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Roma. Oltre la desertificazione

di Fausto
Tortora

Il dibattito sul futuro di Roma ospitato da Comune-Info interviene Fausto Tortora che, a fronte della desertificazione avvenuta in questi anni delle tradizionali forme di aggregazione sociale, indica un segnale di speranza nei “nuclei di nuova socializzazione” che si sono resi particolarmente visibili in occasione della pandemia, dando vita a inedite forme di solidarietà. Roma oggi è una città multietnica, multireligiosa, multiculturale con una stratificazione sociale che intreccia, “meticcia” e contamina ciascuna identità originaria. La ricerca di un’idea di città per Roma prosegue.


Per parlare di futuro, a Roma, bisogna vincere una certa riluttanza, la stanchezza e il disincanto. L’immobilismo, il piccolo cabotaggio e la visione miope vincono, e si sposano alla gestione conservativa di piccole e grandi rendite di posizione, di piccole e grandi posizioni di potere annidate nella tecno-burocrazia che prospera anche nei palazzi del governo locale, spesso in connessioni con reti criminali che sfiorano e si intrecciano con mafie, n’dranghete, camorre. Manca, con ogni evidenza, una dimensione progettuale. Eppure, in questi anni di desertificazione delle tradizionali forme di aggregazione sociale, si sono creati nuclei di nuova socializzazione che si sono resi particolarmente visibili in occasione della pandemia dando vita a inedite forme di solidarietà. Possibile che quelle riserve di entusiasmo e generosità non possano muoverci a scegliere finalmente il nostro futuro uscendo dal mare inesauribile dei mediocri e degli opportunisti?

È con una certa riluttanza, stanchezza e disincanto che, periodicamente, si torna a parlare di Roma e del suo futuro. Eppure la prossima scadenza elettorale rende ineludibile l’occasione per riprendere il filo di una riflessione che deve necessariamente assumere una dimensione progettuale. Infatti le diagnosi sullo stato attuale presentano ormai una sufficiente area di convergenza: crescita più che disordinata e determinata dalle forze della rendita fondiaria, degrado di tutte le articolazioni dei servizi pubblici, dai trasporti alla raccolta rifiuti, assenza di idee forti capaci di stabilizzare un tessuto economico che quindi è incapace di autorigenerarsi e interagire con le Università e gli altri centri di ricerca presenti nell’area; l’esito è quindi la polverizzazione di un terziario misero e marginale.

A questo deve sommarsi la tradizionale scarsa attenzione per le esigenze finanziarie di “Roma Capitale” da parte di tutti i governi centrali, che ha per conseguenza una insufficiente capacità di programmare con continuità la rete dei servizi alle famiglie e alle persone in tutti gli archi dell’esistenza, dall’asilo nido ai servizi integrati per la terza e quarta età.

Se a tutto questo aggiungiamo i due fattori di un’architettura istituzionale fragilissima, come quella basata sugli attuali Municipi e di una classe dirigente veramente povera dal punto di vista culturale e incapace di rapportarsi politicamente e culturalmente ad un organismo che sfiora ormai i cinque milioni di residenti, abbiamo un quadro della vivibilità e della qualità urbana che è contrassegnato dall’anomia, dal degrado, dall’emarginazione di intere porzioni del territorio dell’area metropolitana, in una parola, dalla disintegrazione sociale.

A fronte di questa analisi, che non ha pretese di originalità e che si presenta anzi, con caratteristiche di staticità, almeno da decenni, non vale accampare alibi, sia che si chiamino Raggi o Alemanno, e neppure evocare i nomi di Petroselli o Argan per rimpiangere i bei tempi andati. Infatti, se ai primi è facile accostare il pensiero di quelli che Antonio Cederna definiva i “nuovi barbari”, occorre prendere atto anche dei limiti delle esperienze del passato che non hanno saputo diventare storia, tradizione amministrativa, cultura del “bien vivir” tanto che le esperienze delle amministrazioni Veltroni o Rutelli sono rimaste nella memoria come grandi operazioni di immagine che poco o nulla hanno inciso sulle grandi forze economiche che da sempre governano Roma.

Qui è d’obbligo richiamare una vicenda, che sembra una divagazione rispetto al tema e che si consumò in Italia nei primi anni ’60 e che porta il nome di un ministro democristiano, Fiorentino Sullo, l’unico che formulò come Ministro dei Lavori Pubblici un disegno di legge urbanistica che avrebbe inciso sulla rendita fondiaria in quanto prevedeva, per poter edificare, l’esercizio, concesso dall’Autorità Pubblica, del “diritto di superficie” sulle aree da edificare, sempre pubbliche, e non già la proprietà privata delle stesse.

Ricordare questa storia non è un vezzo intellettuale ma prendere atto che la città pianificata in Italia riguarda sì e no il 10% dell’intero volume costruito; il resto è abusivo o condonato (il che è lo stesso). Proprio Roma, è la bandiera emblematica di questa situazione, di totale ingovernabilità e irrazionalità urbana, di totale prevalenza dell’interesse privato.

