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L’anno dei… draghi ovvero riflessioni femministe molto critiche sul PNRR italiano

di Anita Giuriato,
Nicoletta Pirotta

Premessa: cosa è il PNRR, quali i contenuti e quante le risorse

Lo scorso luglio l’Unione Europea, per far ripartire l’Europa dopo lo shock pandemico, ha approvato il Next generation EU, meglio noto come Recovery Fund o “Fondo per la ripresa”.
Si tratta di un fondo speciale volto a finanziare la ripresa economica, nel triennio 2021-2023, con titoli di Stato europei (Recovery bond) per sostenere i progetti di riforma strutturali. Riforme che i differenti Stati dell’Unione Europea (EU) sono tenuti a indicare in specifici piani nazionali: i Recovery Plan o PNRR (Piani Nazionali di Ripresa e Resilienza).
Il PNRR italiano si struttura, come indicato dall’UE, su sei missioni (o pilastri), legate ad altrettante aree tematiche di intervento, e una serie di progetti omogenei e funzionali a realizzare gli obiettivi economico-sociali che il Governo ritiene strategici.

Le sei missioni riguardano la “digitalizzazione, innovazione e competitività” sia nel settore pubblico che privato; la “rivoluzione verde” e la transizione ecologica; le infrastrutture, la mobilità, le telecomunicazioni e l’Alta Velocità; l’istruzione, la formazione, la ricerca la cultura e il turismo; l’inclusione e la coesione sociale con particolare riferimento alle donne, ai/alle giovani, alle infrastrutture sociali per la famiglia e al Sud; la salute con specifica attenzione al territorio e alla telemedicina.
Ogni missione contiene una serie di progetti che ulteriormente specificano le politiche economiche e sociali per il prossimo quinquennio.
Gli assi strategici che il PNRR individua riguardano la digitalizzazione, la transizione ecologica e l’inclusione sociale. In linea con le raccomandazioni della Commissione Europea anche il PNRR italiano prevede alcune riforme strutturali in assenza delle quali i finanziamenti stanziati non verrebbero erogati. Il piano prevede la riforma della Pubblica Amministrazione, quella della Giustizia, quella tributaria, la semplificazione amministrativa in materia, in particolare, di contratti pubblici, concorsi, ambiente. Accanto alle riforme il governo tutela e promuove la libera concorrenza.

La Commissione Europea ha stanziamento complessivamente 750 miliardi di euro, da suddividere tra i diversi Stati. L’Italia è il Paese che ne beneficerà di più in ragione della durezza con la quale è stata colpita dalla pandemia. Sono previsti 191 miliardi di euro, 68,9 miliardi dei quali in sovvenzioni a fondo perduto (2021/2026) e 122,6 in prestiti. Il primo 70 per cento delle sovvenzioni è già fissato dalla versione ufficiale del Regolamento RRF (Recovery and Resilience Facility), mentre la rimanente parte verrà definitivamente determinata entro il 30 giugno 2022 in base all’andamento del PIL dei singoli Paesi.
La governance del PNRR prevede una struttura di coordinamento centrale che ha sede presso il Ministero dell’Economia. Completano il quadro una struttura di valutazione e una di controllo.

