Da quasi un decennio le politiche in materia di accoglienza di richiedenti asilo e migranti in Danimarca sono viziate da approcci xenofobi, discriminatori e razzisti permeati dal pregiudizio contro le persone di religione islamica. I governi danesi – a guida sia conservatrice sia socialdemocratica – hanno messo in campo politiche draconiane tese ad assimilare con metodi coercitivi i rifugiati a “cultura e valori danesi” o a rendere più facile la loro deportazione. Gli “immigrati non occidentali”, un eufenismo per identificare i musulmani, sono accusati di dare vita a “società parallele” e sono vittime di atteggiamenti che un tempo sarebbero stati definiti come antisemitismo. Che fine ha fatto la Danimarca progressista, inclusiva, egualitaria ed accogliente figlia del compromesso socialdemocratico post guerra, in cui nessun cittadino veniva lasciato indietro?
Lo “scontro di civiltà”: il mondo occidentale contro il mondo dell’Islam
Gli interventi militari diretti degli americani e dei loro alleati avevano l’obiettivo di imporre il cambio di regime in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria e hanno lasciato dietro di sé il caos, centinaia di migliaia di morti, milioni di profughi, Stati falliti, reclute terroristiche e guerre senza fine, ma sono serviti anche a consolidare l’idea che la “civiltà occidentale”, come succedeva durante la Guerra Fredda, abbia un nemico planetario, la “civiltà islamica”, e un “nemico” interno, la parte della cittadinanza che professa la religione musulmana, “i figli di Allah” che, ha scritto Oriana Fallaci, “si riproducono come i ratti”.
Il dibattito pubblico nel mondo occidentale sull’Islam non si è limitato agli elementi religiosi (spesso anzi quasi del tutto ignorati), ma ha investito – in una logica di feroce contrapposizione totalizzante e distopica – questioni culturali, socio-politiche e di genere, arrivando a sostenere che l’Islam e i musulmani rappresentano la principale minaccia all’identità, alla coesione e alla sicurezza delle società occidentali.
L’Islam è stato rappresentato come un’ideologia totalitaria e come tale, l’antitesi di una democrazia liberale e secolarizzata (questa è anche la tesi dei governanti dell’Arabia Saudita); come una minaccia demografica che potrebbe portare i musulmani ad assumere il controllo della politica e della società; come una religione e una cultura in uno stadio evolutivo inferiore rispetto alle società occidentali, cristiane e moderne; come un portatore di opinioni autoritarie e illiberali, ad esempio in relazione all’uguaglianza di genere e alla libertà di espressione. L’”orientalismo” occidentale ha costruito una molteplicità di rappresentazioni del mondo arabo-islamico che hanno l’obiettivo di indagare le “radici della rabbia musulmana” all’interno di un quadro ideologico che rispecchia un razzismo eurocentrico e antimusulmano fondato su differenze culturali che giustificano una risposta politico-militare.
Secondo i sostenitori della tesi dello “scontro di civiltà”, qualsiasi tentativo di riconciliare l’occidente con il mondo musulmano è destinato al fallimento. I Paesi musulmani non adotteranno mai i valori occidentali (democrazia, Stato di diritto e diritti dell’uomo), e i Paesi occidentali non riusciranno mai ad integrare le minoranze musulmane. Proprio come l’antisemitismo viene alimentato da una visione cospiratoria e distorta di un mondo in cui gli ebrei sono visti come gli agenti di potenti interessi che cospirano contro i deboli, il pregiudizio anti-musulmano viene alimentato da un’ossessione per l’immigrazione andata in tilt e vengono visti come “orde”, “invasori” che “si riproducono come conigli”, sovvertono le culture nazionali con la loro strisciante sharia e rappresentano una minaccia per le tradizioni “occidentali” “giudaico-cristiane” di tolleranza, libertà, democrazia e stato sociale (è bene ricordare che per decenni, gli americani credevano che anche i cattolici non fossero idonei per la democrazia, perché presumibilmente obbedivano ai dettami autoritari del Papa di Roma).
In Germania, il libro più venduto nel 2010 è stato La Germania si abolisce di Thilo Sarrazin, un politico della destra dell’SPD ed ex membro esecutivo della Deutsche Bundesbank, che sosteneva la tesi che la Germania stava cadendo a pezzi a causa di troppi migranti e musulmani. Uno dei primi provvedimenti presi dal governo austriaco di destra nel 2018 è stato la chiusura di 7 delle 350 moschee dell’Austria e l’espulsione di circa 40 (dei 250) imam, presentati come “l’inizio” di una spinta contro l’ideologia islamista e il finanziamento straniero di gruppi religiosi. Quando l’ex cancelliere Kurz era ministro dell’Integrazione nel 2015 aveva fatto approvare una “legge sull’islam” restrittiva che aveva vietato i finanziamenti stranieri a gruppi religiosi e imposto alle associazioni musulmane di avere “una visione fondamentale positiva verso lo Stato e la società” austriaca. L’Austria, un Paese di 8,8 milioni di abitanti, conta circa 600 mila abitanti musulmani, la maggior parte dei quali è turco o ha famiglie di origine turca. Dopo il bando del burqa e del niqab negli uffici pubblici deciso nel 2017, l’Austria ha deciso di vietare il velo negli asili e nelle scuole elementari per proteggere le bambine “dall’indottrinamento religioso”.
