articoli

Stato di diritto, democrazia e diritti umani tra Danimarca e Kosovo

di Stefano
Galieni

L’intesa fra Danimarca e Kosovo è stata ratificata il 20 dicembre scorso, mediante una dichiarazione congiunta relativa al rafforzamento della cooperazione fra i due paesi. Nel riaffermare le relazioni bilaterali fra i due paesi, la condivisione per il rafforzamento dello Stato di diritto e la promozione dei diritti umani, la breve comunicazione elenca alcuni punti di accordo considerati di primaria importanza. Non può mancare, nel panegirico introduttivo l’appello ad “unire gli sforzi per accelerare la transizione energetica e la produzione di energie rinnovabili”. Ma il nodo centrale dell’accordo ha ben altre mire, la «cooperazione nel settore dei servizi penitenziari». I ministri della giustizia dei due paesi, Albulena Haxhiu e Nick Hækkerup hanno firmato una lettera di intenti estremamente significativa con cui il governo del Kosovo dichiara la sua intenzione di mettere a disposizione del Regno di Danimarca una capacità carceraria in Kosovo per 300 detenuti, per i quali il governo della Danimarca dichiara la sua intenzione di pagare una tassa annuale di € 15.000.000 su un periodo iniziale di cinque anni con la possibilità di una proroga automatica per un ulteriore periodo di cinque anni. I due paesi convengono poi sulla necessità di condurre consultazioni politiche periodiche in settori di reciproco interesse e di rafforzare la cooperazione in materia di transizione verde e promozione dello Stato di diritto, della democrazia e dei diritti umani. In attesa dell’approvazione da parte delle sue autorità competenti, il governo della Danimarca intende sostenere i programmi e i progetti pertinenti a tale riguardo entro un quadro di € 30.000.000 in un periodo iniziale di cinque anni con una prospettiva a lungo termine e attraverso i partner internazionali pertinenti. Complessivamente questo progetto dovrebbe costare alle casse danesi 210 milioni di euro, ma non è detto che “buoni risultati” non possano convincere ad incrementare le risorse in campo. La principale area di interesse per la cooperazione allo sviluppo dovrebbe essere all’interno della transizione verde, fino a € 2.500.000 saranno progetti dedicati alla promozione dello stato di diritto, della democrazia e dei diritti umani. In pratica la Danimarca si impegna a investire nella produzione energetica green nel Kosovo in cambio della disponibilità a trasferire nelle carceri di Pristina, peraltro già in sovraffollamento, un numero congruo di detenuti – non è chiaro se o meno kosovari, comunque immigrati – in cambio di soldi e della certezza che la pena a cui sono condannati non venga trascorsa in Danimarca. Già da mesi, le politiche securitarie dei partiti di centro sinistra e di centro destra uniti, che hanno fatto perdere consenso alle forze più dichiaratamente xenofobe, avevano annunciato di voler procedere in questa direzione che ha pagato soprattutto il Partito socialdemocratico. La più seguita emittente radiofonica danese, Denmarks Radio, addirittura ci scherzava sopra con veri e propri spot pubblicitari del tipo: «Cerco carceri in affitto, pago bene». L’idea era venuta dallo staff del ministro della Giustizia danese, Nick Haekkerup (socialdemocratico) ma era stata a appoggiata in modo trasversale da buona parte del Parlamento.

