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Il destino di Roma

di Marino
Calcinari

Clima, epidemie e la fine di un Impero.

Il lungo declino della costruzione imperiale e statuale di Roma può essere ricompreso nell’arco temporale che va dal 476 al 650 d.C. A differenza di Gibbon e della storiografia tradizionale consolidata, Kyle Harper docente di lettere classiche alla University of Oklahoma non modifica però solo la cronologia degli avvenimenti ma prende in esame anche le altre cause che concorsero a far collassare quell’entità millenaria, e cioè l’ambiente e le pandemie. Recenti studi hanno infatti consentito di stabilire come ad esempio per un lungo periodo l’impero potè giovarsi di una elevata stabilità climatica – il periodo dell’Optimum climatico romano copre un arco di tempo che va dal 200 a.C al 150 d.C.- e che, solo con la ricomparsa di una improvvisa epidemia di vaiolo nero, ricordata come la “peste antonina” apparsa nel 166 d.C. di provenienza asiatica, quella condizione di stabilità e benessere si incrinò. Allora l’impero romano affrontò un primo grande stress, documentato peraltro da storici, come Elio Aristide che ne fu colpito ma sopravvisse ed appose alcune note su quella micidiale esperienza, e poi dal più famoso medico del tempo, Galeno medico personale di Marco Aurelio e del figlio Commodo, che dalla natia Pergamo si era trasferito a Roma nel 162. e che ebbe modo di descrivere la malattia allorquando si trovava, nel 168 per motivi di lavoro ad Aquileia, dove si stavano concentrando alcune legioni che sarebbero dovute partire per il confine orientale a Carnuntum. Nella primavera di quell’anno infatti gli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero avevano deciso di compiere un viaggio di ricognizione in quella parte dell’Impero ed Aquileia fu la prima tappa, ma qui furono sorpresi dal rapido dilagare dell’epidemia che intanto aveva già provocato la morte del prefetto Furio Vittorino. Galeno assistette impotente agli effetti del grande contagio che seminò la morte tra i soldati delle legioni e gli equipaggi della flotta militare. L’epidemia durò fino al 172 d.c. e falcidiò oltre 7 milioni di persone (allora vivevano entro i confini dell’impero circa 75 milioni di persone). Una crisi più dura scoppiò però nel 249 d.C. coincidendo con l’assassinio di Filippo l’Arabo, la grande migrazione gotica e la cosiddetta “peste di Cipriano” (vescovo di Cartagine che per primo aveva indagato e registrato la malattia ).Si trattava di una febbre emorragica virale, alla cui origine stava una mutazione di un filovirus collegato a qualche animale, anch’esso veniva da est ma aveva raggiunto prima l’Egitto e da lì con le navi il morbo era giunto a Roma e persistette per quasi 15 anni abbattendosi sulle metropoli dell’Impero (Alessandria, Antiochia, Cartagine ) ed anche su più remote cittadine (Ossirinco, Apamea, ecc.). Può essere considerata la prima pandemia globale, assimilabile alla “spagnola” che imperversò dal 1918 al 1922 per i molti punti di contatto con essa. In quel tempo allora l’impero non resse e subentrò l’anarchia: all’invasione gotica si sommò l’aggressione persiana, si disintegrò il vallo renano, oltre a quello del Danubio, l’imperatore Valeriano fu catturato dai persiani e morì prigioniero a Ctesifonte, molte zone dell’Impero si separarono e si autogestirono come accadde a Palmira, esplose infine una crisi economica e monetaria ad acuire le tante instabilità e debolezze strutturali sino all’avvento di Claudio II, il primo imperatore soldato, di origine pannonica che si adoperò per rimediare ai guasti causati dalla pandemia e dalla crisi politica ed economica in cui l’impero era precitato. Quel periodo che va dal 248 al 268 d.C può essere considerato il “ventennio nero” di Roma. Ma era intervenuto, in quel lasso di tempo un altro fattore, imprevedibile, e di portata globale, l’alterazione del ciclo solare e il mutamento climatico: il calo dell’insolazione ed il progressivo