Ho avuto modo di seguire, da remoto, l’edizione 2023 della “Scuola giacobina”, curata dalla rivista Jacobin-Italia, che si è svolta dal 22 al 24 settembre a Firenze.
Le lezioni che ho seguito mi hanno regalato stimoli e suggerito riflessioni, anche in ragione del fatto che quasi tutte sono state introdotte da giovani intellettuali e attivisti. Sottolineo questo aspetto non per un vezzo giovanilista ma perché sono convinta che la costruzione di un’alternativa al modello capitalista e patriarcale non possa che stare nelle mani delle e dei giovani, cioè dei soggetti che maggiormente vivono in le contraddizioni che tale modello produce e che, oggettivamente, hanno più tempo davanti a sé per provare a cambiarlo.
Tornando alla scuola giacobina, vorrei provare a ragionare, in particolare, su alcune questioni che mi sembrano riguardare direttamente alcuni dei contenuti della rubrica “intersezioni femministe”, che curo con Paola Guazzo e che da qualche settimana ha visto la luce all’interno della rivista settimanale di Transform!Italia.
Inizio con la lezione su “Intersezionalità: istruzioni per l’uso” tenuta da Sabrina Marchetti, docente di Sociologia dei processi culturali all’Università Ca’ Foscari di Venezia e autrice di diversi saggi sul lavoro domestico e discriminazioni di genere e razza.
Il concetto di intersezionalità, ha ricordato Marchetti, nasce negli USA, all’interno dei movimenti femministi neri. La “madre” del termine può essere considerata Kimberle Crenshaw, avvocata e femminista statunitense, che si rese conto della necessità di coniarlo, nel 1976, durante il processo contro la General Motors intentato da alcune operaie nere licenziate dalla grande industria automobilistica. Crenshaw provò a sostenere che il licenziamento non era dovuto solo al fatto che le operaie, che lei difendeva, erano le ultime assunte ma aveva a che vedere anche con il colore della pelle perché alle operaie bianche nella medesima situazione non era toccata la stessa sorte.
Le operaie vennero licenziate e la causa fu persa con la motivazione che non si possono mischiare discriminazioni differenti, nella fattispecie di sesso o di razza. Da qui la consapevolezza di quanto fosse necessario elaborare una “lente” analitica capace di spiegare le diverse discriminazioni che agiscono, intersecandosi, sulle soggettività materiali.
L’intersezionalità, quindi, non è una teoria né una sommatoria di oppressioni ma uno strumento di lettura del reale che rende evidente, non in astratto ma nella materialità dell’esistenza di ciascuna/o, come agiscono in modo interconnesso i differenti sistemi di potere, di genere/classe/razza,che determinano le differenti discriminazioni.
L’intersezionalità è divenuta uno dei concetti di fondo della nuova ondata femminista che ha riportato sulla scena politica mondiale un femminismo che fa i conti con la materialità dell’esistenza e non solo con gli aspetti simbolici, seppure anche questi ultimi siano necessari alla comprensione del reale.
Quel che è rimasto in ombra nella lezione ha a che vedere, a mio avviso, sul come si possa trasformare la consapevolezza delle differenti oppressioni che si vivono a livello soggettivo in una coscienza collettiva in grado di dare vita a lotte convergenti.
Se questa convergenza non si determina e non prende corpo un movimento reale capace di unificare lotte di classe, femministe e antirazziste, si rischia l’astrattezza o la rimozione, anche se non voluta, della contraddizione di classe.
L’attuale frammentazione dei movimenti sociali, che pure esistono, ci dice che la strada per Tipperary è ancora lunga.
Le altre due lezioni che ho seguito riguardano il tema del lavoro: l’una, “La falsa scissione fra diritti sociali e diritti civili”, tenuta da Enrico Gullo, dottore in storia dell’arte, lavoratore dell’editoria e attivista con particolare attenzione alla cultura queer, e l’altra, “Il nuovo rifiuto del lavoro”, tenuta da Francesca Coin, sociologa che si occupa di lavoro e diseguaglianze sociali.
Non entro nel merito delle singole lezioni; cito invece alcuni aspetti su cui a mio avviso sarebbe interessante promuovere approfondimenti e riflessioni.
Il primo aspetto ha a che vedere con i dati forniti da Gullo secondo i quali, in Italia, fra i 22 milioni di lavoratrici e lavoratori (poco più di un quarto della popolazione) l’85% ha un contratto a tempo indeterminato.
Benché indeterminato il contratto non però garanzia di stabilità economica perché i bassi salari aumentano sempre più la percentuale di working poors.
Questi due dati potrebbero consentire almeno due riflessioni. La prima, non particolarmente originale, riguarda il fatto che si dovrebbe aprire un stagione di lotta per l’aumento salariale generalizzato non solo sul salaria minimo.
La seconda è che il vero problema dovrebbe chiamarsi “disoccupazione” mentre invece la proposta che va per la maggiore è quella di un “reddito incondizionato” che, benché comprensibile nell’immediato, nella sostanza bypassa il problema senza affrontare i nodi di fondo.
Su questi aspetti mi piacerebbe approfondire ulteriormente.
Il secondo aspetto riguarda quello che Coin chiama “il nuovo rifiuto del lavoro” cioè le dimissioni volontarie. Secondo lo US Bureau of labor statistics , negli Stati Uniti sono venti milioni di persone che hanno dato le dimissioni a partire dalla primavera del 2021, un dato che per evidenziare come il lavoro contemporaneo, spesso sottopagato, precario, afflitto da continui tagli al personale, da un carico troppo elevato e da una cultura tossica, sia diventato insostenibile.
