Gli Stati Uniti, a partire dagli anni ’60, con le presidenze di Kennedy e di Johnson sono state il principale sostegno alle politiche espansive condotte dai diversi governi israeliani. Le ragioni di questo supporto, che si è tradotto in consistenti finanziamenti economici, trasferimento di ingenti risorse militari e blocco di qualsiasi azione critica alle politiche di Tel Aviv assunta nelle varie sedi internazionali (dall’ONU al Tribunale Penale Internazionale), si sono modificate nel corso del tempo.
Se per una fase Israele è stata un importante puntello nel contesto della guerra fredda e nel tentativo di ostacolare l’estensione dell’influenza sovietica nel mondo arabo, a partire dall’attentato alle Due Torri dell’11 settembre 2001, l’establishment israeliano è riuscito a utilizzare la lotta globale al “terrorismo” (definizione all’interno della quale si potevano far rientrare fenomeni tra loro molto diversi) e le spinte islamofobe emerse e strumentalizzate politicamente in molti paesi occidentali, per giustificare l’espansione della colonizzazione dei territori palestinesi occupati.
Negli Stati Uniti, le politiche israeliane hanno potuto contare su un ampio consenso bipartisan che ha attraversato, in modo quasi monolitico, l’intero spetto politico americano. Se il Partito Democratico ha subito l’influenza della comunità ebraica, comprensibilmente simpatizzante di Israele, e delle sue numerose organizzazioni lobbistiche, in particolare la potente AIPAC, che ha convogliato ingenti risorse per garantire l’elezione di parlamentari rigidamente allineati a difesa delle politiche israeliane, nel campo repubblicano è cresciuta esponenzialmente l’influenza elettorale del mondo evangelico fondamentalista.
Il riflesso delle vicende di queste settimane in Palestina (il tentativo di sfratto di alcune famiglie palestinesi dal sobborgo di Sheik Jarrar, nel contesto di un generale processo di pulizia etnica di Gerusalemme, le aggressioni di polizia e coloni israeliani nella Moschea di Al Aqsa, i bombardamenti di Gaza da parte di israeliana i cui effetti letali non avevano alcun paragone con quelli ottenuti dai razzi sparati dalle organizzazioni militari palestinesi di Hamas e Jihad islamica verso il territorio israeliano) hanno fatto emergere qualche crepa nel muro del consenso a Israele.
In particolare la sinistra del Partito Democratico, che si è rafforzata negli ultimi anni e che ha collocato al Congresso alcune figure popolari e radicali come Alexandria Ocasio Cortez, ha dato la possibilità di far sentire a Washington una voce di solidarietà al popolo palestinese, al quale non è stato negato solo il diritto all’autoderminazione ma anche molti diritti umani fondamentali.
Rashida Tlaib, congressista democratica eletta nel Michigan, di origine palestinese, ha potuto far presente che, ascoltando le parole del Presidente Biden o del Segretario di Stato Blinken si faceva fatica a capire che esistessero i palestinesi: “Non c’è stata nessuna menzione dei bambini detenuti e uccisi. Nessun riconoscimento di una continua campagna di maltrattamenti e terrore da parte della polizia israeliana contro i fedeli inginocchiati per la preghiera(…). Soprattutto non c’è stato assolutamente alcun riconoscimento dell’umanità dei palestinesi.”
“Noi siamo contro la guerra. Noi siamo contro l’occupazione. Noi siamo contro l’apartheid. Punto”
Cori Bush, neo eletta democratica del Missouri, ex infermiera, militante del movimento Black Lives Matter, ha ricordato come gli stessi armamenti utilizzati a Ferguson per la repressione dei neri siano parte delle normali pratiche israeliane per “brutalizzare i palestinesi”. Ha dichiarato Cori Bush: “St. Louis mi ha mandato qui (al Congresso, ndr) per salvare delle vite. Questo significa che noi ci opponiamo a che i nostri soldi vadano a finanziare l’occupazione militare, e sistemi violenti e traumatici di oppressione. Noi siamo contro la guerra. Noi siamo contro l’occupazione. Noi siamo contro l’apartheid. Punto.”
