di Roberto Morea –
Il Mediterraneo è un mare di 2 milioni e 500.000 km2, Il punto più profondo è di 5.700 metri a largo del Peloponneso.
Ha 3300 isole e una popolazione di 450 milioni di persone dei 25 paesi che hanno una costa con cui si bagnano. Nel Mediterraneo si muovono il 30% delle petroliere che navigano per il mondo. La sua salinità raggiunge il 37 per 1000 ed è un mare chiuso, i soli ingressi sono attraverso lo stretto di Gibilterra e il canale di Suez, ma una goccia che entra da uno di questi ingressi, ci mette 150 anni ad uscire. Le plastiche che galleggiano nella sua superfice hanno un’estensione di 270.000 km2; queste sono solo un terzo delle plastiche presenti. Si è calcolato che oggi per ogni tonnellata di queste ce ne siano tre di pesci e che questo rapporto tra soli 20 anni sarà ribaltato. In questo mare vive il 28% della biodiversità con alcune specie che hanno solo qui la possibilità di trovare nutrimento e quindi la vita. 4 grandi fiumi lo riforniscono di acqua dolce e le sue correnti fanno si che l’evaporazione delle sue acque avvenga in inverno, facendo in modo che anche i balenotteri dei mari più profondi possano sopravvivere.
La regolazione della pesca di alcuni paesi non vale per molti altri e fuori dalle acque territoriali è soggetta al “res nullius” in cui tutto è possibile, nonostante i tentativi della CGPM (Commissione generale pesca mediterraneo) di dare delle regole generali per la pesca.
Questo è stato parte dell’intervento del biologo marino e presidente di Slow food Calabria Silvio Greco che più mi ha colpito durante i giorni di Sabir. Il festival delle culture del Mediterraneo, promosso da ARCI, Caritas, CGIL e con la collaborazione di tante altre organizzazioni, che si è tenuto per la sua quarta edizione a Palermo dal 11 al 14 ottobre.
Parlare del Mediterraneo è però parlare anche delle persone e delle idee che lo hanno attraversato, costruendo relazioni profonde e culture che negli anni si sono contaminate.
Sabir è appunto questo, una lingua franca, con cui si parlavano i viaggiatori per i commerci e gli scambi economici, anche durante le guerre delle crociate, segno di una costante e continua relazione.
Il Mediterraneo è la culla della nostra civiltà occidentale e a cui oggi voltiamo le spalle obbedendo ad una dittatura del profitto e della competizione che sono esaltati come i valori “reali” della costruzione dell’Unione Europea e trasformando ciò che è un processo naturale di scambio in un illegale e clandestino ingresso.
La Sicilia, da molti vista come sogno di un punto di arrivo, diventa così il posto da cui si parte per fame e dove si arriva per fame. Ma mentre da qui chi vuole partire può prendere un aereo e cercare lavoro, altrove, per coloro che sono dall’altra parte del mare, questo è vietato. Un viaggio della speranza reso illegale da leggi criminogene e quindi perseguibile così diventa illegale ogni soccorso in mare ed ogni atto di solidarietà fatto in terraferma verso coloro che qui arrivano. Persone che attraversano il mare non sui jet privati che portano ricchi sceicchi a fare spese in Europa di vestiti e industrie, ma di poveri che non sanno come vivere tra guerre e fame. Vittime di una condizione di cui la stessa Unione europea è partecipe. Questo svela il carattere del conflitto in atto non tra gli europei e gli altri, ma tra i ricchi e i poveri. Chi ci vuol dividere per colore della pelle o passaporto cerca di nascondere i veri interessi che muovono le guerre che esportiamo; guerre e povertà da cui fuggono le migliaia di persone che attraversano il mare.
L’Europa che oggi affonda nella barbarie dei rigurgiti del passato, affida al mare e ai campi di segregazione, le speranze e i sogni di una umanità a cui non si può chiedere di lasciarsi morire.
Dalle parole degli attivisti delle organizzazioni della società civile, di Turchia, Siria, Tunisia, Libia, che hanno partecipato al festival di Sabir, è emersa chiaramente qual’è la vera storia.
È stato appassionante ascoltare un ragazzo arabo che, nella sua lingua, racconta come gli aiuti che l’Italia e gli altri paesi europei offrono alle varie fazioni in Libia per garantire l’arresto e la detenzione dei migranti, servono solo ad aumentare l’instabilità con il rafforzamento delle bande armate che si combattono. Così è possibile capire che c’è una società civile, fatta di attivisti e persone impegnate su progetti di accoglienza, su cui si deve guardare per la costruzione di relazioni capaci di cambiare il segno del rapporto con quegli stati.
Il tema della sicurezza e della militarizzazione è un evidente modo di imporre condizioni di impoverimento e assoggettamento non solo per quei paesi ma per ogni cittadino del mediterraneo, sia esso dalla parte della nostra sponda sia per quelli che guardano a noi come soluzione.
Transform! europe per l’occasione ha portato un progetto che sta promuovendo con altri ed ha già presentato in diversi appuntamenti. Il progetto si chiama Colours of the Journey è il racconto attraverso dei disegni, che i bambini in fuga dai loro paesi coinvolti dalle guerre e hanno affrontato il percorso della rotta balcanica per raggiungere l’Europa, hanno disegnato per raccontare il loro passato, il loro presente e come immaginano il futuro. Per questo l’incontro di queste testimonianze, con altri bambini in Italia per seguire i propri genitori, che nella piana di Ragusa passano giornate aspettando il ritorno dei loro padri, impegnati nei raccolti delle sterminate serre dell’aera, è stato un evento emozionante. È stato davvero toccante portarli davanti ai disegni e vedere le loro facce e le loro reazioni, così come vederli recitare una versione di pinocchio messo in scena grazie alla cooperativa sociale “l’isola che c’è”. Tanti idiomi diversi per parlare una stessa lingua, proprio questo Sabir ci dice…c’è molto su cui costruire, su cui poter contare, per non aver paura di un futuro oscuro, la storia non è scritta e possiamo, insieme, darle il segno.