Uno degli antidoti possibili, per limitare il dilagare degli interessi della rendita avrebbe potuto essere non già la pianificazione urbanistica basata sulle zonizzazioni ottocentesche del PRG prima e dei Piani particolareggiati poi (di cui è capostipite il PRG del 1962), ma una gestione attiva e guidata dall’Amministrazione degli interventi unita ad un regime fortemente sanzionatorio di abusi, grandi e piccoli, a qualsiasi titolo compiuti, compresi quelli cosiddetti “per necessità”, e ad una forte politica di investimenti diretti perseguiti anche attraverso la cessione al “pubblico” (ATER o chi per lui), di porzioni di fabbricati realizzati dai privati in tutte le zone della città, così da evitare nuove ghettizzazioni. Ma la politica dell’urbanistica programmata ha visto a Roma incapacità (o corruzione) nel rapporto coi privati che si è tradotta in piena acquiescenza agli interessi delle grandi immobiliari.

Abbiamo già ricordato poi, e anche questa non è una novità, come sia mancata attenzione e cura da parte del Governo centrale per la sua Capitale: finanziamenti discrezionali, dati di volta in volta, anche a seconda dell’omogeneità delle appartenenze partitiche fra Amministrazione comunale e Governo che oggettivamente ha impedito, e allo stato attuale impedisce, una programmazione di grandi e piccole opere.

Il confronto con le grandi aree metropolitane europee è impietoso e l’impressione che si ha, al ritorno da un qualunque viaggio all’Estero, è disturbante. Non riusciamo a ricordare nessun grande intervento di infrastrutturazione urbana dopo quello operato in coincidenza e in preparazione delle Olimpiadi del 1960, e qualche spezzone di strada fatta per l’anno santo del Giubileo. Il MAXXI e il Parco della musica costituiscono episodi marginali la cui qualità intrinseca non è in grado di riscattare l’esiguità e la qualità degli interventi culturali nella “Città diffusa”.  Contemporaneamente, le grandi capitali del mondo occidentale avviano, non senza contraddizioni sociali,  programmi di rinnovo urbano, di riqualificazione in chiave sostenibile del patrimonio edilizio obsoleto; interagiscono comunque, in maniera diversa, con il futuro possibile.

A Roma sembra che tutto questo non sia, e non possa essere, all’ordine del giorno: l’immobilismo, il piccolo cabotaggio e la visione miope vincono, e si sposano alla gestione conservativa di piccole e grandi rendite di posizione, di piccole e grandi posizioni di potere annidate nella tecno-burocrazia che prospera anche nei palazzi del governo locale, spesso in connessioni con reti criminali che sfiorano e si intrecciano con mafie, n’dranghete, camorre.

Eppure Roma, la sua area metropolitana, sono cambiate; sono cambiati i suoi abitanti, sono cambiati i loro bisogni.

In questi anni di desertificazione delle tradizionali forme di aggregazione sociale, si sono create tuttavia nuclei di nuova socializzazione che si sono rese particolarmente visibili in occasione della pandemia dando vita a inedite forme di solidarietà. Roma oggi è una città multietnica, multireligiosa, multiculturale con una stratificazione sociale che intreccia, “meticcia” e contamina ciascuna identità originaria.

Occorrerebbe dare riconoscimento permanente alle aggregazioni che sono nate nei decenni del “silenzio/assenza” delle sedi di partito, sindacato, delle stesse parrocchie tradizionali e del loro associazionismo ormai obsoleto. Le stesse “comunità di fede” si vanno strutturando, in maniera socialmente rilevante, da un lato, come luoghi capaci di intercettare bisogni e, nei limiti del possibile, di soddisfarli almeno in una specifica area di riferimento e, dall’altro, a svolgere compiti “culturali” di presidio del territorio. Le scuole di italiano per gli immigrati o i doposcuola per i loro figli sono spesso ospitati proprio nei locali delle parrocchie una volta occupati dall’Azione Cattolica o dalle Dame di san Vincenzo. E questo accade anche in quartieri “bene” come corso Trieste-Parioli. La disponibilità e l’impegno del volontariato non si sviluppano solo all’ombra dei campanili o nei locali, assai più precari adiacenti alle moschee, ma creano e rinnovano forme di aggregazione nate sui bisogni di salvaguardia ambientale, di servizi a basso costo.

Un esempio? Domenico Jannaccone, in visita a Corviale ha dato voce ad una esperienza straordinaria come quelle del cosiddetto “calcio sociale” in cui si sperimentano, trasversalmente a tutte le età, a tutte le etnie, e a molte esperienze di vita e di lavoro, regole di vita che, se fossero traslate dal microcosmo in cui sono nate all’intero organismo urbano, avrebbero un significato straordinario, basate come sono sulla “cura” e su una “integrazione” veramente feconde.

Una iniziativa politica per Roma non può prescindere da un censimento dell’insieme di queste realtà e da un loro coinvolgimento attivo, censimento da fare quartiere per quartiere, strada per strada, senza strumentalismi ma disponendosi ad un ascolto attivo: criticando, se c’è da criticare raccogliendo suggestioni, priorità, bisogni. E senza fretta, anche per censire leadership urbane ormai sedimentate non per imbellettare future liste elettorali, ma per avere un bacino di futura “classe dirigente”, diversa dai galoppini dei signori delle tessere e capace di intercettare bisogni, ma anche necessitata ad addestrarsi alla mediazione e alle pratiche amministrative e di governo.

Tutte le pur necessarie riforme istituzionali di Roma Capitale non possono prescindere dalla conoscenza del suo territorio; ben tre Università statali e forse altrettante private devono essere coinvolte in questa grande inchiesta su cosa è Roma nel terzo millennio.

E su come potrebbe essere: bella, solidale e inclusiva. Possibile che tutte le riserve di entusiasmo, di generosità siano ormai spente e che dovremo rassegnarci a scegliere il nostro futuro nel mare inesauribile dei mediocri e degli opportunisti?

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