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Se muore Gaza finisce anche l’Europa

di Stefano
Galieni

Stiamo per assistere, in diretta, agli ultimi giorni di Gaza? Ci sono oggi tutte le condizioni, la congiuntura, per il ricercato Benjamin Netanyahu è mai come ora favorevole. L’elezione di Trump ha rinvigorito l’appoggio Usa mai messo in discussione, la morte di Bergoglio ha reso vacante la sola sede diplomatica che condannava l’operato dell’esercito israeliano e del suo governo, l’Europa resta silente e cerca invano in ogni critica all’operato da macelleria dei responsabili di genocidio, tracce di “antisemitismo”, da sbandierare per sentirsi la coscienza pulita. Del resto l’attenzione mediatica è concentrata su quanto avviene in Ucraina. Lì le vittime non sono numeri ma, in quanto bianchi ed europei, hanno diritto ad un volto, ad una storia, ad una dignità. Si aspetta la visita del Presidente Usa che sarà a Tel Aviv a benedire il massacro, ci si rivolge in maniera diplomatica alla resistenza di Gaza, di qualsiasi orientamento politico, con frasi gentili come “dateci gli ostaggi o vi faremo a pezzi”, in puro stile da western 4.0. L’operazione militare – strano che imitando Putin non la definiscano “di polizia” – avrà il nome biblico di “Carri di Gedeone”, ma viene già chiamata dagli addetti allo sterminio “operazione Piccola Gaza” e si pone l’obiettivo di occupare gran parte della Striscia di 365 km quadrati. Nella Bibbia il condottiero ebraico guidò trecento soldati con torce, trombe e piatti per far credere al nemico di disporre di una grande armata e convincerlo a ritirarsi, chissà quanto ci sia di sarcastico in questa denominazione e quanto rappresenti invece una nemesi, visto che in oltre 19 mesi di guerra e nonostante l’utilizzo di uomini, mezzi e alta tecnologia militare, il potere di Hamas non risulti affatto diminuito a Gaza. Lo schieramento della nuova forza d’attacco richiederà almeno un paio di settimane. Se otterrà i risultati agognati proseguirà col trasferimento forzato della popolazione. Da quanto trapelato l’offensiva comincerà dalla zona nord, dove era partita anche la manovra precedente, al cui termine si dichiarò in maniera trionfalistica che l’area era stata “bonificata” da Hamas. Chi nell’Idf si augura che l’annuncio sia unicamente di natura propagandistica e di deterrenza, per convincere i jihadisti a trattare la liberazione degli ultimi ostaggi, parla di manovra militare infinitamente più violente. Le fonti governative invece dichiarano di voler occupare – come e per quanto tempo non è dato saperlo – gran parte della Striscia, per deportare la popolazione civile separarla dai combattenti, da sterminare, e creare una zona cuscinetto con gli attuali confini israeliani. Va ricordato sempre che Israele non ha mai voluto determinare i propri confini che quindi si potrebbero estendere. L’operazione, come le altre attuate nell’anno e mezzo trascorso dall’attacco del 7 ottobre, in perfetto stile da controguerriglia, si pone ufficialmente l’obiettivo di proseguire con l’eliminazione di Hamas, ma i risultati sono sotto gli occhi di tutti coloro che intendono tenerli aperti. Hamas, nonostante l’eliminazione dei suoi leader storici, mantiene l’organizzazione gerarchica e funzionale che aveva, nuove reclute, ancora più disperate, magari meno addestrate, hanno sostituito i caduti, e la loro inadeguatezza militare si cancella attraverso l’odio profondo e irriducibile verso Israele.

Fra gli obiettivi dichiarati c’è quello di eliminare il controllo della distribuzione degli aiuti, considerato dallo Stato Maggiore israeliano, il vero caposaldo delle organizzazioni – non solo Hamas – che animano la resistenza. Gaza subisce una guerra da 19 mesi e da 67 giorni non riceve cibo, perché secondo lo Stato di Israele gli aiuti umanitari finiscono tutti ad Hamas e quindi è legittimo bloccare i 650 camion che avevano ripreso, per poche settimane, ad entrare nella Striscia tra metà febbraio e i primi di marzo. Quindi è legittimo, secondo il governo Netanyahu affamare i civili, per impedire che anche i guerriglieri mangino. Eppure, è chiaro a chi vuole comprendere, che dopo aver distrutto tutti gli ospedali, gran parte delle infrastrutture, della rete idrica ed elettrica, oltre 170 mila palazzi, oltre 51 mila vittime accertate, di cui un terzo bambini, – entrando nella logica cinica del genocidio – , anche militarmente il bilancio è per Netanyahu negativo. L’occupazione stabile di vaste zone di Gaza, per “isolare la popolazione dai terroristi” ha possibilità di successo solo se si convincono i civili a non collaborare più con chi resiste all’occupante. Come si teorizzava anche nelle guerre coloniali ma fino all’invasione Usa in Iraq, “bisogna conquistare i cuori dei civili e non deportarli per ridurli allo stremo”. Invece la scelta israeliana sembra ricalcare quella attuata col terrore dalle truppe coloniali italiane, prima in Libia e poi in Etiopia – pochi giorni fa ricorreva l’anniversario dell’occupazione di Addis Abeba -, fame e sete alimentano la resistenza all’occupante.

