Di Marco Noris –
“Venute meno le basi filosofiche della democrazia, l’affermazione che la dittatura è un male è razionalmente valida solo per coloro che non ne beneficiano, e nessun ostacolo teorico impedisce di dichiarare vero l’opposto.”
Max Horheimer – Eclisse della ragione -1947
L’interesse nei confronti della democrazia, soprattutto in merito ai rischi di un suo sostanziale svuotamento, sono al centro dell’analisi ormai da diversi anni. Già nel 2003 la pubblicazione del libro di Colin Crouch, “Postdemocrazia “ rendeva la questione di dominio pubblico e non più semplicemente relegata alla realtà accademica. La situazione politica internazionale all’indomani dell’esplosione della crisi del 2007-2008 e la conseguente cronicizzazione degli squilibri, non solo economici ma anche sociali e geopolitici, non ha fatto altro che incrementare l’interesse verso la questione e rendere necessari ulteriori approfondimenti.
A tal proposito è stata prodotta una consistente letteratura che spesso ha posto al centro dell’analisi critica tanto una eventuale ridefinizione di democrazia quanto le forme nelle quali questa si esprime ma che nella stragrande maggioranza dei casi non hanno messo sufficientemente in luce due aspetti fondamentali attualmente emergenti: il primo attiene alla globalità di questa crisi che configura quindi il rischio di una crisi sistemica e non meramente ciclica della democrazia, così come si è sviluppata e l’abbiamo conosciuta nel corso degli ultimi due secoli; il secondo – sotto certi aspetti più sottovalutato se non sottaciuto, ma di gran lunga più rilevante – è che l’attacco alla democrazia non sta avvenendo, per così dire, solo dall’alto ma, sorprendentemente, anche dal basso. Se da un lato è vero, come già sottolineava Crouch, che il degrado della comunicazione politica, l’uso dei mass media e il conseguente condizionamento di massa hanno un ruolo fondamentale, è difficile capire un momento storico nel quale per via elettiva, in termini globali, abbiamo contemporaneamente a che fare con figure come Salvini, Trump, Putin, Erdogan, Orban, Duda, Duterte, Modi, Bolsonaro, tanto per fare un elenco tutt’altro che esaustivo. Tutti rivestono un ruolo apicale grazie alla strada elettorale e, ormai, sono l’espressione elettorale di oltre un terzo della popolazione mondiale. Perché, oggi, le elezioni , per dirla con Arjun Appadurai,[1]“sono diventate un modo per uscire dalla democrazia stessa”? Il fenomeno è semplicemente collegato alla crescente consapevolezza dell’impossibilità della gestione delle economie nazionali, sempre come sembra suggerire lo stesso Appadurai, o c’è dell’altro che agisce più in profondità? In fin dei conti quale motivazione sufficientemente forte può spiegare il voto a Salvini nel nostro Mezzogiorno o quello di alcuni musulmani americani a Trump o, sotto certi aspetti ancor più paradossale, il voto di milioni di musulmani al fondamentalista Indù Narendra Modi?
Sebbene sia difficile dare una risposta che sia anche lontanamente esaustiva della questione vale comunque la pena tentare un approccio analitico alla questione per cercare di capire questa convergenza di fenomeni che sta modificando oggi, in maniera sensibile il panorama politico dell’intero sistema-mondo.
Possiamo, ad esempio, cercare di affrontare la questione attraverso una chiave storica e, al tempo stesso, una collegata chiave antropologica per iniziare a delineare alcune risposte.
Un’interpretazione storica.
