponibili per gli studiosi dall’apertura degli archivi di Mediobanca, l’importante banca d’affari italiana fondata nel 1946 da Raffaele Mattioli e da Enrico Cuccia, che ne fu direttore generale fino al 1982. 

Infatti già nel luglio del 1964 era avvenuta la cessione della divisione elettronica alla General Electric. L’Olivetti aveva accumulato debiti, ma il suo bagaglio tecnico era invidiabile. Ma Cuccia puntava più sulla chimica che non sull’elettronica e quindi considerò insormontabile il problema del finanziamento della società. Così nel 1997 venne ratificata la sua uscita dalla produzione dei computer. L’imprenditore Roberto Colaninno, che Massimo D’Alema annoverava fra i “capitani coraggiosi”, la trasformò in un contenitore finanziario per favorire la Telecom, azienda di telecomunicazioni. In questo modo una posizione d’avanguardia nell’innovazione produttiva che l’Italia poteva vantare nel mondo, venne cancellata. Nel 2013 il marchio Olivetti venne cancellato dal registro delle imprese italiane quotate in borsa. Al suo ultimo proprietario, il finanziere milanese Marco Tronchetti Provera, semplicemente non interessava.

Ma la triste storia della Olivetti non è isolata. Se guardiamo all’aeronautica (quella civile), alla chimica, all’acciaio (abbiamo già accennato all’attuale drammatica vicenda dell’Ilva di Taranto), agli elettrodomestici (si pensi al caso recentissimo della Whirlpool di Napoli),  all’automotive (la Fca si fonde con la Psa senza apprezzabili reazioni se non quelle di chiedere, ma senza garanzie reali, che non ci sia chiusura di stabilimenti in un settore che rappresenta il 5,6% del Pil italiano), tutti settori nei quali l’Italia un tempo aveva un peso e anche una rilevante capacità esportativa, si incontrano storie analoghe, almeno per quanto riguarda una comune e pessima fine. Tutte storie legate da un filo nero, cioè dalle politiche di privatizzazione che negli anni novanta furono, come valore  complessivo, inferiori solo a quelle della Thatcher nel Regno Unito. Le classi dirigenti italiane, economiche e politiche, si curvarono volentieri al passaggio del mainstream neoliberista, secondo cui lo Stato doveva uscire dall’economia e l’economia doveva farsi finanza. Conseguentemente venne privatizzato praticamente l’intero sistema bancario italiano. 

Gli imprenditori preferivano investire in una finanza che intanto gonfiava le sue micidiali bolle piuttosto che correre i rischi di una impresa produttiva esposta alla concorrenza e alla competitività di un mercato internazionale agguerrito. In questo modo più che integrare la nostra economia la si trasformava in una colonia, dove la nostra capacità produttiva è al servizio di altri. 

L’Italia un tempo andava famosa per i cosiddetti distretti industriali, ovvero zone del paese dove erano concentrate determinate produzioni in un reticolo di piccole imprese ben collegate con il territorio. Un modello di cui andavamo fieri. Che venne studiato da analisti americani (come, a metà degli anni ottanta, fecero J. Michael Piore e Charles F. Sabel) per riproporlo addirittura per gli States. Ma quel sistema di piccole fabbriche poteva vivere e prosperare a condizione che esistessero delle grandi imprese collocate al centro dei settori strategici attraverso i quali si formava la catena del valore. “Piccolo è bello”, un’affermazione che andava di moda quarant’anni fa, si rivelò un’ingenua illusione. Oggi autorevoli fonti ci informano che rispetto a vent’anni fa la base manifatturiera si è ridotta di 80mila imprese! 

Il risultato sull’occupazione italiana è stato drammatico. Si calcola che dal 1993 l’industria del nostro paese abbia perso ben 700mila posti di lavoro. Il mantra della flessibilità del e nel rapporto di lavoro è stata la maschera ideologica che ha accompagnato questo distruttivo processo. Il diritto del lavoro è stato smantellato, così come le grandi conquiste del movimento operaio italiano degli anni sessanta e settanta. La cancellazione dell’articolo 18, ovvero l’impedimento a licenziare senza giusta causa, ne è l’emblema. I governi che si sono succeduti, con trascurabili differenze tra quelli di centrosinistra e quelli di destra, hanno sempre emanato leggi e decreti che hanno trasformato il diritto del lavoro in una sorta di diritto commerciale, come se la posizione del datore di lavoro fosse identica a quella del lavoratore, fosse alla pari, come avviene in una relazione commerciale. Si è fatto credere che la facilità di licenziamento avrebbe aperto le porte a una maggiore occupazione. Che i contratti a termine fossero un viatico per una stabile occupazione futura. Non è stato così e non poteva esserlo. 