La visione strategica

Lo shock pandemico ha dimostrato la fragilità di un sistema sociale provato da anni di politiche neo-liberiste orientate alla competizione, alla privatizzazione dei servizi pubblici, alla precarizzazione del lavoro e all’aumento delle diseguaglianze. Alla luce di tutto ciò chi si aspettava che il PNRR producesse rotture con il passato resterà deluso.
Il Piano afferma di conoscere la fragilità del tessuto sociale, ulteriormente accentuata dalla pandemia in corso, ma conferma, nei fatti, le politiche economiche e sociali che ci hanno portato al collasso. La sospensione dei patti di stabilità, cioè del debito pubblico, ha fatto solo credere che si aprisse una fase espansiva del sistema capitalista con investimenti consistenti sul sistema di welfare pubblico a favore della salute e del benessere delle e dei cittadini.
La lettura del Piano rende evidente che questa apertura non ci sarà. Nonostante la pandemia abbia dimostrato la fragilità e l’interdipendenza dei nostri corpi.
Del resto come si poteva pensare che Draghi, uno dei più convinti e potenti costruttori delle politiche neo-liberiste in Europa, potesse fare qualcosa di diverso? Da bravo esponente della borghesia che conta, si è messo al lavoro per fare “tutto ciò che serve” non per il benessere delle persone ma per sostenere l’economia capitalista (come aveva fatto per l’euro, in effetti) proponendo le classiche ricette degli ultimi trent’anni: crescere, produrre, competere, liberalizzare.
Fa impressione leggere le prime righe del PNRR: «La pandemia di Covid-19 ha colpito l’economia italiana più di altri Paesi europei. Nel 2020, il prodotto interno lordo si è ridotto dell’8,9 per cento, a fronte di un calo nell’Unione Europea del 6,2». Cioè nel Paese europeo con il più alto numero di morti per Covid-19, il primo dato che si mette in luce è la perdita del PIL!

Come scrive Lorenzo Zamponi nell’articolo Il piano del gattopardo (in Jacobin, 1 maggio 2021), «Il Pnrr non nasconde una precisa impronta ideologica: vi compare 189 volte la parola “imprese”, 77 “mercato”, 84 “competitività”, 44 “concorrenza”. La parola “diseguaglianze”, per capirci, compare 7 volte. L’impronta ideologica c’è, ed è liberista». È utile aggiungere che si deve arrivare a pagina 26 del Piano per trovare, per la prima volta, la parola “lavoratori” (al maschile naturalmente!).
Quindi non pare aprirsi una nuova fase capitalista differente da quella degli ultimi trent’anni perché nei fatti vengono riconfermati i presupposti che hanno fondato le politiche neo-liberiste degli ultimi decenni: si ribadisce che la centralità del mercato va salvaguardata seppure in una di dimensione europea di interdipendenza. Così come si riconferma l’importanza delle imprese private, considerate al pari dello Stato nella capacità di affrontare i problemi posti dalla pandemia.

Insomma nonostante lo shock pandemico abbia messo in luce quanto sia l'”economia della cura” l’unica capace di salvare la vita, il PNRR di Draghi ribadisce le ricette classiche dell’economia capitalista, e del modello sociale che ne consegue: proprietà privata, concorrenza, competitività, coesione (cioè assenza di conflitto).
Ma, in fondo, anche il capitalismo ha un cuore e così nel Piano si afferma che «quanto più si incoraggia la concorrenza tanto più occorre rafforzare la protezione sociale», dando conferma che il sistema a cui si vuole dare impulso sarà sempre di più dominato dalle forze selvagge della competitività a tutti i costi.
La sospensione del debito, poi, è un’operazione da “fumo negli occhi”. Il debito tornerà a essere uno dei vincoli (letali) delle prossime politiche economiche e sociali, come del resto afferma lo stesso Draghi, preceduto da Carlo Cottarelli che pochi mesi fa dalle pagine di Repubblica scriveva che «…si sta discutendo di quanto stretti siano i vincoli, non del fatto che i vincoli debbano esistere».
E, dunque, alla fin della fiera, il re torna a essere nudo: per favorire Ripresa e Resilienza si propongono le stesse ricette degli ultimi 30 anni, quelle che ci hanno portato nella situazione drammatica in cui siamo.

