Nell’articolo pubblicato su Transform!Italia il 23 ottobre scorso, Roberto Musacchio lancia una sfida immane: “A guerra mondiale (a pezzi) in corso vorremmo su Transform cimentarci su un qualcosa che può apparire oggi impensabile e cioè cosa dovrebbe essere un nuovo ordine mondiale e come lo si costruisce”. Di fronte a provocazioni del genere, o si fa finta di nulla, oppure ci si prova. Allora provo a lanciare a mia volta qualche riflessione sull’attuale contesto dei grandi temi del mondo che meriterebbero, credo, approfondimento e analisi nella direzione indicata da Roberto, a partire dallo stato dell’Occidente nell’attuale caos che certo anch’esso ha contribuito a generare.
L’Occidente ha ancora una possibilità. Forse l’ultima. Utilizzare la persistente forza economica e militare non per perpetuare un oramai impossibile dominio unipolare o per ritardare mutamenti di equilibrio già in atto, ma per metterla sul tavolo negoziale di un nuovo ordine mondiale da condividere con gli altri centri di potere, al fine di tutelare quanto di buono ha creato e proposto al mondo e al fine di fronteggiare, insieme agli altri, le sfide globali all’umanità. Diversamente, anche altre potenze o blocchi di potenza avranno raggiunto in pochi decenni la stessa forza del blocco occidentale, e se non ci saranno state soluzioni conciliatorie saranno queste a imporci le loro condizioni, con il rischio di uno scontro distruttivo. Per poter così agire, l’Occidente dovrà innanzitutto rinunciare alla propria autoreferenzialità (politica, geopolitica, ideologica, valoriale, e così via), rimodulare in chiave interattiva con le altre parti del mondo le grandi conquiste di cui è stato protagonista nella Storia, patteggiare infine i nuovi equilibri in chiave di pace, rispetto reciproco e coesistenza, promuovendo ogni opportunità di collaborazione e affrontando l’inevitabile competizione in modalità che non conducano a conflitti o guerre.
Solo se si parte da queste riflessioni sarà possibile immaginare le linee di un nuovo ordine mondiale che non sia terreno di scontro, dove la competizione avvenga sulla base di regole realmente condivise, dove la sicurezza sia frutto di architetture tanto vantaggiose per ciascuno che nessuno sia tentato di incrinarle, e dove crisi e conflitti siano risolti con gli strumenti della diplomazia e su base di ragionevoli compromessi. Prima di spingerci a formulare idee di massima su come dar luogo a una nuova struttura della comunità internazionale, potremmo definire alcuni dei principali campi dove questa dovrebbe incidere: economia, sicurezza collettiva, democrazia, tecnologia. E da qui sviluppare successive riflessioni.
Economia. L’ordine economico attuale basato su ideologie neoliberiste estreme ha prodotto crescita economica ineguale, grave sperequazione nella distribuzione della ricchezza, nascita di monopoli e di oligarchie più potenti degli stati, sottrazione a questi ultimi dei principali strumenti di politica economica e di governo dell’economia. Tuttavia, l’economia non è una forza della natura, ma è una creazione della mente umana, e come tale può essere oggetto di riformulazione. Bisognerebbe cominciare col riconcepire i concetti di profitto, debito pubblico, prodotto interno lordo, attività finanziarie; perseguire chiavi di interpretazione dell’economia che permettano di conciliare l’interesse privato con il beneficio pubblico e la qualità della vita sociale; perseguire grandi intese e accordi internazionali che, come avvenuto in passato, permettano di rimettere l’economia al servizio dell’umanità, piuttosto che il contrario.
Sicurezza collettiva. Nessuno deve sentirsi minacciato da altri, non solo in termini militari, ma anche in termini di non equilibrate espansioni di potenza, di influenza, di intrusione economica o politica. Ciascuno deve rinunciare all’uso della forza in termini di contrasto, privilegiandone la funzione di equilibrio. Le alleanze non vanno necessariamente smantellate, giacché, rinunciando ai propri aspetti aggressivi (o “aggressivamente difensivi”), sarebbero in grado di valorizzare aspetti di contributo alla sicurezza collettiva da declinare in ordine ai diversi temi e alle diverse aree di attrito del mondo. Contemplare aree di neutralità militare reciprocamente garantita dalle potenze, e più in generale dal generale sistema di sicurezza, sarà la sfida delle architetture di sicurezza che auspichiamo per il prossimo futuro.