Il Jobs Act, la più importante legge sul mercato del lavoro in ordine di tempo, fatta dal governo presieduto da Matteo Renzi, grazie agli incentivi generosi per gli industriali ha sì portato a un qualche incremento di occupazione –  che non è detto che si trasformerà a tempo indeterminato – ma in un quadro nel quale il Pil italiano è rimasto inferiore del 6,5% rispetto al periodo antecedente la grande crisi cominciata in Europa nel 2008. Questo significa che l’occupazione è ripresa solo in settori a scarso valore aggiunto, come il turismo o la ristorazione, ove gli stipendi sono molto bassi e la produttività è stagnante. Nello stesso tempo è aumentata la composizione di lavoro precario, di part-time involontario, di lavoro pessimamente retribuito e privo di diritti, come quello imposto ai migranti. 

La stessa distinzione fra lavoro dipendente e lavoro autonomo è fortemente messa in discussione dalle nuove modalità di funzionamento delle imprese. Particolarmente nei settori di punta dello sviluppo del capitalismo mondiale. Come nel cosiddetto capitalismo delle piattaforme, ove imprese come ad esempio la multinazionale Deliveroo della ristorazione a domicilio, viene giustamente contestata dai cosiddetti riders che chiedono di essere considerati lavoratori dipendenti con il corredo conseguente di diritti e non piccoli proprietari dei loro mezzi di produzione, che poi sarebbero biciclette o motorini e smartphone. 

In sostanza i governi hanno scelto di agire dal lato della offerta di lavoro anziché da quello della domanda. E i risultati non potevano che essere negativi. Già Keynes avvertiva che la debolezza sul mercato del lavoro deriva in sostanza dalla gracilità del sistema economico nel suo insieme e in particolare dalla domanda di lavoro. In generale gli economisti contemporanei concordano sul fatto che per avere una crescita stabile dell’occupazione bisogna che il tasso di crescita sia almeno superiore al 2% annuo. C’è anche chi dice che sarebbe necessario avvicinarsi al 3%. Invece le previsioni di crescita attuali per l’Italia sono molto lontane da quei valori. Secondo l’agenzia Reuters, che abbassa le stesse previsioni governative, l’Italia registrerà alla fine dell’anno una crescita pari allo 0,1% e nel 2020 può sperare al massimo in un +0.4%. In queste condizioni gli interventi concentrati sul mercato del lavoro o sono inefficaci o peggio aggravano la situazione allargando la fascia del precariato, con un abbassamento generale dei diritti e della qualità complessiva del lavoro. 

C’è da domandarsi quali siano le cause del declino economico italiano. Alcuni lo individuano nell’ingresso nella moneta unica, l’euro. Ma questo avvenne quando già il declino era in corso. E in ogni caso non è vero che attuare svalutazioni della propria moneta aumenti di per sé la competitività di un sistema, quando esso è gracile nelle proprie basi. L’ultima svalutazione della lira, agli inizi degli anni novanta, non portò benefici in termini di ripresa produttiva. Si è già detto che le massicce privatizzazioni hanno indebolito l’Italia, anziché rinforzarla. Ma il problema non è solo economico. Investe pienamente la qualità che è venuta sempre più decadendo delle nostre classi dirigenti economiche e politiche. 

Giuseppe Berta, che insegna storia industriale alla Bocconi di Milano, sostiene che tutto deriva dalla tempesta scatenatasi nel biennio 1992-93, quando l’iniziativa della Magistratura – con la famosa inchiesta chiamata Tangentopoli –  decapitò di fatto il sistema politico italiano. Da allora sarebbe venuta meno la fiducia nella politica, nella stessa industria pubblica, nelle famiglie del capitalismo nazionale. In realtà quella crisi di credibilità comincia assai prima, certamente lungo tutti gli anni ottanta, se non addirittura negli anni settanta, quando il sistema politico italiano non seppe rispondere positivamente alla grande voglia di cambiamento innestata dal ’68 in poi dalla classe operaia e dalle masse giovanili e studentesche. Le principali riforme avvennero allora, da quella del fisco a quella della sanità, dal nuovo regime dei suoli allo statuto dei diritti dei lavoratori. 

Ma poi la politica italiana fu subito egemonizzata dal neoliberismo, quella che chiamo la grande rivoluzione conservatrice del capitalismo, vincente nel Regno Unito con la Lady di ferro come negli Usa con Reagan. Da allora partì una controrivoluzione anche sul piano etico. L’individualismo proprietario si fece strada e con esso i vizi di un’Italia antica tornarono in forma rinnovata a prendere il sopravvento. Negli anni ottanta non vi era opera pubblica che non fosse appesantita da tangenti corpose per via della corruzione di esponenti politici e amministratori pubblici. L’intervento della Magistratura con Tangentopoli seppe scovare e punire molti corrotti, ma non riuscì la stessa cosa con i corruttori. Anzi questi ultimi furono ben felici di liberarsi del vecchio sistema politico e rappresentarsi da sé sulla scena politica. La figura di Silvio Berlusconi, un imprenditore che si fa politico, è l’emblema di quel cambio d’epoca. 