Politiche di genere

La visione strategica riguardo alle politiche di genere è, se possibile, ancor più inconcludente. A fronte dei soliti ritornelli che ascoltiamo da anni (ormai divenuti jingle da spot pubblicitari) non si propongono politiche concrete in grado di rispondere ai bisogni reali delle donne.
Eppure le analisi di fondo che il piano evidenzia non sono per nulla sbagliate: la disoccupazione femminile è ancora troppa, il divario salariale pure, la condivisione dei lavori di riproduzione domestica fra generi troppo poco praticata, la necessità di un welfare pubblico capace di dare risposte a bisogni concreti è ritenuta decisiva, la presenza delle donne nei posti di comando ancora troppo scarsa, benché, dal punto di vista scolastico, a ogni livello, sono le donne a ottenere i risultati migliori.
Ma quando si passa dall’analisi alle proposte poste, casca l’asino o se preferite…il drago!
Vengono indicate come prioritarie digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione/coesione sociale. All’interno di queste priorità le “Donne, i Giovani e il Sud” sono considerati trasversali. Si tengono insieme, in modo improprio, soggetti e territori negando alle donne nei fatti una soggettività (le donne non possono essere anche giovani e vivere al sud?)

Le politiche per il lavoro indirizzate alle donne sono contemplate nella parte che riguarda l’inclusione e la coesione. Quindi per le donne il lavoro non è un diritto in sé e per sé, né uno strumento di autodeterminazione ma una possibilità per essere incluse (dove?) e garantire coesione (quale?).
Si auspica per le donne un aumento di occupazione, oggi in Italia tristemente al 53,1% – cioè quasi la metà delle donne non ha un lavoro retribuito – a fronte di una media europea del 67,4%.
Bene, anzi male.
Allora ci si dia un obiettivo concreto: la UE propone da tempo di raggiungere un tasso di occupazione femminile al 60%. Il PNNR italiano vuole raggiungerlo? Se sì, come pensa di riuscirci e con quale temporalità? Non è dato sapere.
A dire il vero nel PNRR si prevede un aumento degli organici della Pubblica Amministrazione, proposta che potrebbe favorire un aumento di occupazione femminile, visto che in questo settore i dati dimostrano una preponderanza di donne occupate, ma non si specifica quante saranno le assunzioni, né quali settori potenziare e non c’è traccia di stabilità nelle proposte. Inoltre poiché le risorse che arriveranno dall’Europa potranno finanziare gli investimenti e non la spesa corrente non si capisce con quali risorse possano essere aumentati gli organici del settore pubblico…

Quel che è certo è che lo smart-working, venuto alla ribalta durante il periodo di confinamento e usato a mani basse sia nel settore privato che in quello pubblico, rischia di essere mantenuto come strumento, ahi noi, di conciliazione casa/lavoro, benché molte indagini ne abbiano rilevato, in particolare per le donne con prole in età scolare, gli effetti nefasti in termini di allungamento delle giornate lavorative, di appesantimento dei ritmi di lavoro, di solitudine e di alienazione.
Il problema di fondo è che il Piano non riconosce soggettività alle donne, come dicevamo poco sopra. Se lo facesse si accorgerebbe che le donne non sono tutte uguali perché attraversate da differenze di classe e di provenienza che ne mutano la loro condizione materiale. Se si volessero davvero implementare politiche attive per il lavoro si dovrebbe partire da queste differenze di censo e di provenienza e non da un astratto modello di donna.
Ma forse non è nemmeno del tutto così perché in effetti il Piano e ancor di più le affermazioni del Presidente Draghi nel suo messaggio alla Commissione parlamentare per le Pari Opportunità in occasione dell’otto marzo scorso, evidenziano che un modello c’è: è quella della donna in carriera o che si “fa da sé”, cioè di coloro che, legittimamente intendiamoci, accettano la competitività che l’attuale modello sociale impone conformandosi a esso.
Che vi siano donne imprenditrici o in carriera non è certo un male. Quello che non va bene è far credere che se più donne occupano posti di comando o gestiscono imprese per un effetto di trascinamento anche le donne del “piano di sotto” possano salire la scala sociale. Non è così. Come ci hanno spiegato molte economiste e sociologhe femministe, in particolare negli Stati Uniti, a fronte di alcune donne che rompono “il tetto di cristallo” sono migliaia le donne che restano confinate in lavori precari, malpagati, invisibili.