Le carceri modello danesi hanno alti costi e necessitano di posti e la soluzione ideata dal Guardasigilli a Copenaghen sembra risolvere entrambi i problemi. Secondo la martellante campagna propagandistica danese, i penitenziari soffriranno un disavanzo di almeno un migliaio di posti entro 3 anni e l’accordo è stato presentato come utile a impedire il sovraffollamento. I dati governativi dicono che in una popolazione di 5,8 milioni di abitanti i detenuti sono 4 mila, troppi e aumentati, dal 2015, del 19% a fronte di una diminuzione del 18% del personale penitenziario. Il piano del ministro prevede per far fronte a tale dato una spesa di 600 milioni di euro da impiegare per ridurre il tasso di detenzione nel paese e a realizzare anche altri istituti di pena in Danimarca. Ma la deportazione in Kosovo sembra un esperimento che fa presagire ben altro. I detenuti da “deportare” sono tutti “non comunitari” e comunque destinati, una volta espiata la pena, all’espulsione, con tutte le difficoltà e i costi che questo comporta. Nell’anno trascorso almeno in 350, indipendentemente dal paese di provenienza, vennero tranquillamente deportati. Alcuni anche in Afghanistan – prima dell’arrivo dei taliban – e in Siria, in quelle che venivano definite “zone sicure”. Le uniche critiche al piano del governo sono giunte dall’Alleanza Rosso-Verde, cresciuta molto nelle precedenti elezioni e ora principale forza di opposizione. «Semplicemente non credo che dovremmo istituire 300 celle all’estero – spiega la portavoce Rosa Lund – ci sono altri modi di gran lunga migliori per risolvere i problemi di capacità. Inoltre, sarà molto difficile tenere d’occhio i diritti umani dei prigionieri, storicamente violati nelle carceri di Pristina». Per questa forza di sinistra che ha scelto di non seguire le politiche populiste, l’esecutivo ha scelto di utilizzare il servizio penitenziario e di libertà vigilata danese, come strumento per la gestione delle politiche sull’immigrazione. È stato lo stesso ministro della Giustizia a parlare di un “segnale” destinato agli immigrati, «perché non si illudano di poter delinquere a piacere in terra danese, sperando di potervi scontare la pena e poi rimanervi».

Ci sono alcune questioni prettamente politiche, sollevate da questa scelta, ma che sono avvalorate anche da dati concreti. In Danimarca attualmente nelle carceri non risulta esserci il sovraffollamento che caratterizza il resto dell’UE, si è sotto il 100% della capienza – in Italia si è al 120% e a Cipro al 135%. Da aggiungere che – ma i dati sono relativi a fine 2019 – in Danimarca si contavano 64 detenuti ogni 100 mila abitanti, a fronte di una media UE di 112 (100 in Italia, 227 in Lituania, 203 nella Repubblica Ceca. Pochi detenuti ma spesso immigrati, circa il 30% mentre la media UE è del 20% anche se in alcuni paesi come Austria e Grecia si arriva quasi al 50%.

La prima annotazione politica riguarda il paese con cui Copenaghen ha scelto di intraprendere questo percorso di esportazione di detenuti. Il Kosovo, per quanto viva una condizione di relativa pace e abbia chiesto di aderire all’UE, è un paese di profonde contraddizioni. Ufficialmente ne è stata riconosciuta l’indipendenza dalla Serbia da 98 Paesi, fra cui l’Italia e la Danimarca, ma non da 5 Stati membri dell’Unione come Spagna, Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro. Russia e Cina, all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, non ne riconoscono l’esistenza. Questo mentre per evitare la caduta della valuta, il dinaro, Pristina ha adottato l’euro come moneta del Paese. Eppure l’UE ha rinnovato, fino alla fine del 2023 a Tomáš Szunyog, il mandato di Rappresentante Speciale, conferitogli il 1º settembre 2020 con il compito di contribuire a: promuovere un Kosovo stabile, vitale, pacifico, democratico e multietnico, anche rafforzando la stabilità della regione e contribuendo alla cooperazione regionale e alle relazioni di buon vicinato nei Balcani occidentali e promuovere un Kosovo votato allo Stato di diritto e alla protezione delle minoranze e del patrimonio culturale e religioso; sostenere la prospettiva europea del Kosovo e il ravvicinamento all’UE in linea con la prospettiva della regione e in conformità dell’accordo di stabilizzazione e di associazione nonché in linea con le pertinenti conclusioni del Consiglio. Evidentemente il mandato è rinnovato sulla base del fatto che molti obiettivi non sono stati ancora conseguiti. In particolar modo non si sono risolte le tensioni con la minoranza serba nel Paese né si è riusciti a far ripartire sufficientemente l’economia. Col risultato che, mentre dal Kosovo si scappa, con il sogno di raggiungere l’Europa, magari anche la stessa Danimarca perché lì vive un parente o un amico come punto d’appoggio, le malsane strutture carcerarie kosovare, finiscono con l’essere riempite da coloro che non hanno diritto ad un trattamento umano anche in condizioni di detenzione. Ma la scelta di questo paese povero non è affatto casuale: la Danimarca – utile sempre rimarcarlo – è uno dei dodici paesi UE, quello più ricco e più ad occidente, ad aver firmato la richiesta, ad oggi respinta, di finanziare con fondi UE, la realizzazione di barriere per impedire l’ingresso di potenziali richiedenti asilo. Un disegno strategico in tal senso che si lega alla legge con cui si propone di far si che chi appunto presenti domanda d’asilo in Danimarca, possa attendere la risposta in Tunisia, in Ruanda o in altri paesi con cui si stringeranno simili accordi.