Tutto questo ha comportato una perdita di qualità del personale politico italiano e, peggio ancora, la riduzione della politica a pura tecnica di governo, privata di ideali e di prospettive di cambiamento. L’ingresso in Europa non ha mutato le cose, visto che nella Ue, soprattutto con il sopraggiungere della grande crisi del 2008, hanno prevalso senza grandi opposizioni le politiche dell’austerità che hanno condannato i paesi già in declino ad ulteriori passi indietro, a ridursi a colonie dei paesi più forti, come scrisse appunto Gallino. Come ha dimostrato uno studio condotto da Annamaria Simonazzi, Andrea Ginzburg e Gianluigi Nocella (in Cambridge Journal of Economics, 2013) la predominanza tedesca in campo industriale, la sua capacità di controllo delle reti e dei flussi produttivi ha generato una funzionalità di buona parte dei sistemi nazionali alle esigenze tedesche. I meccanismi di integrazione industriale in Europa si sono sviluppati in modo asimmetrico. Ad Est questi hanno “accelerato un processo di diversificazione produttiva combinata con una specializzazione”, mentre l’effetto verso il Sud dell’Europa è stato quello di un “impoverimento della matrice produttiva”, in particolare, come per l’Italia centro-meridionale, di “quelle regioni meno collegate alla Germania”.

Se guardiamo al nostro attuale grado di internazionalizzazione, notiamo una sua sensibile restrizione. Nella scorsa primavera l’Istat, l’istituto statistico ufficiale italiano, ha rilevato che nel triennio 2015-2017 il numero delle imprese che hanno delocalizzato all’estero alcune funzioni è sceso al 3,3% su un totale di 21.475 aziende con più di 50 addetti. Nell’analisi precedente, effettuata nel periodo 2001-2006 la quota era ben più alta, pari al 13,4%. Questo rallentamento è significativo perché dimostra che le aziende che hanno resistito alla crisi sono quelle ormai inserite nelle catene globali del valore, ovvero sono magari piccole ma lavorano per altre più affermate. E’ il caso della rete delle piccole imprese metalmeccaniche del Nord Italia e dell’Emilia e Romagna che lavorano per l’automotive tedesco e ne subiscono, come in questo periodo, le pause e le crisi.  Non è un caso che oggi le regioni del Nord Italia vorrebbero autonomizzarsi dal resto del paese e collegarsi meglio alle regioni più produttive e avanzate del resto dell’Europa. Che non è altro che l’aggiornamento del vecchio progetto di Kerneuropa elaborato da Wolfgang Schauble e Karl Lamers a metà degli anni novanta.

Oggi si parla tanto in Italia di “Industria 4.0”, ma non è altro che la versione nostrana del progetto tedesco, presentato ad Hannover nel 2011, un progetto che vuole mantenere la supremazia competitiva internazionale della Germania in termini di eccellenza tecnologica e si basa sul rafforzamento del suo sistema partecipativo-corporativo che però in Italia non esiste. Sandro Trento, professore di Economia delle imprese, ha messo in luce che il pacchetto di incentivi di “Industria 4.0” punta sul fatto che bisogna cambiare e ammodernare i macchinari – informatizzando, digitalizzando, robotizzando – mentre invece il vero problema è il cosiddetto “capitale umano”. Una brutta espressione, ma molto usata. Essa comunque pone l’accento sulla formazione, sul funzionamento della scuola pubblica, sulla capacità dello Stato di progettare interventi in nuovi settori che siano determinanti per quella riconversione ecologica dell’economia indispensabile per evitare che il riscaldamento climatico produca danni catastrofici ed irreversibili. Ma proprio qui sta la grande debolezza del nostro paese. Da un lato formiamo ancora buoni laureati, ma essi trovano lavoro solo all’estero, visto che qui vanno avanti solo i lavoretti a basso contenuto qualitativo e produttivo. Dall’altro lato le industrie pretendono di delineare la formazione dei giovani secondo le loro esigenze immediate, tecnicizzando quindi l’intero sistema scolastico. Invece abbiamo bisogno di cittadini dotati di una cultura il più possibile universale, capace di comprendere e raccogliere le sfide della modernità e del necessario superamento  di un sistema, il capitalismo, che mette a repentaglio la sopravvivenza del pianeta.

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