Democrazia. Nell’ostinata estremizzazione delle libertà individuali, piuttosto che nel perseguimento di fini collettivi, nel meticoloso rispetto delle procedure senza una vera partecipazione degli elettorati, nella difesa di fatto delle élite, piuttosto che per l’equilibrato sostegno di tutto il popolo, la democrazia occidentale appare sostanzialmente deprivata della sua stessa sostanza, facendosi per giunta strumento di quella che è di fatto un’oppressione economica. I Romani elargivano al popolo panem et circenses per distoglierlo dai suoi veri interessi; l’attuale democrazia elargisce “diritti” individuali, talvolta bizzarri, per distogliere la gente dalla partecipazione democratica, e statuisce “libertà” assolute, per esempio in tema economico, negando alla collettività e a molti suoi componenti la “libertà dal bisogno”, che pure è riconosciuta da una costituzione apertamente liberale. Eppure, non c’è bisogno di essere marxisti o leninisti per comprendere che la funzione primaria della democrazia, oltre che assicurare diritti e libertà fondamentali nella misura in cui non ledano alcuno e contribuiscano al bene sociale, dovrebbe essere quella di un’equa distribuzione della ricchezza nella società e a livello internazionale.
Tecnologia. I più attuali sviluppi tecnologici superano già ora le capacità umane. In fondo è sempre stato così (l’argano è più forte delle braccia). In sé questo non è un problema, purché (come l’argano per le braccia) la tecnologia venga messa al servizio dell’uomo in un’ottica partecipativa e non deumanizzante. La tecnologia va avanti per forza propria. Il problema della sua gestione è politico ed etico. Chi gestirà l’intelligenza artificiale, e a quali fini? Come mantenere all’uomo le decisioni finali? Come garantire alla specie umana che le inevitabili trasformazioni seguano gli eterni processi antropologici e sociali, piuttosto che essere indotti da processi di transumanazione? Come evitare che l’autoapprendimento di macchine e algoritmi pervenga a risultati dannosi e anche in buona fede indesiderati? Su questo scienza e politica, anche in quadro di collaborazione internazionale, dovrebbero trovare terreni di dialogo onesti e aperti. Come per tutto, ogni cosa può apportare benefici, purché con l’imposizione di ragionevoli limiti.
Delineati i campi di riflessione, il successivo esercizio potrebbe essere quello di immaginare quali vie indicare per alcuni principali comparti tematici e politici della vita internazionale.
Ordine internazionale e mantenimento della pace. Le Nazioni Unite non funzionano. Questo non è colpa delle Nazioni Unite, ma degli stati che ne fanno parte e che, come per tutte le organizzazioni internazionali, ne assicurano il funzionamento. Sarà probabilmente utile, pur con ogni possibile aggiustamento, mantenere il comparto delle agenzie. Queste operano in contesti specifici dove non è in genere in gioco la massima espressione di potenza degli stati, oppure in attività di sostegno, soccorso e aiuto umanitario. Del tutto obsoleto è invece il meccanismo del Consiglio di Sicurezza, espressione di un mondo che già nell’immediato dopoguerra non era più rappresentativo della realtà internazionale, poiché accomunava nel gruppo dei membri permanenti la Francia e il Regno Unito agli Stati Uniti e all’Unione Sovietica, contemplando una Cina che allora non era certo la potenza geopolitica di oggi. La domanda cruciale è la seguente: il Consiglio di Sicurezza va riformato, per esempio riqualificando e ampliando la categoria dei membri permanenti con diritto di veto, oppure smantellato, aprendo la strada a nuovi meccanismi da mettere allo studio? La prima soluzione si è finora rivelata problematica, perché sono molti i paesi che si oppongono alla possibilità di essere esclusi da un eventuale ampliamento. La seconda aprirebbe la stura a ulteriori interrogativi: quali paesi dovrebbero essere responsabili delle decisioni sulla sicurezza, e con quali meccanismi? Un tentativo sulla composizione del gruppo dirigente della