raffreddamento del clima che arrecarono danni incalcolabili ai terreni, all’agricoltura, agli insediamenti umani sulle località elevate, alle attività produttive e quindi inaridimento, siccità, carestie, la stessa irregolarità delle piene del Nilo con le mancate inondazioni delle terre schiantarono l’agricoltura dei cui prodotti vivevano le grandi città del bacino mediterraneo, Roma compresa. La peste di Cipriano fu un evento pandemico transcontinentale di indescrivibile grandezza. Ci vollero decenni per recuperare i guasti prodotti dalla peste: il calo demografico, lo spopolamento dei grandi centri urbani, l’anarchia politica, la rarefazione di commercio e industrie e per misurarsi con le novità del cambiamento climatico furono necessarie grande trasformazioni a cominciare dalla struttura degli assetti di potere dell’edificio imperiale. La scelta di una seconda capitale, la suddivisione dell’impero, il ripristino delle attività economiche, produttive e commerciali avrebbero consentito la possibilità di una fuoriuscita dalla cris e dalla prostrazione garantendo un altro secolo di sviluppo. Lo storico Ammiano Marcellino parla nelle sue Storie” di “ Fortunae volucris rota”, della ruota velocissima della fortuna, che sempre alterna avversità ed eventi favorevoli” ma però non spiega come ad occidente potè bastare una lieve crisi politica nel sistema di comando della gerarchia imperiale per consentire ai Visigoti di saccheggiare Roma – scrisse Agostino che “con una sola città peri la terra stessa”- e di abbandonare interi territori al governo di signorotti, luogotenenti o militari che non rispondevano più all’autorità di Roma, mentre Costantinopoli di fatto subentrava ad assumere il ruolo di Nea Rome (nuova Roma) sviluppando con una fiorente economia (sorretta dal buon funzionamento del settore finanziario, da politiche creditizie, bancarie e commerciali ) le basi di consolidamento e consenso intorno alla figura dell’Imperatore e nella saldature tra stato e credo religioso quell’edificio statuale sarebbe sopravvissuto oltre un millennio. Purtroppo la fine sarebbe giunta ben prima, ma fino al VI secolo vi fu nella Pars Orientis un periodo di sviluppo e di crescita ininterrotta mente l’Occidente non riuscì più a ritornare a quel livello demografico, a quelle condizioni di tutela politica e di governo della società che avrebbero potuto invertire una rotta di fuoruscita dalle emergenze intervenute dopo lo choc del saccheggio del 410. Diversamente infatti avevano agito Teodosio e i suoi successori dopo la catastrofe militare di Adrianopoli del 378 e l’accoglienza ed integrazione dell’elemento barbarico nella società e nelle istituzioni romane orientali fece la differenza. Il cambiamento geopolitico che si sarebbe determinato nel VI secolo fu conseguenza di più fattori: le migrazioni di popoli dall’Asia Centrale, l’ulteriore raffreddamento climatico, la comparsa della Morte Nera, la Yersinia pestis, che giunse a Costantinopoli nel 541 d.C su una delle tante navi che solcavano le rotte dell’Asia, dell’Oceano Indiano, e del Mar Rosso portata dai ratti che allignavano nelle loro stive. Questa pandemia spazzò via le basi dell’ordine antico e rimase, riemergendo ad ondate nel tempo per circa due secoli. Sicuramente, per il tempo che ci interessa, fino al 571. Ne seguirono due secoli di stagnazione demografica e di rallentamento di ogni sorta di attività. Infine la seconda Roma, così debilitata ebbe a subire le aggressioni congiunte di persiani prima, di arabi poi, che invasero la Palestina, la Siria e l’Egitto facendo collassare anche quel mondo, che ridotto a Costantinopoli, alla Grecia e l’Asia Minore si sarebbe difeso, trasformato e riorganizzato come Impero Bizantino ma senza più le capacità di espansione e proiezione universale. Per Harper una data da prendere in considerazione è l’anno 641 quando muore Eraclio e la potenza maomettana si fa largo in Occidente.

Marino Calcinari

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