La deriva danese anti immigrati
Negli ultimi anni, anche in un Paese tradizionalmente progressista, inclusivo, egualitario ed accogliente come la Danimarca, che si basava su un atteggiamento umano, in cui l’uguaglianza era un obiettivo e i problemi sociali e la criminalità venivano affrontati con supporto professionale, programmi di riabilitazione e istruzione, l’ascesa del Partito Popolare Danese (Dansk Folkeparti – DF) anti-immigrati – secondo nelle elezioni del 2015 con il 21% dei voti, avendo cavalcato la reazione alla crisi migratoria internazionale e ad alcuni sanguinosi attentati realizzati da pochi giovani “lupi solitari” ispirati dalla jihad1 – ha fatto diventare mainstream posizioni in precedenza considerate estremiste e la popolazione musulmana si sente sotto assedio.
Negli ultimi decenni si è creato un serio divario sociale ed economico tra danesi urbani e rurali, tra istruiti e meno istruiti, tra i cosmopoliti e i comunitaristi. Per anni i politici hanno detto che sussidi di disoccupazione per un periodo più lungo non erano possibili, che le persone devono lavorare più a lungo e andare in pensione più tardi. Si è parlato molto anche dello “stato competitivo” che sostituisce lo stato sociale per competere nell’era globale. Ma, nelle campagne, dove la gente non ha molta fiducia nel futuro, il DF si è messo dalla parte della gente comune e della “protezione della Danimarca che conosciamo”, cavalcando il sentimento anti-immigrazione.
Sebbene sia rimasto fuori dal governo di minoranza di centro-destra, il Partito Popolare Danese ha offerto dal 2015 al 2019 un tacito sostegno al primo ministro Lars Løkke Rasmussen in cambio di un’intesa sulla politica di immigrazione. I parlamentari del Partito Popolare Danese non hanno mai fatto parte di un governo, ma hanno trascorso gli ultimi due decenni a utilizzare i loro mandati per un unico scopo: votare progetti di legge riguardanti altre questioni solo se ottengono in cambio restrizioni sugli stranieri. Passo dopo passo, il Partito Popolare Danese ha trascinato tutti gli altri partiti nella sua direzione, nessuno più dei socialdemocratici con i quali competono per gli elettori della classe lavoratrice.
Le prime restrizioni radicali per rifugiati e stranieri sono state imposte da un governo di destra nel 2001. Allora i socialdemocratici si opposero, ma poi hanno cambiato la loro strategia per respingere la sfida del Partito Popolare Danese. All’inizio, non tutti i socialdemocratici erano d’accordo con la nuova politica della linea dura, ma gradualmente il partito la ha abbracciata, insieme alla stragrande maggioranza dei suoi elettori.
Oggi, il Partito Popolare Danese è diventato quasi superfluo. Le sue politiche, una volta denunciate come razziste ed estreme, ora sono diventate mainstream, ed è anche stato scavalcato a destra dal partito Linea Dura (Stram Kurs) che ha chiesto la deportazione di tutti i musulmani e la conservazione del Paese per la “comunità etnica danese“. Il partito è guidato da Rasmus Paludan, un avvocato che ha fatto appello contro una condanna per razzismo e che ha giocato un ruolo centrale nel fomentare delle rivolte durante la Pasqua 2019 nel quartiere etnicamente misto di Nørrebro a Copenaghen.
Nel febbraio 2021, il parlamento danese ha votato in modo schiacciante (139-30) per mettere sotto processo nel tribunale di impeachment l’ex ministro dell’Immigrazione Inger Støjberg per un suo ordine del 2016 volto a separare illegalmente almeno 23 coppie conviventi di richiedenti asilo (provenienti soprattutto dalla Siria) in cui un partner era sotto i 18 anni. Støjberg ha anche indotto in errore le commissioni parlamentari in quattro diverse occasioni, informandole della sua decisione. Il 13 dicembre Støjberg è stata condannata a due mesi di carcere dopo che il tribunale speciale l’ha giudicata colpevole. Sebbene la pena non sia stata sospesa, coloro che devono scontare meno di sei mesi di pena, in Danimarca possono beneficiare del monitoraggio elettronico, il che significa che è improbabile che Støjberg passi del tempo in prigione.
Tra il 2015 e il 2019, Støjberg ha promosso l’inasprimento delle norme in materia di asilo e immigrazione. Si è vantata di aver approvato più di 110 provvedimenti che hanno tagliato del 50% i sostegni economici per i nuovi rifugiati e limitato i diritti degli stranieri. Durante il suo mandato, per scoraggiare le richieste di asilo, la Danimarca ha pubblicato degli annunci pubblicitari anti-immigrazione sui giornali libanesi e il 26 gennaio 2016 ha fatto approvare una legge che impone ai richiedenti asilo appena arrivati e con un patrimonio personale superiore ai 1.350 euro di consegnare oggetti di valore come gioielli e oro per aiutare a pagare le spese per l’accoglienza e il soggiorno nel Paese (una misura molto simile a quella adottata dall’Australia che fa pagare ai richiedenti asilo la loro permanenza dietro le sbarre). Una misura approvata con i voti anche dei Socialdemocratici, allora principale partito di opposizione.