Il piano indica, è vero, una strategia nazionale per la parità di genere che prevede cinque priorità: lavoro, reddito, competenze, tempo, potere per provare a salire di 5 punti, da qui al 2026, nella classifica europea del “gender equality”, ma nei fatti non fa altro che parlare di “pari opportunità” (non sufficienti a colmare il divario esistente fra generi e generazioni in materia di diritti), di favorire la natalità (sic) attraverso il “family act”, di potenziare un welfare familiare (non si esce dall’angusto recinto della “conciliazione casa/lavoro” che dà per scontato che chi deve conciliare due lavori, quello dentro e quello fuori casa, siano le donne); di estendere il “lavoro agile” (leggi precario), di favorire l’empowerment attraverso il sostegno all’imprenditoria femminile…
Niente vien detto, inoltre, sul fatto che spesso lavori domestici e di cura, così come molti lavori precari o informali, siano svolti da donne migranti, ultime fra le ultime… Anzi per questo Piano le donne migranti manco esistono!

Dunque anche per quanto riguarda il genere femminile il PNRR non pianifica politiche trasformative, ma ribadisce le ricette del passato che poco o nulla hanno giovato alla condizione delle donne, specialmente per le donne di classe sociale impoverita e/o migranti.

Alcune brevi osservazioni su aspetti specifici, per concludere

Sulla tanto declamata transizione ecologica riportiamo quanto scritto da Greenpeace nel suo commento al Piano: «Il Recovery Plan presentato e approvato in Parlamento è davvero deludente: pochi aspetti positivi ma nessuna vera priorità per le rinnovabili, solo briciole alla mobilità urbana sostenibile e per la cura della biodiversità, nessun intervento serio per l’agricoltura ecologica. In compenso una porta spalancata per l’idrogeno blu di ENI (prodotto da gas e usando tecniche rischiose e costose come il famoso Carbon Capture and Storage)».
Ancor più tranchant i giudizi di altre associazioni e movimenti ambientalisti che sottolineano come per una vera transizione ecologica si sarebbero dovuto mettere in discussione il sistema capitalista nel suo insieme.
Sulla Pubblica Amministrazione le proposte che il Piano avanza sono ambigue. Si auspica, positivamente, un ricambio generazionale e un’innovazione organizzativa (soprattutto attraverso la digitalizzazione) ma poi si indica, seppur non apertamente, la necessità di superare lo strumento del concorso pubblico per favorire «percorsi di selezione delle migliori competenze» e per «eliminare colli di bottiglia» (?).

Alcune parole sugli asili nido. Positivamente si conferma il carattere educativo del servizio come era già stato sancito dal “Sistema integrato 0/6”, cioè il Piano di indirizzo pluriennale per la prima infanzia, e si aumentano le risorse a disposizione per aumentarne il numero in particolare al sud d’Italia.
Poi però non si riconosce l’asilo nido come un diritto delle bambine e dei bambini ma lo si considera strumento di “conciliazione casa/lavoro” sminuendone lo spessore educativo. Ed inoltre non si scioglie il nodo di fondo e cioè se i nidi debbano essere sottratti alla categoria dei servizi a domanda individuale e quindi essere davvero parificati, dal punto di vista normativo, alle scuole per l’infanzia. Una questione, questa, di fondo.

Per quanto riguarda la salute nelle differenti fasi della vita, dopo che la pandemia ha messo in luce la fragilità dei nostri corpi e la loro interdipendenza, non c’è praticamente nulla di quanto era lecito aspettarci: i fondi per il SSN non sono sufficienti a coprire i buchi lasciati dalle nefaste politiche neoliberiste di tagli indiscriminati e di una visone ospedalocentrica che ha svuotato, seppur non in tutte le regioni, i presidi socio-sanitari territoriali. Sostenere la necessità della medicina territoriale senza definire tempi, strumenti, professionalità specifiche è fumo negli occhi. Parlare di telemedicina lo stesso.