Il riferimento all’apartheid per definire le politiche israeliane che negano diritti e libertà fondamentali ai palestinesi, che costituiscono circa la metà di coloro che vivono tra lo Stato di Israele e i territori occupati e controllati direttamente o indirettamente dall’esercito di Tel Aviv, è ormai entrato comunemente nel dibattito politico. Come ha scritto Ocasio Cortez in un suo tweet che è largamente circolato: “apartheid non è democrazia”. Quando questo termine venne utilizzato, forse per la prima volta da una figura politica importante come l’ex Presidente Jimmy Carter, fioccarono le usuali e strumentali accuse di “antisemitismo” da parte dei sostenitori di Israele. Oggi però è ampiamente condivisa e dimostrata alla luce dei fatti anche da organizzazioni che si occupano di diritti umani, tutt’altro che radicali, come Human Rights Watch.
Un altro parlamentare, Mark Pocan del Wisconsin, ha organizzato un blocco in sostegno dei diritti dei palestinesi. Una componente ancora minoritaria ma non più così facilmente emarginabile come avveniva normalmente nel dibattito politico e nelle sedi istituzionali negli anni scorsi.
Il giornalista americano Peter Beinart ha segnalato in un tweet (riportato da Jacobin[i]) la differenza di clima che si respirava in questi giorni rispetto ai tempi della seconda Intifada, della guerra al Libano del 2006 e delle due precedenti guerre di Gaza del 2008-9 e 2014. “Ci sono molti meno commentatori con credenziali progressiste o anche solo centriste, che difendono il comportamento israeliano”, ha scritto Beinart.
La sinistra dei democratici ha dato corso a diverse iniziative legislative per rompere la tradizionale complicità tra governo degli Stati Uniti e governi israeliani. La Rappresentante Betty McCollum del Minnesota ha presentato in aprile un progetto di legge che proibisce a Israele di usare gli aiuti americani per imprigionare dei bambini o annettere unilateralmente dei villaggi palestinesi nella West Bank. Nei giorni dei bombardamenti di Gaza, Ocasio Cortez, Tlaib e Pocan hanno presentato una risoluzione, che non ha precedenti, per bloccare la vendita di armi di precisione a Israele per un ammontare di 735 milioni di dollari. Proposta fatta propria a sua volta da Bernie Sanders al Senato.
Nelle ultime tornati elettorali alcuni parlamentari democratici tradizionalmente allineati con Israele e fortemente sostenuti dall’AIPAC sono stati sconfitti da candidati critici delle politiche israeliane. E’ il caso di Jamaal Bowman, eletto a New York, membro dei Democratici Socialisti d’ America, che ha sconfitto nel 2020 Eliot Engel che era parlamentare del distretto dal 1989 e che aveva un ruolo importante nella Commissione della Camera dei Rappresentanti che si occupa di politica estera.
Anche all’interno della sinistra esistono differenze su come difendere i diritti dei palestinesi. Solo Tlaib, Ilhan Omar (di religione musulmana e di origini somale) e Ocasio Cortez si sono espresse in favore della campagna di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS). Se ne è dissociato invece Bowman che deve anche tenere conto della presenza di una consistente comunità ebraica nel suo distretto di New York.
Tra gli ebrei liberal si rafforzano le posizioni critiche
Gli stessi orientamenti tra gli ebrei americani sono andati evolvendo nell’ultimo periodo. Un sondaggio commissionato da “J Street” sul voto del novembre scorso ha verificato che il 57% degli elettori ebrei sostengono l’introduzione di restrizione agli aiuti in modo che non possano essere utilizzati per far avanzare il processo di annessione di territori palestinesi.