In fondo si tratta dell’applicazione in salsa nordica, e forse con maggior efficacia progettuale, di quanto da anni i governi di centro destra e di centro sinistra provano a fare in Italia con alterni successi. L’ultimo tentativo di “risparmiare 3 miliardi” mandando a scontare la pena i detenuti in Italia che, perdendo con la reclusione il titolo di soggiorno, sarebbero stati destinati all’espulsione o alla clandestinità, risale al 2019. Ma anche in precedenza si è provato, nel febbraio 2017, con numerosi progetti di legge, a rendere questo possibile. Lo ha fatto la destra, pensando unicamente a come liberarsi dei detenuti immigrati, lo ha fatto il centro sinistra, vincolando tale possibilità al fatto che ai detenuti venissero garantiti i diritti fondamentali e che questi non dovessero subire il rischio di essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Certo non c’erano progetti precisi di deportazione in ballo con budget definiti, ma la definizione di accordi bilaterali al cui interno vengono garantiti anche vantaggi per i paesi disponibili a riprendersi i rei, questo era offerto. La Danimarca non ha fatto altro che eliminare il vincolo della corrispondenza fra paese di provenienza e paese di deportazione e stabilire un intervento quinquennale prorogabile in materia.

Quale è allora la differenza fra le disposizioni razziste del “democratico” governo di minoranza che regge la Danimarca e le sacrosante denunce che risuonano al Parlamento e in Commissione Europea, quando i paesi di Visegrad attuano politiche di respingimento, di caccia all’uomo, di soprusi di ogni tipo verso i richiedenti asilo? Aver commesso un reato rende una vita meno preziosa e degna di essere preservata? Verso Polonia, Ungheria, Slovenia, giustamente si minacciano provvedimenti e procedure di infrazione ma non è altrettanto assurdo che uno dei paesi ricchi d’Europa, così ricco da pretendere “frugalità” agli altri in materia di spese sociali, si prodighi per risolvere il sovraffollamento causato da poche centinaia di detenuti che una pena la stanno già scontando?

Domande retoriche che però rivelano una contraddizione strutturale. Pur in assenza di una fantomatica invasione per sua natura criminogena, pur avendo il continente infinite emergenze reali da affrontare, dalla pandemia, alla crescita delle povertà, ai disastri ambientali, tanto le forze delle destre nazionaliste quanto quelle apparentemente liberal democratiche se non ammantate di socialdemocrazia, da anni hanno deciso di utilizzare il “nemico esterno” per riacquistare consenso. Ma sono consensi destinati a durare ancora poco. I problemi reali come la distruzione delle diverse forme di welfare conquistate nei decenni passati, la sperequazione delle ricchezze, gli stessi piani per fronteggiare la pandemia che si traducono quasi unicamente in vantaggi per imprese che con la stessa si sono già arricchite, minacciano di creare una più profonda lacerazione sociale a cui non si potrà continuare a rispondere con la logica del capro espiatorio. Le scelte che si vanno compiendo, quelle apparentemente di minore impatto come la deportazione di poche centinaia di detenuti in esubero, quelle più macroscopiche come i respingimenti di massa e la realizzazione di frontiere esterne ed interne produrranno un solo risultato. La dissoluzione dei principi fondanti dell’esistenza di un’unica realtà europea. Questo accade perché non c’è la capacità di fermare le scelte scellerate condotte, sia chiaro, anche da chi dichiara di voler ricostruire, dopo la pandemia, un continente diverso.

Stefano Galieni

carcere, danimarca, diritti umani, Kosovo, stato di diritto
Articolo precedente
La Danimarca non è e non vuole essere un Paese accogliente
Articolo successivo
David Sassoli, “L’Europa deve essere leale con i suoi cittadini”

1 Commento. Nuovo commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.