Nell’età illuminista sorge una concezione progressista della storia e del mondo, avviene il superamento della tradizionale visione ciclica del tempo a favore di una nuova visione, una Weltanschauung nella quale il cambiamento lungo una traiettoria storica lineare e progressiva sostituisce in termini culturali e politici la ricerca del punto di equilibrio caratteristico del tempo ciclico pre-moderno. Il cambiamento stesso diviene il motore della storia. È in questa nuova dimensione che possiamo inserire la nascita di un pensiero di “Sinistra” intendendo per Sinistra appunto quella concezione del mondo che, seppur presente in sé anche nella pre-modernità, inizia a operare anche per sé proprio da allora. È persino banale sottolineare che quella concezione fu fondamentale per lo sviluppo della democrazia moderna, ma il percorso è stato meno lineare di quanto spesso si pensi. La democrazia porta con sé una fondamentale contraddizione per la quale, semplificando, se da un lato si basa su quei valori universali coniati e resi popolari dalla rivoluzione francese, e che tuttora esprimono il motto di quel Paese, “Liberté, Égalité, Fraternité”, dall’altro si esprime sempre nella concretezza storica all’interno dei limiti ben precisi e delineati, in vario modo, da gruppi sociali distinti e/o, nella modernità, dai confini dello stato-nazione. Al di fuori di questi confini i principi non sono mai stati assicurati e, in questo caso, la storia europea ne è un ottimo esempio. Nei processi interni allo sviluppo della democrazia sin dai tempi di quella ateniese del IV secolo a.C. questa ha quindi sempre avuto un carattere selettivo, individuando chiaramente tanto gli inclusi quanto gli esclusi producendo, talvolta, persino un arretramento nel campo dei diritti per alcuni gruppi sociali o addirittura per una parte quasi maggioritaria della popolazione così come accadde con la Rivoluzione Francese che determinò l’esclusione delle donne dai nuovi diritti conquistati e una conseguente pesante battuta d’arresto per lo stesso processo di emancipazione femminile.
Questo è un primo elemento, sempre sottovalutato, di cui tener conto.
Un secondo importante elemento è l’aspetto conflittuale che, insieme alla dimensione partecipativa accompagna l’evoluzione della democrazia nella storia. Soprattutto l’aspetto conflittuale rimane spesso sottotraccia rispetto a quello partecipativo. Così come tra gli altri ha sottolineato Canfora: “la democrazia non è infatti un modello ideale ma un processo storico antagonistico. Un processo, oltretutto, che segue passo passo l’andamento del conflitto politico-sociale: forte e vitale quando viene raggiunto un punto di equilibrio tra diversi interessi di diversi gruppi sociali”[2].
Sebbene con alterne fortune e andamenti altalenanti, le sorti progressive della storia e l’espansione della democrazia non vengono messe in discussione nell’immaginario collettivo fino agli anni ’80 del secolo scorso. Le crisi ricorrenti del sistema, che divengono abituali e sempre più frequenti a partire dalla metà degli anni ’70, e l’ascesa del pensiero neoliberista negli anni ‘80 minano le basi culturali di questa narrazione. Le politiche neoliberiste introdotte da Reagan e Thatcher negli anni ’80 non solo hanno portato cambiamenti sistemici nell’alveo della politica economica ma, più in generale, cambiamenti culturali rilevanti e stabili nel lungo periodo. Semplificando, il concetto thatcheriano There is no alternativeè paradigmatico di questa nuova cultura che mortifica la partecipazione e rende impossibile il conflitto in un contesto di altrettanta impossibilità di cambiamento sistemico. La proposizione di questo nuovo paradigma probabilmente non avrebbe però avuto successo duraturo nel tempo se non si fossero verificati due eventi storici di cui il primo di grande portata: il crollo del sistema sovietico nel 1989 e cioè di quello che, nel bene o nel male, è stato visto come il principale tentativo di cambiamento sistemico della storia e, contemporaneamente, l’adesione di buona parte della Sinistra soprattutto occidentale ai dettami del sistema unico. Anche quando è stata seguita in buona fede, La Terza Via socialdemocratica si tradurrà in un maldestro e, a ragion veduta, fallimentare tentativo di portare valori e proposte della Sinistra su un piano prevalentemente etico e non più politico, certificando in questo modo l’impossibilità stessa del cambiamento sistemico.
Sebbene la debolezza del pensiero della Terza Via fosse già da subito evidente, in relazione alla forza della controriforma neoliberista, l’intero sistema tiene fino all’avvento della crisi del 2007-2008. Da quel momento in avanti possiamo affermare che la credibilità e la fiducia nella realizzazione di un mondo “altro” crolla in maniera rovinosa in termini planetari ma, soprattutto, in quell’Occidente che era stato la culla di questa precisa concezione della storia.
In particolare, se analizziamo il contesto europeo, la fine di questa narrazione assume toni più drammatici che altrove: la fine dell’eurocentrismo e la consapevolezza di ricoprire in un futuro in termini geopolitici un ruolo semiperiferico nel sistema-mondo si accompagna alla fine della fiducia in una qualsiasi visione progressista di cambiamento. È come se, sovrapposti, si chiudessero due cicli storici: uno geopolitico egemonico dell’Europa nel mondo della durata cinque secoli, e un altro, che potremmo riferire ad un’intera cultura di matrice illuminista di due secoli e mezzo.
