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Risignificare la genitorialità. Quando l’Amore diventa Politica

di Barbara
Piccininni

Nelle ultime settimane abbiamo spesso letto e ascoltato critiche feroci, affermazioni cattive, insinuazioni indegne, volte a colpire prima la sorella e poi Gino, il padre di Giulia Cecchettin.
Ci siamo interrogati nella redazione di transform!Italia su questo fenomeno, abbiamo cercato di capire se fosse inedito e se segnasse una nuova linea di confine.
Proverò qui a dare la mia interpretazione.

Le critiche ricevute dal “padre”, al modo in cui Gino Cecchettin ha scelto di incarnare la sua genitorialità/paternità, di fronte al dolore che invece si voleva vedere privato, disperato, vendicativo, sono un fatto inedito e sicuramente non ricorrente.
Gino, infatti, ha rotto gli schemi e ha deciso di “politicizzare” il suo dolore, di renderlo un fatto pubblico, non solo con il semplice gesto di parlarne pubblicamente ma con il gesto più complesso e faticoso di trasformarlo in un paradigma. In questo stesso senso riconosciamo il modo di agire di una vecchia pratica femminista che sosteneva, in una prospettiva peculiare, la politicità del privato.
Gino, nel suo discorso al funerale, ma anche nelle interviste, non rimane mai ingabbiato nel dolore senza speranza e senza consolazione perché sceglie, dando un significato a quanto avvenuto, di avviare un percorso di riflessione/liberazione per la società in cui continuerà a vivere. Egli invera le nostre parole “se stavolta tocca a me voglio essere l’ultima”. Sceglie di dare un orizzonte non individuale alla tragica vicenda che lo ha colpito e che ha colpito soprattutto sua figlia Giulia. Cerca di capire, di individuare delle responsabilità collettive, non solo individuali, verso il femminicida, di tracciare una strada per far in modo che tutto cambi, che non accada mai più.
In questo senso, Gino diventa anti patriarcale, e così facendo guadagna l’incomprensione e l’ostilità di un sistema che tutto norma sulla base di uno schema patriarcale, classista, borghese, bianco, etero cisgender.

Mentre elaboravo queste mie considerazioni ho pensato che questo era già successo altre volte nella storia, ma una volta, in un modo che io trovo veramente significativo dal punto di vista femminista intersezionale.
Mi riferisco alle Madres de Plaza de Mayo, e in particolare a Hebe De Bonafini, mancata il 20 novembre 2022.
Hebe era la Presidente delle Madres de Plaza de Mayo un gruppo di donne, semplici casalinghe abituate ad assistere all’attività dei figli senza porsi troppe domande, cresciute nel rispetto delle autorità costituite che, dopo il golpe militare del 24 marzo 1976, ebbero il coraggio di sfidare la dittatura e conquistare la piazza, decise a ritrovare i figli scomparsi. Da allora ogni giovedì, senza mail saltarne uno, le Madres hanno marciato, fatto la rondas nella piazza. Forti solo del fazzoletto bianco che si annodavano sotto il mento, delle fotografie dei figli appese sul petto, seppero inventare varchi con il proprio stesso corpo per far sapere al mondo quello che accadeva sotto una dittatura. Dopo aver vissuto un’esperienza abissale che le ha tenute per quasi trent’anni in presenza della morte senza accettarla, le Madri di Plaza de Mayo hanno fatto del “dar vita”, un potere irrevocabile.

Riporterò alcuni stralci delle parole di Hebe, tratte da una lunga serie di interviste di Daniela Padoan per il libro “Le Pazze”.
“Certo, fu necessario avere un grande coraggio, ma il coraggio ce lo diedero i nostri figli… il coraggio di uscire nello spazio pubblico. Ma devo dirti che il nostro non era coraggio… credo di no; piuttosto penso che fosse decisione, chiarezza su quello che volevamo… spesso, ci aizzarono contro i cani, e noi, per difenderci, imparammo a usare un giornale arrotolato. Cercavano di disperderci con i gas lacrimogeni, e noi imparammo a portare con noi una bottiglietta d’acqua e del bicarbonato. Ci sono tante cose che bisogna imparare, quando si lotta… Noi avevamo la nostra pazzia, e i militari il loro ordine, che cercavano disperatamente di mantenere. A disarmarli, era proprio il nostro modo di scardinare quello che per loro era normale”.
“Uscire dalla famiglia, andare in strada, andare in piazza e cambiare tutto un sistema di vita fu rivoluzionario, senza dubbio”.
“Se le idee per cui erano morti avessero continuato a vivere dentro di noi, ci dicemmo, non sarebbero riusciti a portarceli via, non sarebbero riusciti a farli morire”.
“In realtà quello che è successo è che siamo state partorite dai nostri figli. [..] Noi altre siamo uscite dalla cucina per imparare la politica, e, anche se ci mancavano i figli, abbiamo imparato quello che proprio loro avevano desiderato, e lo abbiamo fatto nostro; abbiamo imparato che ci sono maniere di vivere diversamente, e che essere madri di tutti i desaparecidos significa abbracciare tutti, non solo loro, ma anche gli uomini e le donne che lottano, e quelli che non hanno la forza di far sentire la loro voce, perché sono troppo emarginati”.

