La strage di tanti uomini e donne nelle case di riposo, oggetto in questi giorni di tante prime pagine sui quotidiani, induce a riflettere sulla vecchiaia, un’età che meriterebbe maggiore protezione e assistenza. Solone, il legislatore e poeta ateniese del VI secolo a. C., considerato già dai suoi contemporanei un esempio di saggezza e di buon governo, aveva ritenuto giusto legiferare a favore di coloro che avessero raggiunto l’età senile affinché non fossero lasciati senza sostegno. Promulgò la “legge di mantenimento”, ossia l’obbligo per i figli di prendersi cura dei genitori vecchi. Platone lo incluse tra i sette sapienti della Grecia, mentre la storia lo ricorda per aver dato ad Atene la legge scritta che frenava l’arbitrio dei potenti. I greci antichi, pur onorando e rispettando l’uomo vecchio vedevano con maggior favore la giovinezza, cui attribuivano bellezza e forza fisica mentre la vecchiaia (si entrava in questa età a sessant’anni e molti neppure ci arrivavano con rare eccezioni di ottantenni) era un peso per la comunità e per se stessi, considerata come una malattia tanto è vere che sulle tombe si leggeva «Felice colui che è morto giovane». Di Menandro, l’autore più importante della Commedia Nuova attica (III secolo a. C.) queste sentenze: «per gli uomini la vecchiaia è un peso faticoso da sopportare», «muore giovane chi al cielo è caro» divenuta poi celebre e ripresa anche da Leopardi in Amore e morte. Epicuro, filosofo greco dell’età ellenistica, in una sentenza scrive: «Non il giovane è felice, ma l’anziano che ha vissuto bene: poiché il giovane, nel pieno del vigore, è sempre in balia della sorte, mentre l’anziano è approdato alla vecchiaia come a un porto tranquillo». Al contrario un suo contemporaneo Teofrasto, nei Caratteri riporta un modello grottesco-caricaturale, quello del vecchio che si atteggia a giovane, dunque un’immagine ridicola e sgradevole della vecchiaia.
Nella letteratura greca antica si riflette dunque un alternarsi di rispetto e indifferenza, derisione e venerazione nei confronti della vecchiaia.
Nella società romana il senato (il cui nome viene da senex, vecchio) era l’espressione del prestigio che l’anziano godeva nel governo della città repubblicana, ma già alla fine del primo secolo a.C. il potere degli anziani risultava molto ridotto e nei poeti e prosatori latini la parola senectus (vecchiaia) è spesso accompagnata da aggettivi di segno sfavorevole, pigra, tarda, rugosa, exanguis, curva, e di rado da aggettivi che indicano rispetto dovuto all’età come venerabilis, reverentia dignus, clarus.
Andando in ordine di tempo esaminiamo come la vecchiaia fosse rappresentata negli autori della Grecia arcaica. Nei poemi omerici si mostra rispetto verso i vecchi saggi, l’indebolimento delle forze e la presenza dei mali fisici sono compensati dall’acquisizione di virtù e saggezza.
Nell’Iliade, il poema della guerra, si ammirano soprattutto gli eroi giovani, forti e belli, ma sono presenti anche personaggi la cui età è resa venerabile dal loro comportamento che mostra saggezza e umanità.
Nestore è il più vecchio e saggio degli Achei che assediano Troia è ricordato per i suoi discorsi, per parole che uscivano dalla sua bocca «più dolci del miele». Pur nel mezzo di una guerra quando il primato è dato alla capacità fisica, decisiva negli scontri, i suoi consigli hanno diritto al rispetto e impongono attenzione.
Il vecchio Priamo, re di Troia, campeggia nell’ultimo libro del poema: ha visto morire il figlio Ettore ucciso da Achille, ma supplice si reca alla tenda del nemico per richiederne il corpo. Entrambi si guardano: l’uno ammira la giovinezza, la forza, la bellezza simile agli dei; l’altro il nobile volto del vecchio dal capo e barba bianche. L’implacabile Achille si commuove, gli restituisce il corpo e concede giorni di tregua per gli onori funebri. La nobiltà del vecchio re che si piega in ginocchio di fronte all’invincibile nemico ha fatto sì che vincesse l’umanità sulla barbarie.
