Vivere, confliggere, progettare nella pandemia.
Coloro che hanno pensato e sperato che sarebbe andato tutto bene e che saremmo usciti dal periodo di confinamento migliori di prima, purtroppo si sbagliava. Potrà andare meglio solo se sapremo confliggere e rimettere in discussione dalle fondamenta il sistema economico e sociale nel quale viviamo. Sono state le ingiustizie, la violenza e gli squilibri di questo sistema che hanno permesso al virus di svilupparsi e di correre per il mondo e che ora stanno producendo una “crisi economica e sociale di proporzioni bibliche”. Una crisi che, dentro una società nella quale le appartenenza di genere, di classe e di “razza”determinano asimmetrie di potere e di status, non colpirà tutte e tutti allo stesso modo.
Le donne,ancor di più se di classe sociale impoverita e/o migranti, pagano e pagheranno a livello globale un prezzo altissimo in termini di diritti e quindi di condizioni di vita.
Dire ciò non significa fare del vittimismo ma avere chiaro quali sono le soggettività materiali più colpite per comprendere fino in fondo la natura e la funzione dei rapporti di sfruttamento e di dominio ed agire di conseguenza.
Lavoro produttivo e riproduttivo
-Dentro la pandemia, in particolare nei lavori legati alla cura, in ospedale come a casa, e nelle attività produttive rimaste aperte anche durante il lockdown, le donne sono state e sono in prima fila.
Infermiere, mediche, addette alle pulizie, cassiere, operaie, badanti, caregiver, farmaciste hanno lavorato e stanno lavorando in condizioni pericolose per la loro salute, con orari estesi e spesso con salari miseri;
-la pandemia ha acuito le disuguaglianze per quanto riguarda il lavoro domestico. Un lavoro, del resto, mai equamente distribuito fra generi e spesso affidato a donne migranti;
– il cosiddetto “smart working” cioè il lavoro da casa che molte donne stanno svolgendo dall’inizio della pandemia, è aumentato in modo esponenziale ed ha ulteriormente peggiorato la loro condizione di vita. Questa tipologia lavorativa, introdotta dal “Jobs Act” e codificata in via definitiva con la Legge n. 81/2017, fa sì che le donne lavorando da casa “possano”, al contempo, occuparsi dei bambini, del cibo, della pulizia. E vista la prolungata chiusura delle scuole, a causa del covid-19, provvedano anche all’istruzione dei bambini.
Un triplo lavoro nel chiuso delle parete domestiche, senza più distinzione fra vita personale e vita lavorativa e in uno spazio non consono, che rischia di essere protratto nel tempo anche al di là dell’emergenza, visto che consente un “risparmio” in termini di servizi pubblici.
Interessante a questo proposito l’iniziativa promossa da alcune giovani donne e madri in Germania che, alla luce dei cospicui finanziamenti pubblici alle industrie e tenuto conto della scarsa considerazione del lavoro riproduttivo sostenuto dalle donne nel periodo di confinamento, hanno inviato al proprio Land di riferimento la fattura dei lavori svolti chiedendone il rimborso visto e considerato che tale lavoro ha consentito di sopperire alla chiusura dei servizi pubblici.
Povertà
L’impatto del coronavirus sull’economia globale rischia di far precipitare mezzo miliardo di persone sotto la soglia della povertà estrema. Così sostiene Oxfam, una rete globale di organizzazioni no-profit, che attraverso il rapporto “Dignità non miseria”, denuncia come la contrazione dei consumi e dei redditi causata dallo shock pandemico rischia di ridurre in povertà tra il 6 e l’8% della popolazione mondiale.
In Italia, secondo la Caritas, sono 10 milioni le persone a rischio di povertà assoluta a causa della pandemia.
Le più colpite saranno le donne perché, oltre al fatto che in ogni parte del mondo le donne sono oggettivamente più povere degli uomini, gli studi che “si concentrano sull’impatto economico della pandemia teorizzano che esso possa essere particolarmente negativo per il genere femminile, poichè a livello globale la maggioranza di coloro che lavorano part time e nell’economia informale sono donne”, come scrive Federica Gentile su Ladynomics.
Violenza maschile sulle donne
Con 90 paesi in stato di confinamento sociale, oltre quattro miliardi di persone sono rimaste bloccate a casa. Per alcune donne questo ha significato essere maggiormente esposte alle violenze maschili.
“È una situazione catastrofica”, ha dichiarato a Euronews Natalia Kanem , direttrice esecutiva dell’Agenzia delle Nazioni Unite focalizzata sulla salute sessuale e riproduttiva (UNFPA).
Secondo gli ultimi dati dell’ONU la violenza domestica, nella pandemia, è aumentata in media del 30%; in particolare in Francia più del 30%, in Argentina più del 25% e a Singapore più del 35%, mentre in Cina i casi di violenza sono triplicati rispetto al numero dello scorso anno.
In Italia dall’inizio del lockdown è molto aumentato il numero di telefonate ricevute dal 1522, il numero verde contro la violenza di genere e lo stalking. Come riporta l’Istat, le telefonate valide sono state il 73% in più rispetto allo stesso periodo del 2019 e le donne che hanno chiesto aiuto sono aumentate
del 59%.
Dal 2 marzo al 5 aprile 2020 sono 2.867 le donne che si sono rivolte ai centri antiviolenza della rete Di.Re, Donne in Rete contro la violenza, il 74,5% in più (1224 donne) rispetto alla media mensile registrata due anni fa. Le maggiori richieste di aiuto sono arrivate dalla Lombardia e dalla Toscana. Un dato drammatico che riflette gli effetti collaterali dovuti alla convivenza con il proprio aguzzino a cui molte donne sono state costrette dal lockdown.