Secondo gli analisti, il governo, oltre a dover sopportare una crescita del dissenso interno, tanto da parte dei familiari degli ostaggi, che accusano Netanyahu e i suoi ministri della perdita dei propri cari, a quello nell’esercito, in particolare dei vertici dell’Idf, anche fra le brigate che hanno una lunga storia di sangue alle spalle, e fra riservisti che saranno chiamati a Gaza e non hanno mai affrontato un conflitto così lungo a così alta intensità, si paga il fallimento della cosiddetta strategia di “segmentazione e raid”, adottata finora per  interrompere le linee di comunicazione dei guerriglieri, dividendo Gaza in settori. E si è rilevata controproducente anche l’idea di obbligare la popolazione a trasferirsi in altri settori della Striscia, realizzando nei punti occupati, basi fortificate temporanee da cui far partire rastrellamenti in ogni area vicina, utilizzando caccia, artiglieria pesante e droni, alla ricerca dei presunti capi della resistenza. Il tutto mediante una campagna aerea affidata ad algoritmi.

C’è da credere che i “Carri di Gedeone” abbiano a questo punto ben altro scopo. Non solo salvare un governo la cui credibilità è in crollo quanto quello di realizzare un folle piano già preannunciato dallo scorso anno da eminenti intellettuali del regime israeliano, oggi a Gaza, domani nel resto dei Territori Occupati. La divisione in settori con presenza araba, separati fra loro, almeno 6 nella Striscia, in tutte le città arabe della Cisgiordania che diventeranno ufficialmente dei “bantustan” o, come piace dire ai media della destra di Tel Aviv, “emirati” con propri apparati di sicurezza interni ma separati fra loro, altro che “due popoli due Sati”. A recitare la parte del duro e puro c’è oggi il ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich (leader del Partito Nazionale Religioso – Sionismo Religioso, di estrema destra, che ha affermato come, una vittoria di Israele a Gaza si tradurrà nella distruzione completa del territorio palestinese. “Gaza sarà completamente distrutta, i civili saranno mandati a sud, in una zona umanitaria senza Hamas o terrorismo, e da lì cominceranno a partire in gran numero verso Paesi terzi”, ha dichiarato durante una conferenza sugli insediamenti ebraici nella Cisgiordania occupata.

Si è perso già troppo tempo nel calibrare le parole per non rischiare di compromettere i rapporti con Israele, oggi esiste una sola strada percorribile per impedire che anche il 10% di queste minacce si concretizzi. Il riconoscimento, da parte dell’UE, dello Stato di Palestina, la rottura di ogni relazione politica, diplomatica ed economica con Israele che va isolata come lo fu il Sudafrica durante l’apartheid da cui Tel Aviv ha preso esempio, l’intervento immediato di forze di interposizione Onu per fermare la catastrofe e garantire i primi aiuti. Doveva accadere ben prima del 7 ottobre, episodio che non segna l’inizio di nulla ma è solo una tappa di una questione non risolta da quasi ottanta anni. Ma nulla si è fatto e il silenzio degli apprendisti stregoni che governano il pianeta porta oggi verso l’ennesimo passo in avanti sull’orlo dell’abisso. E accade mentre fra due potenze nucleari, India e Pakistan, si stanno gettando le basi per l’innalzamento di intensità dell’ennesimo e funesto conflitto, mentre in Ucraina si continua a credere nelle vittorie armate, mentre nel continente africano si muore nel silenzio assordante.

Tornando a quelli che potrebbero essere gli ultimi giorni di Gaza e chiamando ognuna e ognuno ad agire, ad intensificare le proteste, le mobilitazioni, i dibattiti e le pratiche di boicottaggio, proponiamo anche di firmare una petizione lanciata da Africa ExPress per chiedere a governo e parlamento italiano, di rompere il silenzio riconoscendo, come hanno già fatto altri in Europa, lo Stato di Palestina (https://www.change.org/p/appello-a-governo-e-parlamento-%C3%A8-ora-di-riconoscere-lo-stato-di-palestina?redirect_reason=guest_user ) . Chiediamo di firmarla e di condividerla. Almeno questo semplice gesto per rompere il sentimento di indignazione e impotenza in cui siamo immersi. E comprendiamo bene che se muore, come si vuol far morire Gaza, muore anche l’Europa e il suo diritto di definirsi continente dei diritti.

 

Stefano Galieni

 

 

 

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