di Andrea Allamprese e Enrico Sartor – Il 19 febbraio scorso, con una sentenza resa all’unanimità, la Corte Suprema inglese ha dato ragione a un gruppo di autisti di Uber che avevano fatto causa alla società per il riconoscimento del loro rapporto di lavoro. La sentenza ha confermato in maniera definitiva le sentenze di primo grado e d’appello ed ha ricondotto la prestazione degli autisti alla categoria dei “workers”, che – nel sistema giuridico inglese – non sono employees (subordinati), ma neppure self-employed (autonomi). Dal punto di vista pratico, la sentenza contente agli autisti di richiedere anche gli arretrati relativi alle ferie retribuite e un salario che rispetti il minimo legale. Nello specifico sistema costituzionale inglese, la sentenza ha quasi la forza di un atto legislativo ed interessa i 60.000 dipendenti della Uber (di cui 40.000 nella sola Londra) e gli altri lavoratori della Gig economy. Sono attualmente pendenti contro Uber più di mille cause, che interessano soprattutto lavoratori nel settore della distribuzione e dei trasporti.
La sentenza della Corte inglese ha rigettato la teoria sostenuta da Uber, secondo cui con gli autisti non stipulerebbe contratti di lavoro; secondo la narrativa fittizia della compagnia, gli autisti stipulerebbero contratti di servizio direttamente con i clienti, con un ruolo puramente ausiliario di Uber, che fungerebbe da mediatrice attraverso la sua piattaforma digitale. Ma quelli che Uber definisce termini di partenariato sono stati invece riqualificati dalla Corte Suprema come contratti di lavoro. Il ragionamento del lord justice, che parla a nome di tutti i colleghi, si focalizza – in circa 40 pagine – sulla risoluzione di quello che si è rivelato il nodo centrale, cioè il fatto che gli autisti di Uber devono firmare, prima di avere accesso alla app, un contratto in cui accettano la narrativa fittizia della compagnia. Il criterio adottato dai sei giudici della Supreme Court ha la potenzialità di essere applicato a tutti i lavoratori delle piattaforme: rifacendosi a una sentenza della Baronessa Hale di una decina di anni fa, la Corte ha confermato che un contratto firmato da una delle parti in condizione di debolezza e in violazione dei diritti stabiliti dalla legge ha un valore giuridico quasi nullo. Per un sistema giudiziario fondato sul santo Graal della firma contrattuale non è poco.
Quella del 19 febbraio è dunque una vittoria importante per i lavoratori delle piattaforme con molti caveat. Prima di tutto c’è l’aspetto tecnico della decisione. Questa, pur facendo presumere che futuri casi analoghi azionati avanti alle Corti britanniche saranno quasi certamente decisi in senso favorevole ai lavoratori, in realtà è il frutto di 6 anni di azione giudiziaria in vista di una sentenza definitiva e questa non estende automaticamente i diritti riconosciuti a tutti i lavoratori come farebbe una legge o un contratto collettivo di categoria. Qualsiasi lavoratore delle piattaforme, a cui vengano negati le ferie retribuite e il salario minimo, ora sa quanto lunga e costosa possa essere la via giudiziaria per ottenere la garanzia dei propri diritti. D’altra parte questa vittoria può dare nuova linfa all’azione sindacale nel settore della Gig economy, ove si è registrata negli ultimi anni una crescente presenza di organizzazioni sindacali non tradizionali quali la UVW e la IWGB, estremamente attive le quali, dal 2014 in poi, hanno condotto diverse campagne con successo.
In secondo luogo, benché di fatto i gig workers sostituiscano progressivamente i tradizionali lavoratori dipendenti, anche la sentenza della Suprema Court non riconosce loro tutti i diritti degli employees (lavoratori subordinati), soprattutto per quanto riguarda la tutela economica dei periodi di malattia e la tutela contro i licenziamenti illegittimi. Del resto, in quest’ultima materia, anche la condizione degli employees non è facile. La legislazione del lavoro inglese (s. 108 dell’Employment Rights Act del 1996) prevede anche per loro un “minimum qualifying period” di 2 anni prima che possano beneficiare della protezione contro il licenziamento ingiustificato1.