“J. Street” è la principale organizzazione degli ebrei liberali moderatamente critici verso le politiche israeliane, fondata nel 2007, per sostenere quei candidati democratici che pur restando all’interno dell’orizzonte sionista, si esprimevano a favore della soluzione dei due Stati[ii]. Nonostante la sua impostazione tutto sommato molto prudente è stata attaccata dai principali leader dell’establishment ebreo americano per le critiche rivolte ad Israele in occasione degli attacchi a Gaza nel 2009. Nel 2014 “J Street” è stata esclusa dalla possibilità di entrare a far parte della Conferenza dei Presidenti delle Principali Organizzazioni Sioniste Ebree d’ America.
“J Street” è stata oggetto di critiche anche dalla parte più radicale della gioventù ebraica americana in quanto ancora troppo debole nelle sue posizioni. Quando, nel 2014, in occasione dell’invasione israeliana di Gaza, l’organizzazione si è limitata a ripetere il principio del diritto di Israele a difendersi, molti esponenti della branca universitaria di “J Street” hanno iniziato ad organizzare manifestazioni contro l’azione militare israeliana. Da queste manifestazioni è nato il movimento che si schiera apertamente contro l’occupazione e che si chiama “IfNotNow” (Se non ora)[iii].
All’interno di “J Street” hanno cominciato a farsi sentire con più forza le voci che chiedono di condizionare gli aiuti degli Stati Uniti ad Israele al comportamento che questo Stato assume nei confronti dei diritti dei palestinesi. Il dibattito si è andato articolando tra coloro che si limitano a chiedere che gli aiuti americani non vengano utilizzati direttamente per far proseguire l’annessione dei territori palestinesi occupati (posizione minimalista e puramente simbolica) e coloro che invece sono disponibili a intervenire sulla possibilità di introdurre restrizioni ai finanziamenti degli Stati Uniti verso Israele.
Il progetto presentato da McCollum è considerato accettabile da “JStreet” perché non troppo radicale. Questo testo ha raccolto solo 18 sponsor tra Camera dei Rappresentanti e Senato (tra i quali i sei componenti della cosiddetta “squad”) e quasi certamente non arriverà mai ad essere approvato. Ma qualsiasi ipotesi di mettere qualche vincolo, anche molto blando, alle politiche di discriminazione messe in atto da Israele nei confronti dei palestinesi, suscita l’immediata reazione dell’AIPAC. Questa organizzazione ha raccolto 330 sottoscrizioni per una lettera che, senza citarlo, si schiera contro il progetto della McCollum. Un numero importante, perché rappresenta la maggioranza assoluta dei 535 parlamentari americani, ma in altri tempi avrebbe assunto dimensioni ancora più importanti.
Una parte ancora minoritaria, ma crescente soprattutto fra i giovani, della comunità ebraica si sente sempre più a disagio nel sostenere politiche ultranazionaliste e razziste, oggi maggioritarie nello spettro politico israeliano, e che guidano le scelte israeliane e contemporaneamente combattere le stesse concezioni negli Stati Uniti. L’affinità politica e ideologica tra il primo ministro israeliano Netanyahu e l’ex Presidente Trump era apertamente proclamata e rivendicata. Come sostenere il movimento Black Lives Matters e contemporaneamente sostenere che le vite palestinesi debbano essere considerate di serie B?
I giovani cristiani evangelici in evoluzione
Un altro segnale interessante nel possibile mutamento degli orientamenti dell’opinione pubblica degli Stati Uniti è stato segnalato nei giorni scorsi dal Times of Israel che ha dato conto di un deciso calo di sostegno per Israele tra i giovani cristiani evangelici[iv]. Questo sondaggio indica che il 34% di coloro che hanno tra i 18 e i 29 anni sono schierati a favore di Israele, il 24% a favore dei palestinesi e il 42% per nessuna delle due parti. Il sostegno verso Israele da parte degli evangelici in generale è valutato attorno al 70% mentre un numero consistente è contraria a qualsiasi concessione territoriale di Israele e quindi, di fatto, all’ipotesi dei due Stati.