Anchenella parte conclusiva dell’Odissea spicca la figura del vecchio Laerte che aspetta invano il ritorno del figlio Odisseo. Durante la sua assenza, durata venti anni dalla distruzione di Troia, la reggia di Itaca è stata invasa da prìncipi achei in attesa che la moglie dell’eroe disperso si decida a scegliere tra loro il futuro sposo. Laerte si è ritirato in campagna, non ha mai perso la speranza di rivedere il figlio, che soltanto dopo essere tornato e aver compiuto la sua vendetta uccidendo tutti i prìncipi, si reca da lui. Lo trova solo, intento a zappare, vestito con una semplice tunica, affaticato e stanco. Quando gli svela: «Sono io, padre, quello che aspetti! Sono tornato». Il primo pensiero del vecchio è rivolto alla potenza degli dei che hanno permesso tutto questo: «Padre Zeus e dèi tutti, voi esistete davvero nel vasto Olimpo». Nel comportamento del vecchio abbrutito dal lavoro campestre, sono sempre presenti l’amore filiale e il rispetto per le divinità.
Anche Esiodo, vissuto nella seconda metà dell’VIII secolo, il poeta che, con Omero, costituisce il fondamento della letteratura greca, ha una concezione della vecchiaia come fase naturale del ciclo vitale, non come inevitabile processo di disfacimento.
Tuttavia, già dal VI secolo in poi, i poeti tengono in gran valore la bellezza e giovinezza e si lamentano per le grigie chiome e gli acciacchi dell’età senile dai quali vorrebbero essere immuni. Teognide, con una concezione di vita pervasa da un pessimismo desolato e amaro, esclama «Mi rammarico della leggiadra giovinezza che mi abbandona, / piango la gravosa vecchiaia che si avvicina». Anacreonte, scrive delicati versi ispirati all’amore e ai conviti, è amareggiato perché i suoi capelli bianchi allontano la gioventù: «Colpendomi con una palla purpurea di nuovo Eros dai capelli d’oro /mi invita a giocare con una ragazza dai sandali variopinti: /ma lei, infatti è raffinata, disprezza la mia canuta testa / e non si entusiasma alla mia vista».
Ibico, poeta pittoresco con vivaci versi ispirati dal sentimento amoroso fiaccato dall’età, si paragona a un vecchio cavallo incapace di gareggiare e sostenere una veloce corsa: «Eros di nuovo fissandomi languidamente con gli occhi /da sotto le cerulee palpebre con incanti di ogni tipo /mi getta in reti inestricabili ad Afrodite;/ davvero ho paura vedendolo avanzare, /come un cavallo aggiogato vincitore di gare /per la vecchiaia controvoglia entra in gara con i carri veloci». Altro lamento, che esprime tutta la fragilità dell’esistenza umana, lo pronuncia Mimnermo, piangendo la triste sorte della vecchiaia che procura dolori e malanni: «A sessant’anni, lontano da morbi e penosi affanni, mi colga il destino di morte» e ancora «Cupa di dolori avanza la vecchiaia che svilisce deturpa». Saffo, la prima grande poetessa del mondo antico, sembra accogliere la vecchiaia con rassegnazione: «Teme profondamente la mia pelle la vecchiaia / bianco divenne il capello, un tempo in trecce nere / le ginocchia non mi reggono più /… ma cosa posso fare?»
Non manca però chi considera i vecchi «i depositari del sapere»: Solone, il grande legislatore di Atene di cui si è detto, scrive: «Invecchio imparando sempre nuove cose». Dopo un secolo, il filoso Democrito, fondatore della teoria dell’atomismo, ritiene che «la saggezza è il fiore della vecchiaia».
Nei poeti e prosatori latini la parola senectus (vecchiaia) è spesso accompagnata da aggettivi di segno sfavorevole, pigra, tarda, rugosa, exanguis, curva, e di rado da aggettivi che indicano rispetto dovuto all’età come venerabilis.
Anche Lucrezio che vive il funesto periodo della crisi della res publica, con angosciosa consapevolezza delle continue sconfitte cui va incontro l’uomo, prevede “l’assalto del tempo” e l’inesorabile disfacimento delle facoltà intellettive e fisiche del corpo: «In seguito, quando il corpo è ormai fiaccato dall’implacabile/ assalto del tempo, e le membra vacillano per il venir meno delle forze/ la ragione si fa claudicante, la lingua delira, la mente inciampa, / tutto scema e nel medesimo tempo si estingue».