pace e sicurezza internazionale potrebbe partire da uno sviluppo del G20, gruppo informale che annovera effettivamente i paesi più forti e importanti del mondo, i quali da diversi anni hanno imparato a discutere insieme. Si tratterebbe di migliorare i meccanismi del dibattito e di conferire a un gruppo così composto capacità decisionali basate, per esempio, su principi di maggioranza qualificata in ordine a rapporti di popolazione, di potere economico, di potere militare, a loro volta compensati da contrappesi atti a evitare che paesi molto popolati ma con poca forza politico-militare possano imporre decisioni che non potrebbero essere messe in atto, oppure che paesi molto forti militarmente possano imporre soluzioni inaccettabili per altri. Al fine di superare concetti di veto in grado di bloccare ogni decisione, si potrebbe immaginare un obbligo di compromesso idoneo a compensare in qualche modo i membri che non si siano allineati alle decisioni che abbiano prevalso. Naturalmente idee come questa andrebbero messe allo studio, e comunque dovrebbero basarsi su una comune e condivisa cultura della governance internazionale, in mancanza della quale nulla è possibile e nulla funzionerebbe.
Alleanza atlantica. La NATO è la più forte, la più importante e la più strutturata alleanza fra potenze. Concepita in chiave difensiva nel dopoguerra al fine di far fronte alla possibile aggressività del colosso sovietico, si è riformulata, alla caduta di quest’ultimo, in apparato che accanto alla difesa collettiva sviluppava un concetto di organizzazione di sicurezza. Come tale è intervenuta in situazioni di crisi o conflitti in corso in aree europee o extraeuropee. Contemporaneamente la NATO ha avviato un processo continuo e apparentemente inarrestabile di espansione, includendo in varie ondate paesi un tempo estranei all’Alleanza, precedenti “satelliti” dell’Unione Sovietica e addirittura paesi che di quest’ultima erano parte. Nonostante tutti i caveat che sono stati evocati, e che hanno loro meriti di rispetto (ogni nuovo membro ha chiesto l’adesione, questa è stata frutto di unanime decisione dei membri già parte dell’Alleanza, l’Alleanza non ha attaccato alcun paese ma ha ampliato la capacità difensiva di vaste aree d’Europa…), la politica espansiva della NATO ha determinato la situazione che conosciamo. Le grandi guerre, infatti, sono sempre scoppiate non tanto sulla base di principi e idee, che servono solo alle incrociate propagande, ma allorquando una potenza, o un’alleanza di potenze, si è estesa (con le armi, con l’influenza politica o economica, con pressioni ideologiche…) entro regioni geopolitiche che un’altra potenza riteneva essenziali come aree di rispetto per la propria sicurezza, aree da cui non dover nemmeno potenzialmente temere minacce non solo militari, ma anche economiche o inerenti ai propri valori. È per questo che sono scoppiate le guerre del Peloponneso, le guerre puniche, la Guerra dei cent’anni, le guerre contro Napoleone. Anche le due Guerre Mondiali contengono aspetti di reazione all’altrui espansione: l’intervento dell’Inghilterra nella Grande Guerra fu anche una risposta al tentativo della Germania guglielmina di insidiare il dominio britannico sui mari, e l’intervento anglo-americano nella Seconda Guerra fu dovuto soprattutto a contrastare l’espansionismo tedesco; vi è da chiedersi, infatti, se la lotta al nazismo avrebbe avuto la stessa consistenza se questo si fosse paradossalmente espresso nella sola Germania senza pretese di dominio europeo. Anche nel caso della NATO il problema non è l’organismo in sé, ma l’uso che se ne fa. Indubbiamente l’Alleanza atlantica ha avuto un’importante funzione di compattamento dell’Occidente in un’era in cui si dovevano fronteggiare minacce comuni all’Europa e all’America e impedire che paesi europei entrassero fra loro in conflitto. La potenza politico-militare che ne è derivata non è da sciogliere, ma da riconcepire in chiave di contributo a una nuova architettura di sicurezza europea e mondiale.