Le Madres, dunque, hanno socializzato la maternità, ne hanno ricavato un nuovo paradigma: la maternità come fatto politico, non biologico. Le Madres rappresentavano le madri di tutti i desaparecidos.
Hanno risignificato la maternità per tutti e tutte noi, dove per risignificare intendiamo un processo in cui la condizione di madre viene vissuta e, potremmo dire, “performata” fuori dai significati e dai canoni che storicamente le sono attribuiti. Hanno sovvertito il legame tra maternità e sfera privata. La condizione di madri si è così trasformata, portando le donne fuori dalla dimensione domestica, privata e facendone una postura politica, un elemento di connessione tra soggettività unite nella lotta all’ingiustizia sociale e nella costruzione di memorie marginalizzate e altrimenti, forse, irrecuperabili.

Questo processo coraggioso non è stata una semplice – seppur fondamentale – rottura del silenzio, ma ha trasformato il modo di vivere di molte donne in Argentina “da naturalmente determinato a socialmente e poi politicamente costruito” (Vignola): le donne che marciavano unite di fronte alla Casa Rosada – il luogo per eccellenza del potere, sempre maschile – diventavano soggetti, e non più oggetti, dell’azione politica, rivendicando giustizia e verità non solo per se stesse, ma per tutta la nazione.

Gino Cecchettin si è mosso lungo uno schema analogo e con quanta piena intenzionalità lo abbia fatto non è rilevante in rapporto alla sostanza “politica” dei suoi discorsi.
Riporto qui alcune sue parole.
“Io sono qui stasera perché mi trovo mio malgrado a combattere una battaglia di cui non ero a conoscenza prima [..] per cercare di dare un aiuto a chi ancora ha la possibilità di salvarsi. […] Quindi adesso mi trovo senza una moglie e senza una figlia e con la possibilità di gridare, all’Italia ma non solo – il messaggio sta arrivando anche Oltralpe – che dobbiamo fare tutti qualcosa. Elena, l’altra mia figlia, ha dato un messaggio – io l’ho sempre definita scherzosamente in famiglia “l’essere superiore” – e ha centrato veramente il punto. Quando l’ho sentita parlare di patriarcato, conoscevo la parola ma non il significato nella società moderna. E io supporterò Elena in tutte le sue battaglie, perché è una battaglia che dobbiamo fare tutti. […] quando ti ritrovi a piangere la perdita di una figlia – perché io ho iniziato a piangere per Giulia già la domenica, perché un padre certe cose le sente – e ti viene quasi normale provare rabbia e odio. Però io mi sono detto che volevo essere come Giulia, ho concentrato tutto il mio cuore e la mia forza su di lei e sono riuscito ad azzerare l’odio e la rabbia”.

Gino Cecchettin ha voluto impiegare il suo spazio pubblico non per sé, non per ribadire la devastazione del suo animo, la ferita irrimediabile che l’ha colpito, bensì per ricostruire, per proporre una società che sappia emendarsi.
Questa sua “rottura degli schemi” e “risignificazione” lo pone come bersaglio di quella oramai consueta macchina del fango che lotta strenuamente contro ogni cambiamento, in un eterno movimento di conservazione e/o restaurazione che è, e questo lo sappiamo noi e lo sanno loro, destinato a perdere e a fallire.
È dentro la lotta, non di resistenza ma di trasformazione, che c’è la grande potenza generativa di un nuovo concetto di genitorialità che va indagato e assunto.

Barbara Piccininni

femminidio, patriarcato, violenza contro le donne, violenza di genere
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