Nel 44 a.C., all’età di 62 anni, Cicerone proprio per contrapporsi ai molti che denunciano gli acciacchi fisici e i tanti mali dell’età senile, considerata il periodo più triste della vita, compone un saggio De senectute sotto forma di dialogo fra Catone il Vecchio – che restò un attivo politico fino alla fine della sua vita avvenuta all’età di 85 anni – e altri due importanti personaggi, Scipione l’Emiliano e il più giovane Lelio. Rivendicando la convinzione che i vecchi possono continuare ad avere una vita politica attiva, Cicerone fa dire a Catone quello che è il suo pensiero: l’ultima età della vita è naturale come le precedenti e anche la morte deve essere attesa con serenità perché rientra nelle leggi della natura, tuttavia «le grandi cose non si ottengono con la forza o con la velocità del corpo, ma con la saggezza, l’autorità, il prestigio».
I poeti d’età augustea riservano all’incalzare dell’età versi di rammarico e di rimpianto per la fuggevole giovinezza. Ne citiamo alcuni:
«Il tempo rapisce tutto, anche la memoria. / Ricordo che da fanciullo spesso cantando passavo intere giornate;/ ora le ho dimenticate, persino la voce mi abbandona». Virgilio, nelle Bucoliche.
Il tempo è l’ossessione di Orazio, nell’ode il Carpe diem medita su come breve sia la vita dell’uomo prima che la vecchiaia e poi la morte lo colga. Mai forse con tanta semplicità e solennità è stato espresso il trascorrere del tempo, e l’incalzare della morte:
«Ahimè, Postumo, Postumo, fuggevoli /scorrono gli anni, e non le preci possono/tardare l’incalzante vecchiezza/ e le rughe e la morte ineluttabile».
In una Epistola nota con il titolo Ars poetica c’è un ritratto impietoso dell’uomo vecchio:
«Il vecchio infine, assediato da tutti i suoi malanni, ha desideri ancora, /ma per avarizia e per timore d’intaccarlo si astiene da ciò che ha ottenuto, /mette mano alle cose col gelo della paura, rimanda, fa progetti / nel tempo che non conclude, è avido di futuro, scontroso, / brontolone, pieno di lodi per il tempo andato, quand’era ragazzo, / di mortificazioni e censure per chi è più giovane di lui».
E nell’Epodo XVII: «Fuggita è giovinezza e il salutare colorito / ha lasciato il suo posto a un mucchio d’ossa avvolte in pelle livida».
Ovidio, che si definiva tenerorum lusor amorum, negli Amores ritiene che sia «turpe anche un amoree senile».
Seneca constata con tristezza la fuga del tempoe la conseguente labilità della vita umana, ma a lui non interessa il numero degli anni raggiunti. Il degno traguardo di una vita è l’aver raggiunto la saggezza; chi non abbia raggiunta anche se arriva alla piena vecchiezza non ha vissuto abbastanza.
Molto cruda e impietosa è la rappresentazione della vecchiaia in Giovenale che la dipinge piena di una ininterrotta serie di malanni. «Il volto diventa deforme e tetro, la pelle è aspra, le guance pendono flosce, sorgono sul viso le rughe». A differenza dei giovani che sono diversi l’uno dall’altra per bellezza e forza. I «vecchi sono tutti uguali: hanno la testa calva, la voce fioca, le ginocchia tremanti». Più grave di tutti gli acciacchi è la mancanza di memoria.
Attraversando i tempi della lunga storia romana potrebbero essere citati anche altri poeti e pensatori ma con un salto di secoli arriviamo al VI secolo d. C. con Massimiano, ultimo rappresentante dell’elegia latina. Con ossessivo pessimismo lamenta i mali della vecchiaia soprattutto la mente offuscata e i sensi assopiti privi delle gioie della vita, il decadimento fisico. Rimpiange i beni della giovinezza e si domanda: «Perché ostile vecchiaia tardi ad affrontare la fine? /E perché nel mio corpo stremato resisti così a lungo? / Ti prego, libera la mia povera vita da una tale prigione:/ la morte è ormai per me un riposo, la vita una condanna». Questa ossessiva anatomia della vecchiaia e della corruzione del corpo, è la conseguenza della rinunzia alla sola possibile felicità dell’uomo, che consiste nell’accettare il proprio stato.
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Conplimenti davvero per la compiutezza e la scelta felice delle varie voci.mi interesserebbe sapere la tua versione.io sono un medico anestesista diciamo anziano.Il rapporto silenzioso col paziente e con Dio mi hanno dato vita che vorrei spargere a piene mani.