Unione Europea. Da sogno illuminato, progressivo e pacifico, l’Unione si è trasformata in agente del neoliberismo al servizio del dominio americano, prono a lobbies varie, a interessi della grande finanza e alle politiche dei grandi gruppi multinazionali; in apparato inutilmente burocratico; in ente produttore di politiche asfissianti e fastidiose e di ideologie del tutto avulse dalla realtà sociale ed economica dei popoli europei. Il dissennato allargamento, ancora in corso, a una pluralità di paesi che sono europei solo dal punto di vista strettamente geografico ha reso l’Europa un’entità elefantiaca e incapace di decisioni o di posizioni comuni. Molte proposte sono state avanzate per migliorarne i meccanismi decisori (maggioranza piuttosto che unanimità, cooperazioni allargate, e così via). Ma il problema dell’Europa è soprattutto identitario: vuole l’Europa continuare a essere costola vassalla del sistema di dominio anglo-americano succeduto alla guerra, oppure essere un’entità innovativa in grado, senza rinnegare amicizia e alleanze in essere, di acquisire piena e sovrana capacità di decidere i propri destini? La soluzione dei temi tecnico-gestionali non è affatto sufficiente, e forse addirittura illusoria. Per diventare una potenza di rilievo nel panorama mondiale, l’Europa dovrà adottare istituzioni sovrane comuni operative e non semplicemente sussidiarie, dovrà mettere il debito a fattor comune dell’Unione, dovrà dotarsi di una politica economica, fiscale e finanziaria unica e condivisa. Solo in tal modo potrà tentare di recuperare i propri veri valori sociali e contribuire ai grandi temi globali.
Architetture di sicurezza. I fatti dimostrano che l’architettura di sicurezza basata su alleanze contrapposte, se ha garantito la pace fino alla metà degli anni Novanta, non è stata in grado di mantenerla ai nostri giorni. La caduta dell’impero sovietico e lo scioglimento del Patto di Varsavia indussero profonde riflessioni entro la NATO. Si riteneva indispensabile, soprattutto da parte dei membri europei, includere la Russia in ogni futuro disegno, si fondarono processi di partenariato, si avviarono interlocuzioni con l’OSCE. Si giunse a ipotizzare la possibilità di dar luogo a nuove architetture di sicurezza, che si sarebbero basate per grandi linee sulla traccia del processo di Helsinki, sull’uso di meccanismi di reciproca garanzia già esistenti, sulla valorizzazione dell’OSCE, che di Helsinki è l’incarnazione terrena (l’opportunità di riprendere l’insegnamento di quel grande processo internazionale, è stata sostenuta anche da Alfonso Gianni nell’articolo pubblicato su Transform!Italia lo scorso 16 ottobre). Il tentativo abortì perché gli Stati Uniti lo affossarono a favore delle politiche di allargamento. Tuttavia, l’esperienza di quelle riflessioni dimostra che immaginare un modo diverso di concepire la sicurezza in Europa non è frutto di fantasia. Ora non è più possibile fare le cose che si sarebbe potuto fare allora; ma su quella base si potrebbe negoziare una situazione di non aggressività e non invadenza fra NATO e Russia garantita da meccanismi di controllo reciproco, dalla demilitarizzazione di ampie zone intermedie, dalla neutralità militare reciprocamente garantita dei paesi non ancora membri della NATO, che dovrebbero essere liberi nelle loro scelte economiche, e così via. Si tratterebbe di aprire un cantiere lungo e complesso; ma questo appare necessario, e mutatis mutandis dovrebbe essere ipotizzato anche per altre aree del mondo. Diversamente, il crescente equilibrio di fatto del potere militare di attori estranei alla logica europea e al sostanziale dominio storico degli Stati Uniti, tenterebbe certo alcuni di utilizzarli, oppure comporterebbe situazioni di “guerra fredda”.