Due anni e mezzo fa, la Støjberg ha spinto il governo a far approvare una legge che ha capovolto il concetto di protezione dei rifugiati: ha sostituito gli sforzi per l’integrazione a lungo termine e la parità di diritti con soggiorni temporanei, diritti limitati e un focus sull’espulsione il prima possibile. Paradossalmente, questo è avvenuto in un momento in cui la Danimarca ha ricevuto il numero più basso di rifugiati in 30 anni e l’integrazione stava andando meglio che mai in termini di occupazione, istruzione e competenze linguistiche. Nel frattempo, il Consiglio danese per i ricorsi per i rifugiati è stato privato dei suoi esperti e ridotto a soli tre membri, incluso un impiegato del ministero dell’Immigrazione, rendendolo non così indipendente come sostiene il governo, ma più in linea con il nuovo primo ministro Mette Frederiksen che persegue l’obiettivo di avere “zero richiedenti asilo”.
Quasi l’87% dei 5,8 milioni di abitanti della Danimarca sono di origine danese, mentre gli immigrati e i loro discendenti rappresentano il resto. Due terzi degli immigrati, circa mezzo milione, provengono da contesti musulmani (circa 35 mila sono siriani) e vengono definiti “immigrati non occidentali”, un gruppo che si è gonfiato con le ondate di rifugiati afghani, iracheni e siriani che hanno attraversato l’Europa negli ultimi due decenni, fuggendo da paesi in guerra. L’ondata di rifugiati ha raggiunto il suo massimo nel 2016, quando la Danimarca ha dato asilo a 7.400 persone, equivalenti a 1,3 ogni 1.000 abitanti.
Nell’ultimo decennio la percezione danese di uguaglianza e sostegno sociale ha preso una piega sorprendente. Le persone del Medio Oriente, dell’Asia e dell’Africa non si qualificano più come pari al resto della popolazione della Danimarca. Il nuovo termine, “immigrati non occidentali“, viene usato come eufemismo per indicare i musulmani. “Non occidentale” è in qualche modo usato per indicare persone che sono arretrate, tradizionaliste, violente, criminali, pigre e non democratiche, con culture che reprimono donne e bambini. E i governi sono stati costantemente impegnati a progettare nuove leggi che colpiscano solo loro.
La tradizionale mentalità aperta e tollerante danese viene ora utilizzata come arma contro “coloro che non rispettano i nostri valori“. In pochi anni, i governanti danesi hanno esaltato il fatto che la Danimarca sia un paese cristiano (invece che musulmano) e nei loro discorsi ogni volta che viene menzionata la parola “migrante“, “straniero” o “rifugiato“, la stessa frase sicuramente contiene diverse di queste parole e termini: “crimine“, “terrore“, “Islam“, “insicurezza“, “spese economiche” e “richieste“.
Gli oppositori dell’immigrazione puntano il dito in particolare contro i migranti “non occidentali” sostenendo che non stanno facendo uno sforzo sufficiente e sincero per integrarsi, e che troppi di loro rimangono legati a concezioni del mondo intolleranti e retrogade. Pertanto, chiedono la chiusura degli ingressi per combattere quello che viene definito un “turismo del welfare“, o quanto meno una riduzione dell’immigrazione di persone “non occidentali”, e interventi governativi e normativi che forzino queste persone ad integrarsi nella cultura, società e mercato del lavoro danese. Nel 2005, il governo danese ha deciso che il reinsediamento di profughi nell’ambito dei programmi dell’ONU debba essere basato sul “potenziale di integrazione” e nel 2016 si era completamente ritirato dal programma di reinsediamento dell’ONU.
All’inizio di giugno 2018, i parlamentari danesi hanno approvato una legge che vieta burqa e niqab (leggi simili sono state approvate anche in Austria, Francia, Belgio e Olanda), che era utilizzato forse da 40 donne in tutto il Paese, e che impone una penalità di 10 mila corone (1.500 euro) per le recidive. Il divieto era sostenuto non solo dal Partito Liberale di centro-destra al governo, ma anche dai Socialdemocratici, la cui retorica sull’Islam ha iniziato a rivaleggiare con quella della destra populista negli ultimi anni.
Nel 2017, i Socialdemocratici hanno rivisto il loro programma politico e in quello nuovo, “Insieme per la Danimarca“, hanno adottato gran parte del linguaggio della destra anti-immigrazione, incluso il termine “società parallele“, descritte come luoghi “dove vivono gli stranieri e i loro discendenti, isolati dalla comunità danese e con valori che non sono danesi“, definendoli “inaccettabili“. La leader dei Socialdemocratici, Mette Frederiksen, ha sostenuto che sono necessari controlli più severi sulla migrazione per difendere lo stato sociale dei lavoratori danesi. Nel dicembre 2018, in un discorso all’assemblea dei partitti socialisti europei a Lisbona, la Frederiksen ha affermato che “Per anni abbiamo sottovalutato le sfide dell’immigrazione di massa. La politica economica e la politica estera in Europa sono state troppo liberali. Abbiamo fallito quando si tratta di mantenere il contratto sociale, che è il fondamento stesso del modello sociale socialdemocratico”.