Invece secondo il Presidente del consiglio i 19 miliardi per la Sanità previsti nel piano possono “fare la differenza” in un settore nel quale da circa vent’anni vi è stata una costante diminuzione delle risorse economiche a disposizione. Così però non sembra se si considera che il programma di riassetto preparato dal ministero della Salute ne richiedeva almeno 60.
Nella stesura precedente del PNRR, quella del governo Conte per intenderci, si attribuivano al settore 32 miliardi. Quindi, ironicamente, la rivista Formiche scrive che «abbiamo assistito a quella che in inglese viene chiamata, forse con poca eleganza, the salami strategy, la strategia del salame, in base alla quale si taglia una fetta alla volta».
Il sistema sanitario pubblico, seppure malmesso dopo anni di riforme neoliberiste, ha saputo far fronte, grazie e soprattutto al personale che vi lavora, alla pandemia in corso contenendone le drammatiche ricadute. Ci si poteva aspettare quindi che il PNRR aumentasse le dotazioni mediche e infermieristiche, ridefinisse il rapporto di lavoro con i “medici di base” per favorire le terapie domiciliari, promuovesse la creazione di “ospedali di comunità” e di una rete poli-ambulatoriale pubblica e territoriale
Se di tutto questo non c’è traccia, è molto probabile che, anche in questo caso, non si voglia per davvero cambiare rotta.

Per quanto riguarda la salute riproduttiva delle donne non una parola sull’applicazione della 194, minata da un’obiezione di coscienza ormai fuori controllo né sulla necessità di potenziare i Consultori pubblici, nonostante si faccia un gran parlare di medicina territoriale.
Istituiti dalla legge 405 del 1975, grazie alla pressione dei movimenti delle donne, i consultori hanno rappresentato una straordinaria esperienza socio-sanitaria capace di tenere insieme molti degli aspetti (sanitario, sociali, psicologici, economici) che contribuiscono al benessere delle persone e di farlo a livello locale coinvolgendo nell’elaborazione delle politiche socio-sanitarie del servizio operatori, istituzioni e utenti. I consultori pubblici sono stati luoghi di incontro e di dibattito delle donne per le donne, spazi aperti e non giudicanti di accoglienza e di risposta ai bisogni. Anche in materia di aborto. La legge 34 del 1996 prevedeva la presenza di un consultorio pubblico ogni 20.000 abitanti, i dati, raccolti nel Dossier sui consultori familiari redatto nel 2019 dalle ACLI, ci dicono che in Italia vi sono complessivamente 2354 consultori afferenti al SSN e 297 quelli non afferenti. Numeri ben lontani da quanto previsto dalla legge del 1996.
Come ha scritto tempo fa sulla rivista InGenere Gina Pavone «i consultori sono stati tra le prime vittime dei tagli al welfare territoriale» imposte dalle politiche neoliberiste. Da questo punto di vista ha perfettamente ragione chi sostiene che «I consultori non siano falliti» ma «siano stati boicottati». Sarebbe stato un bel segnale di cambiamento se il PNRR avesse messo a disposizione risorse adeguate per ridare vigore ai Consultori pubblici nello spirito della legge istitutiva.

Vogliamo, infine ma non per ultimo, sottolineare un aspetto emblematico.
Il 14 maggio scorso si sono tenuti a Roma gli Stati generali della Natalità per invitare in particolare le donne, fra i soggetti più colpiti dalla pandemia riguardo all’impoverimento, alla perdita di lavoro, alle violenze, a fare figli per aiutare la crescita del Paese (sic)! È utile a questo proposito riportare il commento della Federazione Nazionale delle Ostetriche (FNOPO), che pure esprime apprezzamento al PNRR governativo, «le donne devono poter trovare le condizioni migliori di accoglienza, preparazione e assistenza alla gravidanza. Solo le misure e gli interventi che guardano al medio e lungo periodo in sanità, welfare e politiche del lavoro sono in grado di far cambiare rotta al fenomeno delle “culle vuote”. Diversamente, invece, si tratterebbe di misure tampone che quindi non porterebbero ai risultati sperati».

Insomma tutto ciò detto sembra che due antichi detti possano esprimere sinteticamente quel che pensiamo sul PNNR di Draghi: «tanto rumore per nulla» e «tutto cambia perché nulla cambi».


IFE Italia

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