Ordine economico mondiale. Prima dell’esplosione dell’ideologia neoliberista, importanti fattori di economia internazionale sono stati governati da grandi intese internazionali. Pensiamo agli accordi di Bretton Woods, a quelli sul commercio, a quelli sulla parità di cambio. Tornare a una mentalità di cooperazione in materia economica, che però presuppone l’abbandono del neoliberismo e il ritorno al controllo pubblico dei principali parametri economici, appare indispensabile. Non solo per una più corretta funzionalità dell’economia, ma anche per evitare che le tensioni indotte dall’apodittico perseguimento del profitto senza regole, da una finanza del tutto avulsa dall’economia reale, dalla crescita di ricchezze inimmaginabili in mani private, portino al parossismo i problemi che già hanno creato. E questo riguarda il benessere dell’umanità, l’uso delle risorse, il contrasto ai danni climatici. In definitiva, tutti i temi e tutte le attuali sfide che l’umanità è chiamata ad affrontare. I disastri del sistema oramai ricadono in modo diverso su tutti, e non solo sulla gente: anche gli stessi stati, e lo stesso concetto di stato, che un tempo non ammetteva poteri superiori, finisce per subire i danni della deregulation che ne ha fiaccato o soppresso i poteri e la capacità di governo, di una finanza globale che ne determina i destini, dello strapotere privato non soggetto ad alcun controllo e che nessuno può dire come sarà gestito e per quali fini.
Sistemi politici. La democrazia occidentale, fatta la tara di quanto più sopra, va difesa nei paesi che la coltivano; non si deve pretendere di “esportarla”, quale che ne sia il modo; non deve essere usata come strumento di intrusione; non deve essere proposta con arroganza a popoli che non ci siano o non ci siano ancora arrivati. Altri sistemi governativi possono non piacere, ma vanno rispettati, anche perché dovrebbe essere oramai chiaro che la democrazia è un pregevole frutto della storia e della cultura dell’Occidente, ma non è, pur con i correttivi proposti, un principio necessariamente universale. Comprendere questo è fondamentale per non perpetuare, magari senza effetti concreti, ma con grande fastidio altrui, i paradossi della “missione civilizzatrice”. Ovviamente qui vi è necessità di un’evoluzione culturale, non di proporre schemi. Le riflessioni in materia dovrebbero soffermarsi non solo sui progressi umani che la democrazia ha certamente prodotto, ma sulle carenze sostanziali che manifesta da decenni. Comprenderemmo allora che la democrazia non è un sistema divino, ma un sistema umano, oggetto di grandi illuminazioni ma anche di grandi crisi, e che la sua gestione più sana dovrebbe non solo comprendere la correzione degli errori che vediamo sul piano interno delle società, ma dovrebbe essere sanamente operata, nei principi, se non nei meccanismi, anche sul piano dei rapporti internazionali.
Ordine tecnologico mondiale. Sulla traccia di tante ampie intese internazionali che la Storia ha anche recentemente conosciuto, la tecnologia dovrebbe essere oggetto, analogamente alla sicurezza, di cui è parte rilevante, di trattazione e di intese internazionali che ne definiscano condivisione e limiti, al fine di evitare che l’aspra concorrenza fra paesi determini pericolose fughe in avanti, del resto già in atto. Ovviamente questo sarà possibile solo se la cultura del governo cooperativo del mondo sarà stata attuata nel segno delle considerazioni che precedono. La tecnologia, l’intelligenza artificiale, lo sviluppo degli algoritmi, sono infatti, e saranno sempre più, alla base di ogni attività umana in tema di economia, di ambiente, di sicurezza, di governance interna e internazionale. Governerà anche il voto e il funzionamento delle istituzioni. Operando senza limiti né confini, rischia di vanificare qualunque progetto umano. Finché non vi sia concordia nel mondo, tutti useranno la tecnologia in funzione del potere individuale, dando luogo ad attriti che forse sarà impossibile governare. Per questo il controllo della tecnologia dovrà essere inevitabilmente collegato agli altri settori di interesse per la vita dell’umanità, nelle linee tracciate più sopra in questo scritto.
Non sarà certamente facile avviare tutto questo; tuttavia, non dobbiamo considerarlo nemmeno puramente utopico. Tante importanti evoluzioni della Storia sono cominciate dall’esercizio del pensiero. Su questa strada, dobbiamo partire.
Mario Boffo, 25 novembre 2024