Frederiksen ha definito l’Islam una barriera all’integrazione, ha detto che alcuni musulmani “non rispettano il sistema giudiziario danese“, che alcune donne musulmane rifiutano di lavorare per motivi religiosi e che le ragazze musulmane sono soggette ad un “controllo sociale massivo“. Ha sostenuto il governo conservatore di centro-destra nel permettere che gioielli e oggetti di valore dei richiedenti asilo siano sequestrati dalle autorità in pagamento per la loro accoglienza e nel vietare le velature. Ha votato una legge che rende le strette di mano un requisito obbligatorio per la cittadinanza, chiaramente rivolto ai musulmani che si rifiutano di stringere la mano al sesso opposto. Ha anche chiesto che tutte le scuole musulmane del Paese vengano chiuse. Inoltre, la proposta di un cittadino di vietare la circoncisione dei bambini, salutata con sgomento dai musulmani danesi, ha ottenuto le 50 mila firme necessarie per andare al voto parlamentare. Alcuni comuni rurali con una minuscola popolazione musulmana hanno reso obbligatoria la carne di maiale nelle mense scolastiche2. L’ex ministro dell’Immigrazione, Inger Støjberg, aveva suggerito che i musulmani si sarebbero dovuti assentare dal lavoro durante il Ramadan “per evitare conseguenze negative per il resto della società danese“, mentre i crimini d’odio a sfondo razziale o religioso sono diventati più frequenti.
Il ghetto deal: la strada dell’assimilazione coercitiva
Il Parlamento danese ha approvato una legge denominata “ghetto deal” per regolamentare la vita in una quarantina di enclaves – definite ghetti e “società parallele” dal governo di centro-destra –, aree urbane con più di mille abitanti, in cui più della metà è di origine “non occidentale” e caratterizzate da basso reddito (inferiore del 55% della media regionale), alti tassi di disoccupazione (oltre il 40%), più del 60% dei 39-50enni senza istruzione secondaria superiore, alti tassi di criminalità (3 volte superiori alla media nazionale) e di concentrazione di violenza da parte di gang e con una forte presenza di immigrati di religione musulmana. Il governo ha affermato di voler “abolire i ghetti nel 2030”, con l’obiettivo dichiarato di limitare la quota di residenti di origine “non occidentale” in ciascun quartiere ad un massimo del 30% entro 10 anni.
Il governo conservatore danese ha considerato questi quartieri essenzialmente come disastri urbani irrimediabili, e nel maggio 2018 ha proposto di affrontarli con lo sfratto di massa, l’abbattimento (di almeno 11 mila alloggi popolari) e la ricostruzione con edifici privati o cooperativi nel giro di 10 anni. Una serie di politiche che i media danesi hanno definito “il più grande esperimento sociale di questo secolo“. Quegli stessi media danesi che per anni hanno dato l’impressione che l’integrazione sia stata un disastro totale, mentre le cose stanno andando meglio che mai: a partire dal 2017 c’è stato un forte aumento del numero di nuovi profughi occupati e il vecchio modello di rimanere a carico del welfare e non parlare danese sta rapidamente svanendo, per cui la seconda generazione ha una maggiore mobilità sociale. Ma, questi fatti non sono rientrati e non rientrano nelle tesi dei media mainstream e dei governi. Anche il governo a guida socialdemocratica, seppure abbia fatto cadere l’uso del termine “ghetto” nei documenti ufficiali, ha mantenuto la sostanza delle politiche radicali adottate dal governo precedente di centro-destra.
Nel frattempo, se le famiglie (molte delle quali sono state insediate in queste enclaves dal governo stesso), non si assimilano volontariamente nel mainstream del Paese, devono essere costrette a farlo. A partire dall’età di un anno, i “bambini del ghetto” devono partecipare ad un programma prescolare obbligatorio che prevede la separazione dalle rispettive famiglie per almeno 25 ore alla settimana, escluso il tempo del pisolino, per l’istruzione obbligatoria nei “valori danesi“, comprese le tradizioni di Natale e Pasqua e la lingua danese.
La mancata conformità da parte del “genitori del ghetto” potrebbe comportare l’interruzione dei pagamenti del welfare. Alcune delle misure discusse e poi approvate sono fortemente punitive e discriminatorie: una misura consente ai tribunali di raddoppiare la punizione per determinati reati se sono commessi in uno dei quartieri classificati come ghetti. Un’altra impone una condanna a 4 anni di carcere ai genitori immigrati che costringono i loro figli a fare visite prolungate nel loro Paese di origine – descritti come “viaggi di rieducazione” – in tal modo danneggiando la loro “istruzione, lingua e benessere“. Un’altra consente alle autorità locali di aumentare il monitoraggio e la sorveglianza delle “famiglie del ghetto“.
Il piano danese è stato censurato dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani nel 2019, che ha dichiarato in un tweet che il pacchetto era “estremamente preoccupante e rischia di accrescere la discriminazione razziale nei confronti delle persone di origine migrante – ‘ghettizzandole’ ulteriormente. Le misure di assimilazione coercitiva corrono il rischio di alimentare il pregiudizio razziale, la xenofobia e l’intolleranza.”
Il partito socialdemocratico e le politiche anti immigrazione e anti asilo
Tutte queste politiche restrittive sono state mantenute anche dalla coalizione di centrosinistra al governo dal giugno 2019, guidata dalla Frederiksen e dai socialdemocratici, che è in competizione con la destra per i voti della classe lavorarice danese. Il governo Frederiksen ha solo deciso di eliminare il termine “ghetto” per definire i quartieri poveri abitati prevalenetemente da persone con origini non europee e di voler ridurre la quota di residenti di origine “non occidentale” in ciascun quartiere ad un massimo del 30% entro 10 anni, al fine di impedire la nascita di “società parallele religiose e culturali”.