In terzo luogo, Uber ha già dimostrato in California quanto sia disposta a combattere per la sopravvivenza del suo modello produttivo. Quando quello stato americano approvò nel 2019 una legge che definiva “lavoratori” gli autisti della compagnia, Uber lanciò un referendum popolare per cambiare la legge. Uber ha vinto il referendum con una larga maggioranza, grazie alla promessa di sostanziali aumenti retributivi rispetto al salario minimo (120% in più) e di assicurazioni per infortuni e malattie professionali, e grazie a una campagna elettorale costata 200 milioni di dollari. Anche nel Regno Unito, subito dopo la sentenza del 19 febbraio, Uber si è lanciata in una campagna aggressiva dichiarando falsamente che la sentenza della Supreme Court avrebbe un campo di applicazione limitato ai lavoratori ricorrenti, in quanto i miglioramenti introdotti dopo il 2016 avrebbero modificato i termini di partenariato per tutti gli altri autisti. Secondo l’agenzia Reuters, i miglioramenti introdotti in California a favore degli autisti hanno pesato per un 1% sui costi complessivi della compagnia, mentre il pagamento delle ferie e della malattia avrebbe comportato un aggravio dei costi del 5%. Il Financial Times, da parte sua, avanza l’ipotesi che Uber possa agire sul governo conservatore di Boris Johnson per spingere ad una modifica della legge sul lavoro laburista e della stessa definizione di “worker”.
Questo terzo punto mette in rilievo quello che in realtà è il profondo problema strutturale di Uber (e di analoghe società della Gig economy) e spiega l’ostinazione della compagnia a continuare una battaglia legale per circa 6 anni. Da una parte, Uber soffre da sempre perdite enormi e nonostante questo attira continui investimenti che la mantengono a galla. Le ragioni di questo fenomeno sono molteplici: dalla necessità del venture capital di trovare investimenti migliori dell’orizzonte piatto delle economie occidentali al mito che prima o poi enormi innovazioni tecnologiche cambieranno tutto, come il progetto delle auto a guida robotizzata in cui Uber ha investito enormi risorse e che è ora defunto. Un altro aspetto strutturale importante è l’attrazione esercitata sui lavoratori dal modello offerto dalle imprese della Gig economy: la flessibilità lavorativa offerta, magari solo come fuga dal duro comando del lavoro tradizionale e dalla sottoccupazione o disoccupazione tipica di questi anni di stagnazione economica. Sono soprattutto fattori negativi che rendono attraente questa flessibilità, quali la necessità di avere tempo libero per fornire assistenza a minori ed anziani a causa della crescente demolizione dei servizi pubblici, oppure la necessità di avere un secondo lavoro da gestire in base ai tempi del lavoro principale per rispondere al crescente stato di povertà creato da contratti a “zero ore” e bassi salari.
Non a caso la BBC, nella sua sempre più profonda spirale di servilismo conservatore, nel commentare a caldo la sentenza della Supreme Court, ha riportato un’unica intervista a un autista che si lamentava della decisione, perché minacciava il suo desiderio di poter decidere indipendentemente quando lavorare. Infatti la sentenza del 19 febbraio, considerando gli autisti “workers”, rende illegale limitare il compenso alle sole ore di effettivo trasporto dei clienti e non anche alle ore in cui gli autisti sono disponibili e collegati alla app in attesa di una chiamata. Questo può potenzialmente spingere Uber a considerare un sistema tradizionale di turni lavorativi a orari fissi.
Qui la sentenza
- Pertanto un employee con una anzianità inferiore a 2 anni alla data in cui il licenziamento diviene effettivo (“ending with the effective date of termination”) non beneficia della protezione legale contro il licenziamento ingiustificato, ovvero a lui non si applica la s. 94 dell’Employment Rights Act (“right non to be unfairly dismissed”).[↩]