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La politica non è un selfie

di Roberto
Musacchio

Il Paese nel Paese, così chiamava Pasolini i comunisti. O meglio il Partito comunista italiano e cioè il Paese che dava cittadinanza ai diversi. E che costruiva un Paese diverso. 

Da quando sono nato alla politica ho sempre adattato quella frase alla “mia generazione”. Che poi era a ridosso dei “grandi” che nel 1968 avevano 18 anni, che allora non era neanche la maggiore età. Volevo “cambiare classe”, “cambiare vita”, “cambiare il mondo”. Facevo i programmi scolastici rileggendoli su Marx e Gramsci. Me ne andai a vivere per conto mio. Mi iscrissi a un partito, piccolo. Non mi sentivo solo. Per ogni cosa che accadeva al mondo, o in Italia, o nella nostra vita c’era un appuntamento di lotta, una spiegazione, una organizzazione. Una generazione, un quartiere nel Paese nel Paese. Intendiamoci, tanto ciascuno lo sa, niente di idilliaco. Anzi molte sassaiole come nei ragazzi della via Pal, guerre dei bottoni, anche il morire o l’uccidere. Nessun pranzo di gala ed errori e orrori come per il grande novecento. Da riflettere e scontare. Ma anche per questo, per quanto c’è stato di drammatico e terribile, oggi non sopporto il selfie cui è ridotta la nostra vita politica. La grande ambizione, per stare al titolo di un film che sta catturando l’attenzione anche di chi non c’era, i giovani di oggi, era quella di fare politica per cambiare il mondo avendo il potere di farlo. Certo anche il potere di decidere della propria vita, il personale che è politico, ma guardando al mondo. Financo avere il potere di non avere potere ma come liberazione collettiva. Ma ci guardiamo oggi? Il Paese nel Paese è stato sciolto. Noi stiamo tra il farsi i selfie in compagnia di chi ha sciolto o da soli sdegnosamente altrove. Entrambi senza poter andare oltre il selfie perché cambiare il mondo è diventato impossibile. E invece che paesi o almeno quartieri ci si asserraglia nelle bacheche o in piccoli gruppi autoreferenziali e rissosi oppure si fa il franchising al posto della politica. Si declama quello che non si può fare. E anche il dire, addirittura sulla guerra che un tempo sapevamo combattere, è confuso e ubriaco tra russi e americani per dirla con Dalla. Non siamo più un Paese tantomeno una moltitudine. Piuttosto monadi tristi, depresse o rabbiose. Aggrappati a solide realtà pubblicitarie come i sempre o i mai col Pd. Dannatori o adoratori del ‘900 lontani mille miglia dal provare e riprovare di quel Sarto di Ulm che voleva volare e al cui indispensabile desiderio il movimento operaio insegnò a costruire aerei. Di carta come la Costituzione e non bombardieri come oggi ci impongono. Se verrà la guerra… qualcuno ci salverà, cantava De André. Nessuno poi lo faceva nella canzone. Che oggi rischia di diventare incubo reale. E noi a sfogliare margherite come Ofelie che vanno verso il fiume, con i russi o gli americani, col Pd o mai…

Roberto Musacchio

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