Nell’aprile 2021, in piena terza ondata della pandemia da CoVid-19, la Danimarca è diventata la prima nazione europea a revocare i permessi di soggiorno ai rifugiati siriani, insistendo sul fatto che alcune parti del Paese dilaniato dalla guerra sono sicure in cui quindi è possibile tornare. Almeno 189 siriani (originari di Damasco e zone limitrofe) si sono visti rifiutare le loro domande per il rinnovo dello status di residenza temporanea dall’estate 2020, una mossa che le autorità danesi hanno ritenuto giustificata a causa di un rapporto che ha rilevato che la situazione di sicurezza in alcune parti della Siria era “migliorata in modo significativo“. Circa 1.200 persone di Damasco che attualmente vivono in Danimarca sono interessate da questa misura. Nel 2018, centinaia di somali si sono visti revocare i permessi nell’ambito di un regime simile. Alcuni hanno vinto il loro appello per rimanere ma, secondo il Consiglio danese per i rifugiati, molti hanno lasciato la Danimarca e sono scomparsi, forse per vivere senza status in un altro paese.
Almeno 30 siriani hanno già perso i loro ricorsi, ma poiché Copenaghen non ha relazioni diplomatiche con Damasco non può deportare direttamente le persone in Siria. Una parte dei richiedenti respinti sono stati collocati in un centro di detenzione, una prigione dove non possono lavorare, studiare o ottenere un’adeguata assistenza sanitaria. Paradossalmente, la nuova politica danese infierisce sui soggetti più deboli – le donne e gli anziani -, molti dei quali rischiano di essere separati dalle loro famiglie, mentre gli uomini siriani sono generalmente esentati perché le autorità danesi riconoscono che sono a rischio di essere arruolati nell’esercito siriano o puniti per aver eluso la leva. La maggior parte delle persone colpite, quindi, sembra essere costituita da donne e anziani, molti dei quali devono affrontare la separazione dai propri figli. Oltre a privare i siriani dei loro permessi di soggiorno, il governo danese ha anche offerto un finanziamento di circa 25 mila euro a persona per i rimpatriati volontari. Tuttavia, preoccupati per la loro sicurezza, nel 2020 solo 137 rifugiati hanno accettato l’offerta. Un gruppo di avvocati dell’ONG Guernica 37 e di un consorzio di 150 studi legali danesi che lavorano sui casi di asilo hanno portato il governo danese davanti alla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU) di Strasburgo sulla questione, in base al principio della convenzione di Ginevra di “non -refoulement”. E’ bene ricordare che la Danimarca è stato il primo paese a firmare la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati nel 1951 e che né l’ONU né altri paesi considerano Damasco sicura3.
Nonostante le critiche delle ONG e dell’ONU, il ministro dell’immigrazione, Mattias Tesfaye (il cui padre era un immigrato etiope), ha dichiarato all’Agence France-Presse: “La politica del governo sta funzionando e non mi tirerò indietro, non accadrà. Abbiamo chiarito ai rifugiati siriani che il loro permesso di soggiorno è temporaneo e che il permesso può essere revocato se il bisogno di protezione cessa di esistere“.
Il 3 giugno il Parlamento ha approvato – a larga maggioranza, con voti socialdemocratici e dell’opposizione di destra – una legge che consente di esternalizzare la responsabilità di elaborare le richieste di asilo dei richiedenti (solo 1.500 nel 2020, mentre erano oltre 21 mila nel 2015, quando più di un milione di rifugiati, principalmente dal Medio Oriente e dall’Africa, hanno raggiunto le coste dell’UE e il governo danese chiuse i confini con la Germania) provenienti da Paesi non europei (prevalentemente africani) in Paesi extraeuropei (senza identificare gli Stati partner che avrebbero dovuto accogliere i richiedenti asilo). L’obiettivo palese è quello di scoraggiare gli asilanti a mettere piede nel paese. Fra le destinazioni temporanee prospettate nel periodo di esame della richiesta figurano il Marocco, la Tunisia e il Rwanda (con cui è stato firmato un accordo in proposito). La proposta ha ottenuto 70 voti contro 24. Anche i parlamentari del Partito Popolare Danese hanno sostenuto la legge, mentre due dei partiti che appoggiano il governo (Lista dell’Unità e Partito Popolare Socialista) hanno votato contro. I “beneficiari” di questa legge, ossia coloro a cui viene concesso l’asilo, rimarranno nei paesi partner del governo danese, ma verrebbero condotti in centri di detenzione in questi paesi.
I Paesi dell’UE hanno discusso l’istituzione di centri esterni (offshore, ossia localizzati in Paesi extra-europei) per richiedenti asilo e profughi nel 2016-18 dopo che un forte aumento degli arrivi nel Mediterraneo ha travolto il blocco. All’epoca preoccupazioni legali, umanitarie, politiche, di sicurezza e finanziarie hanno fatto eclissare tali proposte. In ogni caso, nell’ultimo decennio l’Unione Europea ha costruito la sua “fortezza Europa” attraverso la disumanizzazione dei migranti e molto paesi europei (inclusa l’Italia) criminalizzano il salvataggio o il sostegno ai migranti.