Al di là della visione e della consapevolezza delle persone di questo contesto, gli avvenimenti storici di questi ultimi quattro decenni, inseriti nella specificità di una traiettoria storica di lunga durata, non potevano che lasciare un segno indelebile nella vita materiale e mutamenti di ordine sociale e antropologico importanti.
Un’interpretazione antropologica.
Se c’è un altro concetto che ha reso famosa la Thatcher è sicuramente quello per il quale non esiste la società, esistono solo gli individui . In questo senso se possiamo individuare una caratteristica specifica della fase neoliberista del capitalismo a partire dagli anni ’80, è quella di non essersi limitato a combattere – e purtroppo a vincere – la lotta di classe, quanto quello di demolire il senso stesso dell’identità collettiva. Se non teniamo presente questo elemento diviene difficile comprendere quello che oggi è accaduto. Si è trattato di un vero e proprio processo di destrutturazione identitaria, un processo di de-culturalizzazione di prospettiva storica che ha coinvolto tutto l’Occidente. L’ideologia individualista, però, può funzionare fino ad un certo punto e, comunque, fino al momento in cui le condizioni materiali ed emozionali dell’individuo vengono sufficientemente soddisfatte a prescindere dalla sue predisposizioni e caratteristiche sociali. Ancora una volta la crisi del 2007-2008 scompagina le carte e rende totalmente insufficiente questa visione ma i danni degli ultimi decenni non sono riparabili nel breve periodo e in particolare diventa molto difficile quella necessaria ricomposizione identitaria in termini collettivi che ha al suo centro la comunanza delle condizioni materiali dei gruppi sociali, in altre parole l’identità di classe: la fine della narrazione delle possibilità di cambiamento progressivo della storia colpisce, quindi, proprio l’idea stessa del riconoscersi collettivamente in base alla comunanza delle proprie condizioni materiali e di agire nella direzione di un loro miglioramento. L’esigenza della ricomposizione identitaria collettiva avviene allora, come sempre avviene in assenza di una ricomposizione di classe, nei termini delle identità di status legate soprattutto all’etnicità e alla nazionalità ma, in relazione alla democrazia, le conseguenze sono di particolare gravità in questo specifico periodo storico. Se un lato risulta complicato ricostruire una identità di classe dall’altro la progressiva presa di coscienza della cifra strutturale della crisi favorisce la costruzione di identità collettive di carattere difensivo, di dimensioni sempre più esigue nelle quali il paradigma classico della scarsità viene traslato dall’economia sul piano dei diritti sociali. La tendenza dei gruppi sociali a riconoscersi e ridefinirsi all’interno di nicchie di dimensioni sempre più ridotte è la tattica e la tendenza dominante in un mondo nel quale ci si riconosce condividendo soprattutto un piano della difesa comune nei confronti di tutto ciò che è attacco esterno. In una visione del mondo concepita nei termini di scarsità economica e di diritti sociali diviene normale concepire “l’altro da sé” come un pericolo vero e proprio a costo di escludere la maggioranza della popolazione stessa, a costo, quindi, di negare gli stessi valori universali della democrazia. Ne segue una concezione della democrazia estremamente difensiva e protettiva del gruppo, una democrazia possibile solo inter paresdalle caratteristiche neo-tribali, nella quale gli esclusi sono sempre la maggioranza.
In un mondo che, più che in rapida evoluzione, si trova in uno stato di cronico disequilibrio, le identità si ricompongono quindi in termini estremamente variabili e veloci a seconda dell’apparente convenienza, garantita quasi sempre non tanto da un progetto di carattere universalistico strutturale ma attorno ad un leader che si ritiene sufficientemente forte per tutelare e difendere gli interessi del gruppo stesso.
Questa ricomposizione non deve affatto stupire perché, per dirla con Remotti:
L’identità […]non inerisce all’essenza di un oggetto; dipende invece dalle nostre decisioni. L’identità è un fatto di decisioni […] non esiste l’identità, bensì esistono modi diversi di organizzare il concetto di identità. Detto in altri termini, l’identità viene sempre, in qualche modo, “costruita” o “inventata.[3]
Questo pone un problema enorme alla Sinistra: la presa di coscienza delle proprie condizioni materiali e delle loro cause non risulta più sufficiente in un mondo nel quale la legge del “si salvi chi può” prende il sopravvento. Parafrasando Horkheimer la critica di ciò che è non sarà più sufficiente a cambiare le cose se la rappresentazione di ciò che dovrebbe essere in alternativa non appare neppure lontanamente realizzabile. Tali considerazioni non possono essere sottovalutate all’interno dell’attuale dibattito sulle forme nelle quali la democrazia si esprime e si concretizza.