Secondo i dati di “In quanto Donna” negli oltre due mesi di confinamento sono sono stati commessi ad opera di maschi conosciuti 11 femminicidi.
Il Segretario generale dell’Onu , in video-messaggio, ha dichiarato :” Invito tutti i governi a far sì che la protezione delle donne che subiscono violenze divenga una parte fondamentale dei loro piani di nazionali di contrasto al covid-19. Bisogna aumentare gli investimenti nei servizi online e nelle associazioni e garantire che i tribunali continuino a perseguire coloro che commettono gli abusi. I centri anti-violenza ed alloggio devono essere aperti e considerati essenziali come le farmacie e i generi alimentari. Per proteggere le donne bisogna dar loro la possibilità di fuggire dai loro aguzzini.”
Contraccezione e Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG)
Le grandi difficoltà di approvvigionamento stanno limitando, in ogni parte del mondo, la disponibilità di contraccettivi. Le cliniche di una dozzina dei paesi più poveri prevedono di esaurire le scorte entro i prossimi sei mesi.
A causa di tutto ciò l’ UNFPA ha calcolato che milioni di donne e ragazze in tutto il mondo saranno a rischio di violenza, di gravidanze involontarie e prive di ogni controllo sanitario.
In Italia sul versante IVG la situazione è molto preoccupante. Alcuni ospedali, impegnati contro il virus, ne hanno sospeso la pratica, per esempio in Lombardia ciò è avvenuto a Codogno, Casalpusterlengo, Alzano Lombardo e Seriate. Per sospendere la pratica ci si è rifatti al DPCM del 9 marzo scorso che consentiva di “rimodulare o sospendere le attività di ricovero e ambulatoriali differibili e non urgenti” . Quindi l’ IVG non è stata ritenuta attività “indifferibile ed urgente” ed è stata pertanto sospesa. Aggiungo che le organizzazioni fondamentaliste “Pro Vita e Famiglia” hanno indirizzato una petizione on line al Ministero della salute (sostenuta da 12mila firme) per chiedere la sospensione dell’IVG in tutti gli ospedali.
La scarsa applicazione della 194 (la legge che norma appunto l’ IVG), minata, prima dell’emergenza Covid-19, da un numero altissimo di obiezione di coscienza , ha determinato l’aumento di IVG clandestine, secondo una stima contenuta nell’ultima “Relazione annuale sull’attuazione della legge 194” nel 2017 esse state fra le 12 e le 15 mila. Il rischio è che l’epidemia ne faccia aumentare il ricorso con ricadute pesanti sulla salute delle donne.
Per questo vari gruppi femministi, fra i quali “Pro Choice Italia”, NonUnaDiMeno, e “Obiezione respinta” sono al lavoro per monitorare ed indicare gli ospedali ancora operativi e per chiedere il potenziamento dell’aborto farmacologico tramite RU486, purtroppo ancora poco diffuso nel nostro Paese.
Che fare?
Il quadro che emerge da queste breve disamina non consente ottimismo. Alcune proposte potrebbero mitigare gli effetti nefasti che la pandemia sta producendo, in primo luogo per garantire alle donne, ma in generale a tutti, che non venga sospeso nessuno dei diritti acquisiti e per impedire una regressione complessiva delle condizioni di vita.
Penso ad una riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario per tutte le lavoratrici a rischio di contagio; al riconoscimento di un reddito di autodeterminazione (come da tempo richiede il movimento femminista); all’attivazione di asili nido e centri estivi gratuiti per le bambine ed i bambini in età evolutiva; alla certezza della riapertura delle scuole a settembre; alla garanzia di un sistema sanitario pubblico sottratto alla frammentazione regionale efinanziato adeguatamente; all’esigibilità in ogni ospedale della legge 194 ed al potenziamento dell’aborto farmacologico; alla certezza di un tetto sicuro per ogni donna che vuole sottrarsi a situazioni di violenza e ad un sostegno economico per i centri antiviolenza.
Proposte di buon senso che però non mi pare compaiano nel “decreto rilancio” da poco varato per far fronte alla crisi. Anzi il decreto,in un triste circolo vizioso, tende a sostenere il sistema economico e sociale che ha prodotto la crisi stessa.
Eppure anche se queste proposte venissero adottate ciò non sarebbe sufficiente. La pandemia ha messo in evidenza tutti i limiti del sistema capitalista e patriarcale tanto che la soluzione a questa crisi può arrivare solo con un radicale cambiamento del paradigma economico e sociale.
In queste settimane, ci si sta rendendo conto di quanto bisogno avremmo di una “economia della cura” che produca vita (come il femminismo ha da sempre auspicato) contrapposta a quella del mercato e del profitto. Un’”economia della cura” che, per non essere solo una rassicurante suggestione, costringa a ripensare, in dimensione globale, un progetto politico capace di agire i necessari conflitti per modificare gli attuali rapporti di forza e le consolidate gerarchie del potere.
Un progetto politico che sappia riconoscere le differenti soggettività e le contraddizioni di cui sono portatrici ed insieme sappia riunificare i conflitti, che pure esistono, per articolare una visione della realtà che riscopra un destino comune e ridia respiro ad democrazia non solo formale.
Come costruire un tale progetto dentro la pandemia è la sfida che abbiamo davanti.
Nicoletta Pirotta