La legge danese è stata il risultato della promessa della premier socialdemocratica di “zero richiedenti asilo” in territorio danese, fatta durante un discorso a gennaio 2021. La nuova legge rappresenta una frattura senza precedenti rispetto a decenni di prassi sul diritto di asilo in Europa. L’UE e l’ONU la hanno criticata duramente, perché viola “i principi del sistema internazionale di tutela dei profughi” ed è incompatibile con le attuali regole dell’Unione. Dura è stata la presa di posizione dell’UNHCR. Secondo l’assistente dell’alto commissario Gillian Triggs “tali pratiche minano i diritti di coloro che cercano sicurezza e protezione, li demonizzano e li puniscono e possono mettere a rischio le loro vite”. Modelli simili, come quello australiano o i cosiddetti ‘hotspot’ sulle isole greche, hanno comportato gravi incidenti di detenzione, aggressioni fisiche, lentezza delle procedure d’asilo, mancanza di accesso all’assistenza sanitaria e legale. Gli attivisti dei diritti umani considerano il piano danese essenzialmente una nuova forma di colonialismo: si pagano altri Paesi per prendersi cura di persone “indesiderate” lontane dalla Danimarca, non accettando nemmeno una piccola parte dei milioni di rifugiati che ci sono nel mondo.
L’ultima decisione in ordine di tempo del governo socialdemocratico (20 dicembre 2021) è stata la firma di un accordo con il governo del Kosovo che prevede la possibilità per la Danimarca di affittare 300 celle di prigione in Kosovo per i detenuti che saranno espulsi alla fine delle loro condanne (in precedenza solo Norvegia e Belgio hanno affittato celle delle prigioni nei Paesi Bassi), pagando 15 milioni di euro all’anno per un periodo di 5 anni. Il progetto, che mira ad alleviare il sovraffollamento delle carceri danesi, amplierà anche il patrimonio carcerario danese di 326 posti tra il 2022 e il 2025. L’anno scorso, 350 detenuti avrebbero dovuto essere espulsi alla fine della loro pena. La popolazione carceraria danese è cresciuta del 19% dal 2015 (ossia da quando il governo guidato dall’SDP aveva perso il potere a favore di una coalizione di destra in cui i conservatori tradizionali erano sostenuti dalla destra radicale del Dansk Folkeparti), raggiungendo più di 4.000 detenuti all’inizio del 2021 e superando il 100% della capacità, secondo le statistiche ufficiali. Nello stesso periodo il numero delle guardie carcerarie è diminuito del 18% e i detenuti con condanne inferiori a cinque anni le scontano generalmente in carceri aperte. Con i 300 posti che si rendono disponibili con l’accordo con il Kosovo, la Danimarca esternalizza la gestione delle pene carcerie ed espande la propria capacità carceraria. Questo, quando il Kosovo aveva 1.642 carcerati nel 2020, il 97% della propria capacità carceraria, secondo il World Prison Brief dell’Università di Londra.
Un governo socialdemocratico senza maggioranza che difende il welfare del popolo danese
Nel 2019, una settimana prima delle elezioni politiche, in Danimarca si sono tenute quelle europee, nelle quali ha vinto il Partito Socialdemocratico della giovane leader Mette Frederiksen con il 22,9%, seguito dai liberali del premier Lars Løkke Rasmussen. I sovranisti fortemente antimigranti del Dansk Folkeparti sono precipitati al 13,2% dal 26,6% e hanno perso tre dei loro quattro seggi. L’Alleanza Rosso-Verde è salita al 13,3%.
Le elezioni europee sono state le prove generali delle successive elezioni politiche (5 giugno 2019) nelle quali i Socialdemocratici hanno vinto (25,9%, 48 seggi), nonostante abbiano perso voti rispetto alle elezioni del 2015, puntando a sinistra sul welfare per rilanciare il modello dello Stato sociale danese, e a destra sulla questione immigrazione, mantenendo l’approccio securitario all’accoglienza, integrazione e vita di rifugiati e richiedenti asilo sviluppato dal governo di centro-destra.
Commplessivamente, il “blocco rosso” dei partiti di sinistra (52,1%) – composto da Socialdemocratici, Liberali Sociali (8,6%, 16 seggi), Partito Popolare Socialista (7,7%, 14 seggi) e Alleanza Rosso-Verde (6,9%, 13 seggi) – ha ottenuto 91 dei 179 seggi del Folketing (a questi si aggiungono anche i 5 seggi del verde Alternativet), contro i 75 del “blocco blu” (41%) guidato da Rasmussen – i Liberali hanno avuto il 23,4% (43 seggi), il Partito Popolare Danese (DF) di estrema destra appena l’8,7% (16 seggi, meno della metà del 2015), il Partito Conservatore Popolare al 6,6% (12 seggi) e l’Alleanza Liberale al 2,3% (4 seggi).
Il successo elettorale del “blocco rosso” è stato visto da molti come una prova che dure politiche sull’immigrazione fossero il modo “per rinnovare la socialdemocrazia europea“. Ma, è una lettura errata di quello che è successo. Mentre il DF ha perso più della metà dei suoi seggi, solo il 12% dei suoi voti è andato all’SDP. Ciò che ha restituito il “blocco rosso” al potere è stato il successo dei partiti pro-immigrazione: i centristi Liberali Sociali e il Partito Popolare Socialista di sinistra, che hanno entrambi guadagnato otto seggi. Nella misura in cui l’immigrazione ha determinato le elezioni, è stato per il motivo opposto rispetto a quanto molti hanno suggerito.