Le forme della democrazia sono sempre subordinate alla sostanza della democrazia stessa, la quale a sua volta è determinata dalla risultante dei processi storici. Parlare di forme della democrazia ritenendo nella sostanza il contesto storico come un dato esogeno produce una discussione a-storica e, quindi, inutile. Le forme nelle quali si esprime la democrazia semmai rallentano o accelerano processi in atto che hanno cause più ampie e complesse della gestione della democrazia stessa.
Anche la disquisizione tra democrazia rappresentativa e diretta sta appunto in questi termini. La crisi della democrazia rappresentativa, la sfiducia, la delegittimazione e la riduzione se non la scomparsa dei corpi intermedi si accompagna ad una visione alternativa di democrazia diretta non priva di grandi pericoli nella fase storica che viviamo. Come ha ben descritto in suo recente articolo Loris Caruso[4]il riferimento diretto al leader ma anche le retoriche ideologiche e l’esaltazione di questo strumento elaborate nei documenti dei grandi gruppi informatici come Facebook, Apple e Google prefigurano una democrazia post- parlamentare e post- partecipativa, l’inutilità del conflitto collettivo e, di conseguenza, il negazionismo storico riferito all’inconciliabilità di interessi tra classi e gruppi sociali, proprio nel momento in cui la disparità di ricchezza non è mai stata così ampia nella storia e l’arretramento sul versante dei diritti sociali non è mai stato così forte dal secondo dopoguerra. In tale quadro come afferma Caruso si prefigura una sorta di governo sostanzialmente tecnico, assimilabile per certi versi al governo dei “migliori” di aristotelica memoria, con qualche venatura di umanitarismo compassionevole. Un esito per certi aspetti iper-moderno e iper-razionale una sorta di realizzazione estremistica degli ideali dell’Illuminismo depurata di uno dei suoi aspetti costitutivi: l’emancipazione collettiva. È, infatti, in questa contraddizione storica che il progetto di democrazia diretta può, al contrario di quanto immaginano i suoi sostenitori, accelerare il processo verso una democrazia estremamente esclusiva da parte di limitati gruppi sociali, o meglio, di escludere totalmente dai processi democratici la maggior parte dell’umanità. Inoltre, la rimozione dell’aspetto conflittuale non consente di vedere e gestire le reali condizioni nelle quali il conflitto sorge e si esplicita. Una democrazia esclusiva di carattere neo-tribale può solo avere come sbocco quello del conflitto generalizzato tra vari gruppi sociali. Nella pratica il sogno iper- Illuminista si tradurrebbe in una sorta di incubo pre-moderno.
È di fronte a questo scenario che la Sinistra, quella che qui abbiamo definito come credibile concezione e visione del mondo alternativo, deve lottare. In questo senso qualsiasi percorso attuale benché necessario si rivela insufficiente: non bastano le avventure elettorali, le elaborazioni teoriche e neppure le pratiche mutualistiche. Tutto questo certamente serve e non deve essere posto in termini di alternativa interna, tutte queste strade probabilmente vanno percorse insieme. Il vero collante di tutto ciò sta però nella ricostruzione culturale di una proposta di un’alternativa complessiva, di un progetto di cambiamento sistemico e strutturale che risulti credibile, realizzabile e, soprattutto, nei termini dell’unica reale condizione che può agire trasversalmente nei gruppi di status e mettere in crisi rielaborazioni identitarie pericolose: quella che parte dalla reale condizione materiale e storica, quella riferita alle classi sociali.
Il percorso è difficile e sotto certi aspetti appare impossibile ma sembrerebbe l’unica strada percorribile: l’alternativa è quella che vedrebbe, in un futuro non molto lontano, la fine congiunta sia della sinistra che della democrazia da sempre legate in un destino comune.
[1]Arjun Appadurai – L’insofferenza verso la democrazia – AA.VV. La grande regressione, Feltrinelli Editore Milano 2017
[2]Luciano Canfora, La democrazia, storia di un’ideologia, Laterza, Roma – Bari 2014 pag. 323
[3]Francesco Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma- Bari, 2005
[4]https://jacobinitalia.it/la-rivoluzione-digitale-e-quella-politica/