Esiste anche una forte organizzazione, i “Christian United for Israel”, che raccoglie i cosiddetti “sionisti cristiani”[v]. Si può ritenere che negli Stati Uniti la maggioranza di coloro che si dichiarano sionisti sia composta da fondamentalisti cristiani piuttosto che da ebrei. Come spiegano Mearsheimer e Walt nel loro libro sulla “Israel Lobby”, “le origini dei sionisti cristiani risiedono nella teologia del dispensazionalismo, un modo di accostarsi all’esegesi biblica emerso nel XIX secolo in Inghilterra, per lo più in seguito agli sforzi dei ministri anglicani Louis Way e John Nelson Darby. Il dispensazionalismo è una forma di premillenarismo secondo cui il mondo attraverserà un periodo di tribolazioni sempre più drammatiche, finché Cristo non ritornerà. Come molti altri Cristiani, i dispensazionalisti credono che il ritorno di Cristo sia preannunciato dalle profezie dei Vecchio e del Nuovo Testamento e interpretano il ritorno degli ebrei in Palestina come un evento chiave del processo preordinato che condurrà alla Seconda Venuta”[vi].
L’importanza del sostegno dei fondamentalisti evangelici è riconosciuta dagli stessi politici israeliani. L’ex ambasciatore di Tel Aviv negli Stati Uniti, Ron Dermer Former ha suggerito recentemente che il suo Paese dovrebbe dare priorità “all’appassionato e inequivoco” sostegno degli evangelici rispetto a quello degli ebrei americani che sarebbero, secondo le sue parole “in modo sproporzionato tra i nostri critici”[vii]. Former ha richiamato l’attenzione sui numeri. Infatti i cristiani evangelici sarebbero almeno il 25% degli americani mentre gli ebrei sono meno del 2%. La questione di Israele, e il suo “diritto” ad occupare tutte la Palestina, in quanto affidatale da Dio in persona, sarebbe la questione più importante per i fondamentalisti religiosi mentre gli ebrei voterebbero anche sulla base di altre questioni. Il sondaggio però dimostra, come rileva il Times of Israel, che anche il supporto degli evangelici non può essere dato per scontato.
Quanto di tutto questo influirà nell’immediato sulle politiche dell’Amministrazione Biden? Probabilmente abbastanza poco. Il Medio Oriente non è tra le priorità del Presidente democratico che per altro non dispone di una qualche strategia che possa combinare il sostegno all’azione militare israeliana e di fatto all’occupazione con il blando richiamo al principio dei due Stati ottenendo qualche risultato. La visita di Blinken, Segretario di Stato, è servita a riallacciare contatti ufficiali con l’Autorità nazionale palestinese, la quale però ha perso molta credibilità per non essere in grado di indicare una prospettiva politica credibile ai palestinesi e per le derive autoritarie e i fenomeni di corruzione che la indeboliscono dall’interno.
Gli Stati Uniti vogliono partecipare economicamente alla ricostruzione di Gaza (dopo aver contribuito alla sua distruzione finanziando e armando l’esercito israeliano) ma senza coinvolgere Hamas. Ma quest’ultima organizzazione continua a poter contare su un consenso significativo tra i palestinesi, quasi certamente cresciuto a seguito delle vicende queste settimane, anche se a sua volta non sembra disporre di una proposta politica credibile di soluzione del conflitto.
[i] https://jacobinmag.com/2021/05/palestine-israel-conflict-occupation-ceasefire-democratic-party-tlaib-ocasio-cortez-omar-squad
[ii] https://jewishcurrents.org/j-street-goes-on-offense-carefully/
[iii] https://www.ifnotnowmovement.org/
[iv] https://www.timesofisrael.com/support-for-israel-among-young-us-evangelicals-drops-sharply-survey/
[v] https://inthesetimes.com/article/christians-united-for-israel-zionism-john-hagee-donald-trump-israel-palestine-iran
[vi] John J. Mearsheimer, Stephen M. Walt, La Israel Lobby e la politica estera americana, 2007, Mondadori, p. 165.
[vii] https://www.timesofisrael.com/dermer-suggests-israel-should-prioritize-support-of-evangelicals-over-us-jews/