Come tutti i partiti socialdemocratici europei, l’SDP danese (come quello svedese e norvegese) ha passato gli ultimi tre decenni ad allontanarsi dalla sua tradizionale base operaia e dalle politiche socialiste, rivolgendosi maggiormente ai professionisti del mondo degli affari e della classe media e abbracciando il conservatorismo fiscale e le politiche di libero mercato. I socialdemocratici danesi hanno adottato politiche di immigrazione più rigorose e severe, inasprito i requisiti di ammissibilità per i sistemi di welfare, hanno preso una posizione più severa nei confronti della criminalità e hanno attuato politiche favorevoli alle imprese. In sostanza, hanno seguito lo stesso percorso battuto dal Partito Laburista in Gran Bretagna, dall’SPD in Germania e dai partiti socialisti in Francia, Spagna e Italia. Oggi, la Danimarca ha ancora tasse più alte e sistemi di welfare più generosi rispetto alla maggior parte del mondo, ma dagli anni ’90 si è concentrata sul rafforzamento delle norme di responsabilità sociale, aumentando il controllo del sistema di welfare pubblico, riducendo la generosità nel modello di welfare e abbassando le tasse. L’Indice della libertà economica della Heritage Foundation, che misura quanto sia capitalista un paese, studiando la regolamentazione e la tassazione in diverse aree dell’economia, classifica la Danimarca come il decimo paese più capitalista del mondo. In confronto, gli Stati Uniti sono al 20° posto. I diritti di proprietà, la libertà commerciale, la libertà monetaria e la libertà commerciale sono forti in Danimarca.
E’ in questo contesto trasformativo che l’immigrazione è diventata un comodo alibi per i fallimenti delle politiche economiche e sociali e il simbolo di un mondo sul quale le persone sentono di avere poco o nessun controllo. Come molti partiti populisti, il DF è cresciuto in aree popolari e rurali in cui le persone si sentivano senza voce e abbandonate, dove un tempo i socialdemocratici avevano avuto un forte radicamento.
La Frederiksen ha formato un governo di minoranza guidato dai socialdemocratici con un sostegno ad hoc da parte dei partiti dell’intero spettro politico. Ha rifiutato la proposta di Rasmussen di formare una “grande coalizione” con i Liberali, ma anche di formare una coalizione con i partiti di sinistra.
Particolarmente centrale per il governo sarebbe stata la relazione tra i socialdemocratici e gli altri partiti del “blocco rosso”. I Liberali Sociali hanno posizioni molto più aperte sull’immigrazione e hanno chiesto una svolta rispetto alle politiche xenofobe perseguite dal governo di centro-destra. Ma, in materia di immigrazione, le uniche concessioni fatte dalla Fredriksen ai suoi alleati di sinistra sono state l’abbandono del piano per accogliere i richiedenti asilo respinti nell’isola disabitata di Lindholm (che era stato approvato dal Parlamento nel dicembre 2018) e la ripresa ad accettare i rifugiati secondo il sistema di quote delle Nazioni Unite (cosa che la Danimarca non aveva più fatto dal 2016).
L’Alleanza Rosso-Verde (Enhedslisten) è nata nel 1989 da una coalizione di partiti della sinistra radicale ed è entrata in Parlamento nel 1994 principalmente per la sua opposizione all’Unione Europea. Nel 1992, gli elettori danesi avevano respinto il Trattato di Maastricht in un referendum. Un secondo referendum ha poi ribaltato il risultato e l’Alleanza Rosso-Verde ha dato una voce politica agli euroscettici di sinistra. Ha rifiutato le politiche neoliberiste imposte dal governo socialdemocratico al potere dal 2011 al 2015, nel quale la Fredricksen è stata prima ministro del Lavoro e poi della Giustizia. La piattaforma dell’euroscettico Enhedslisten prevede la proprietà democratica delle imprese e la scomposizione delle grandi banche. Richieste che hanno reso tesi i negoziati post-elettorali con la SD, ma anche tra questa e il verde Alternativet, per concordare delle politiche ambientali, economiche e sociali in cambio del loro consenso passivo. Questo anche in considerazione che per governare la SD è dovuta venire a patti anche con i Liberali Sociali, un partito più a destra sul piano economico e che ha reso difficile per il governo portare avanti politiche realmente di sinistra. In ogni caso, il governo Fredricksen si è impegnato ad implementare politiche ambientali tese a ridurre del 70% le emissioni climalteranti entro il 2030.
Influenzare la politica dei Socialdemocratici sull’immigrazione si è dimostrato particolarmente difficile anche perché su questo tema possono contare su una solida maggioranza parlamentare, dato che hanno promesso di continuare la politica seguita dal precedente governo di centro-destra. Le elezioni sono arrivate dopo anni in cui i partiti principali danesi hanno adottato dure politiche anti-immigrazione, in precedenza appannaggio dell’estrema destra, che gli immigrati e gli attivisti dei diritti umani ritengono abbiano portato a un aumento degli abusi e delle discriminazioni razziste. Nel corso delle trattative per la formazione del governo, i Socialdemocratici hanno continuato a sostenere che erano necessari controlli rigorosi sull’immigrazione per mantenere sostenibile il sistema di welfare danese. Alla fine hanno ceduto su una serie di punti secondari: l’isola disabitata di Lindholm non viene utilizzata come centro di detenzione per richiedenti asilo e la Danimarca ha iniziato nuovamente ad accettare rifugiati nell’ambito del sistema delle quote delle Nazioni Unite.