In Italia, secondo la “Nota trimestrale del Ministero del lavoro” ci sono state 485 mila dimissioni volontarie nel secondo trimestre del 2021 con aumento dell’85,2% rispetto al 2020 e del 10% rispetto al 2019. Ma la crescita tendenziale delle dimissioni volontarie è cominciata nel 2016, come dicono i dati dell’Osservatorio del precariato Inps.
Le dimissioni riguardano trasversalmente le generazioni mentre sono numerosi i settori coinvolti (bancario, logistica, assicurativo).
Secondo Coin, dalle interviste effettuate che sono contenute nel suo libro Le grandi dimissioni. Il nuovo rifiuto del lavoro e il tempo di riprenderci la vita (Einaudi, 2023), si rileva la volontà di sottrarsi, individualmente, alla condizione di sfruttamento, pur sapendo di avere poche alternative ma al contempo scegliendo di riprendere in mano il proprio tempo. Le persone che si dimettono si sono rese conto che il loro lavoro è diventato insostenibile e anche se non hanno un’alternativa decidono di liberarsene. Non c’è solo dunque la questione delle tutele dei salari o la richiesta di autonomia, c’è anche un interrogarsi sul diritto alla propria salute e sul senso della propria vita.
A precisa domanda Coin ha però sottolineato che questo rifiuto non va visto come una forma di lotta o una soluzione alla precarietà ma come un sintomo da non sottovalutare.
Senza dubbio quanto sottolineato da Coin ha a che vedere con la solitudine dentro la quale ciascuna/o si trova a vivere le contraddizioni sul posto di lavoro, con l’assenza di lotte, la depoliticizzazione degli ultimi trent’anni, la frammentazione.
La lezione mi ha regalato molti stimoli e al contempo mi ha suscitato qualche domanda:
- davvero si può vivere senza lavorare? e se non si può, non sarebbe meglio tentare di agire il conflitto sul luogo di lavoro piuttosto che sottrarsi?
- ciò che va posto al centro del ragionamento non dovrebbe essere come si ricostruisce oggi una classe capace di mettere in discussione gli attuali rapporti di forza individuando quali luoghi possano aiutare una ricomposizione che consenta di riconoscere collettivamente l’insostenibilità del modello capitalista?
- in mancanza di un movimento capace di cambiare l’ordine esistente delle cose, è comprensibile il fatto che vivere una condizione di precarietà non produce in sé una coscienza e un agire anticapitalisti e che quindi il rifiuto o la fuga sembrano essere l’unica via d’uscita. Ma, senza la capacità di far diventare tutto questo “lotta di classe”, non è che le “esigenze periodiche di regressione proprie del capitalismo finiranno con l’avere la meglio e col far regredire anche conquiste che sembravano irreversibili” come ha recentemente scritto Lidia Cirillo nel ragionare su “intersezionalità, classe e femminismo”?
Anche su questi temi mi piacerebbe continuare a riflettere in forma collettiva.
L’ultima lezione, che voglio brevemente citare, è quella di Sara Farris, che insegna sociologia alla Goldsmiths-University di Londra, su “Il femonazionalismo”.
Il concetto di femonazionalismo, coniato da Farris nell’omonimo libro (Alegre. 2019), va inteso come una categoria analitica per leggere un fenomeno dell’oggi: l’uso da parte dei partiti di estrema destra della rivendicazione dell’uguaglianza di genere per portare avanti politiche islamofobe e razziste.
Le retoriche di destra (e in Italia ne abbiamo innumerevoli esempi dopo la presa del palazzo da parte delle e dei sovranistri nostrani) insistono sull’idea che gli uomini migranti siano un pericolo per le società occidentali anche per il loro atteggiamento oppressivo verso le donne. Come se non vivessimo in una società i cui femminicidi, per mano di uomini bianchi occidentali, non fossero nell’ordine di un’uccisione ogni tre giorni!
Il femonazionalismo è altresì una ideologia che scaturisce da un’inedita intersezione tra nazionalisti, politici neoliberisti, donne delle istituzioni. Una convergenza che promuove il mantenimento della catena materiale di sfruttamento dei lavori destinati alla riproduzione sociale.
Tale ideologia, nel far diventare le disuguaglianze strutturali conflitti culturali, contribuisce alla riorganizzazione neoliberista del welfare. La mercificazione dei lavori domestici, dell’assistenza alle persone anziane o disabili, dell’accudimento delle e dei bimbi ha scaricato molte di queste attività sulle spalle delle donne migranti. Si è creata una situazione per la quale le donne europee, quelle che se lo possono permettere, per lavorare e potersi garantire un’indipendenza economica, non possono fare altro che affidare i lavori di riproduzione sociale ad una donna migrante.
Una bella contraddizione per i movimenti femministi che avrebbero voluto liberare le donne, tutte le donne, da quella sfera domestica nella quale la “mistica della femminilità” avrebbe voluto inchiodarle. Inoltre, se i diritti delle donne si riducono allo scontro di civiltà si legittimano le molteplici forme di oppressione che ancora colpiscono le donne, in ogni parte del mondo.
Anche sul femonazionalismo sarebbe utile approfondire e ragionare collettivamente a partire dalla triste constatazione che nazionalismi e sovranismi sono oggi in ascesa e necessitano di un’analisi precisa e non superficiale. Alcuni testi potrebbero aiutare questo approfondimento. Penso a quello di Sara Farris ma anche al bel libro di Alessandro Scassellati Sforzolini, Suprematismo bianco. Alle radici di economia, cultura, ideologia della società occidentale (DeriveApprodi, 2023).
Nicoletta Pirotta