Il Partito Liberale e i Socialdemocratici hanno entrambi sostenuto misure ampiamente criticate in materia di immigrazione, sostenendo che sono necessarie per proteggere il sistema di welfare, seppure sempre meno generoso, e per integrare migranti e rifugiati già nel Paese. I tagli ai servizi sanitari hanno portato alla chiusura di un quarto degli ospedali statali nell’ultimo decennio, e una recente indagine ha dimostrato che più della metà dei danesi non crede che il servizio sanitario pubblico offra i trattamenti giusti, spingendo oltre un terzo a stipulare un’assicurazione sanitaria privata, rispetto al 4% nel 2003. Altri tagli negli ultimi 10 anni hanno portato alla chiusura di circa un quinto delle scuole statali, mentre la spesa per persona in servizi come le case di cura, la pulizia e la riabilitazione dopo la malattia per gli over 65 è diminuita di un quarto.
Frederiksen ha promesso di aumentare la spesa pubblica e del welfare dello 0,8% all’anno nei prossimi cinque anni, facendo sì che le imprese e le persone benestanti paghino di più attraverso tasse più elevate e parzialmente annullando alcuni recenti cambiamenti pensionistici. La Danimarca gode di una crescita robusta, di finanze pubbliche sane e di una situazione di quasi pieno impiego (meno del 4% di disoccupazione).
Al tempo stesso, però, i casi di discriminazione sono aumentati e il numero di crimini di odio motivati da motivi razziali o religiosi registrati dalla polizia danese – che è probabilmente inferiore alla cifra reale perché non tutti gli incidenti sono segnalati – è salito a 365 nel 2017 da 228 dell’anno precedente. E’ stata introdotta una legislazione volta a scoraggiare una ulteriore immigrazione extraeuropea e molte misure, alcune delle quali sono state fortemente criticate dagli attivisti danesi per i diritti umani e dall’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, sono state sostenute non solo dal DF – un alleato chiave che ha sostenuto il governo di minoranza di Rasmussen – ma anche dai Socialdemocratici. Il Partito Socialdemocratico ha ripetutamente respinto le critiche a questo approccio, affermando che era necessario.
Tuttavia, la posizione dura presa dai Socialdemocratici ha spinto alcuni elettori a spostare il loro sostegno dal populista DF, che ha dovuto affrontare anche la sfida di due nuovi piccoli partiti di estrema destra, tra cui Stram Kurs (Linea Dura), che vuole che l’Islam sia bandito e i cittadini nati all’estero deportati. Il suo leader, Rasmus Paludan, ha acquisito particolare notorietà per aver bruciato in pubblico il Corano. Il partito aveva messo assieme una bizzarra lista di candidati, che andavano da un professore di psicologia caduto in disgrazia (sostenitore di un sfrenato razzismo biologico), ad un artista performativo altrimenti noto per bizzarri “happenings” artistici che coinvolgono la nudità e la minzione pubblica.
Il secondo nuovo partito, Nye Borgerlige (Nuova Destra), è stato creato da alcuni membri del Partito Conservatore. Ha cercato di attirare gli elettori più ricchi combinando una posizione anti-immigrazione estremista con politiche economiche neoliberali intransigenti (per l’abolizione della tassazione per le imprese), di distruzione delle basi dello Stato sociale, e una posizione anti-europeista. Tutti i principali partiti avevano dichiarato che avrebbero rfiutato di cooperare con Stram Kurs (che comunque con l’1,8% non ha superato la soglia di sbarramento) o Nye Borgerlige (2,4%, 4 seggi).
Alessandro Scassellati
- La Danimarca ha avuto un problema con i giovani che sono partiti per imbracciare le armi con l’ISIS in Medio Oriente e in Somalia. Con oltre 100 giovani jihadisti, il paese ha avuto uno dei rapporti più alti di combattenti europei per abitante dopo il Belgio e alcune figure chiave che se ne sono andate sono state collegate alle bande criminali di Copenaghen.[↩]
- E’ bene ricordare che in Danimarca il numero dei suini supera di quasi cinque volte quello delle persone – alleva circa 28 milioni di maiali in 3 mila allevamenti, contro una popolazione umana di 5,8 milioni – e le esportazioni di carne suina (15 milioni di capi nel 2017) valgono oltre 3 miliardi di euro all’anno.[↩]
- Già da prima dell’apertura dei negoziati “interafghani”, per la Danimarca, come per altri Paesi europei come Germania e Olanda, l’Afghanistan era considerato “Paese sicuro”, in cui rispedire i richiedenti asilo. Simili politiche venivano messe in atto dalla Turchia come dai Paesi della “rotta balcanica”. Sovente le persone rimpatriate avevano militato nell’esercito regolare, le loro famiglie avevano subito abusi e minacce, c’era chi attendeva il loro rientro per consumare vendette. Molti fra i ritornati sono caduti nel vortice della tossicodipendenza o sono stati arruolati sommariamente in milizie o nell’esercito regolare. Hanno ripreso a combattere per vivere. Alcuni sono stati uccisi o si sono suicidati pur di non precipitare nel “Paese sicuro”.[↩]
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Il primo impatto lo trovo interessante ma mi propongo di dare una valutazione dopo averlo riletto una seconda volta