Dopo aver partecipato all’interessante seminario del professor Mahoney sul marxismo cinese, tenutosi il 10 novembre presso la sede della Federazione Romana del PRC-SE, non ho potuto fare a meno di dare seguito a un’intuizione riguardo all’oggi che ne è scaturita. Tra gli altri temi trattati, il professor Mahoney ha approfondito il libretto maoista Sulla contraddizione, offrendo spunti preziosi sul modo in cui Mao Tse-tung abbia utilizzato il pensiero dialettico per analizzare le tensioni storiche e sociali. Questo mi ha spinta a riflettere su come le dinamiche di oppressione e liberazione si intreccino nei fenomeni contemporanei e su come tali riflessioni possano contribuire al dibattito sull’oggi e sullo stato della sinistra in Italia, in Europa e oltre. Mi sono quindi permessa di inoltrarmi in questo dominio, pur consapevole di non essere un’esperta, ma questo processo di analisi mi ha aiutata a individuare una chiave interpretativa che desidero condividere, con la speranza che possa offrire spunti utili per il confronto.
Nel panorama della teoria politica e delle scienze sociali, il materialismo storico rappresenta una lente interpretativa che consente di decifrare la complessità dei fenomeni storici non come sequenze lineari, ma come processi dialettici caratterizzati da contraddizioni interne. Attraverso questa prospettiva, fenomeni come l’antisemitismo e il sionismo, pur originariamente concepiti come risposte emancipatorie a oppressioni sistemiche, si rivelano esemplari del rischio costante di degenerare in strumenti di dominio. Tale analisi invita a riflettere criticamente sulla necessità di preservare l’integrità delle lotte di liberazione, impedendone la cooptazione in sistemi ideologici oppressivi.
L’antisemitismo, quale manifestazione di un’ostilità sistematica e protratta contro le comunità ebraiche, ha alimentato per secoli violenze e discriminazioni. L’orrore dell’Olocausto, punto culminante di questa persecuzione, ha stimolato una reazione collettiva che si è concretizzata nel riconoscimento dell’urgenza di garantire protezione e autodeterminazione al popolo ebraico. La fondazione dello Stato di Israele nel 1948 è stata percepita come il compimento di tale promessa emancipatoria, fornendo una base materiale per il riscatto di una comunità oppressa.
Sfruttando quel formidabile strumento di analisi che ci fornisce il materialismo storico, è facile comprendere che i processi sociali e politici sono intrinsecamente soggetti a dinamiche contraddittorie. Marx ricorda che “Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza” (Per la critica dell’economia politica, 1859). In questo senso, la lotta contro l’antisemitismo, lungi dal rimanere confinata al suo scopo originario, è stata trasformata in un dispositivo retorico utilizzato per legittimare pratiche di oppressione. Oggi, ogni critica alle politiche dello Stato di Israele viene frequentemente etichettata come antisemitismo, oscurando violazioni del diritto internazionale e riducendo al silenzio discorsi fondati su principi universalistici di giustizia. Questa manipolazione concettuale svuota il termine del suo significato originario, subordinandolo a logiche geopolitiche e reificandolo in un’arma ideologica a difesa di un regime di apartheid e colonialismo.
Il sionismo, nato come movimento per l’autodeterminazione ebraica, si è configurato inizialmente come un progetto di emancipazione sociale, fortemente influenzato da ideali socialisti e comunitari. I kibbutz, emblema di una società basata sull’uguaglianza e sulla cooperazione collettiva, incarnavano una visione progressista di sviluppo economico e politico. Tuttavia, questa visione idealista ha ignorato sistematicamente la presenza del popolo palestinese, le cui terre erano rivendicate come spazio vitale per la costruzione di uno Stato ebraico.
Con la creazione dello Stato di Israele e, in particolare, con l’occupazione dei territori palestinesi nel 1967, il sionismo ha subito una radicale trasformazione. Da movimento emancipatorio si è evoluto in un sistema di dominio coloniale, sostenuto dalle potenze imperialiste. Questa traiettoria evidenzia la dialettica interna al sionismo, dove le aspirazioni originarie di giustizia sociale sono state soppiantate dalla pratica della confisca di terre, della negazione dei diritti civili e della sistematica oppressione dei palestinesi. Marx ammonisce che “L’emancipazione umana sarà completa solo quando il reale individuo umano avrà assorbito in sé il cittadino astratto; quando, come individuo umano nella sua vita empirica, nel suo lavoro individuale, nelle sue relazioni individuali, sarà diventato un esseun richiamo che rimane attuale per contrastare la strumentalizzazione di movimenti emancipatori a fini oppressivi.
Una dialettica universale: paralleli storici
La traiettoria dell’antisemitismo e del sionismo si inserisce in un più ampio schema dialettico osservabile in altri momenti storici. La borghesia rivoluzionaria dell’Illuminismo, ad esempio, si era opposta ai privilegi ereditari dell’aristocrazia, proclamando ideali di libertà, uguaglianza e fraternità. Tuttavia, con il consolidamento del proprio potere economico e politico, la stessa borghesia è divenuta un’istituzione conservatrice, intenta a difendere i propri interessi contro le rivendicazioni del proletariato.
Analogamente, le rivoluzioni socialiste, spesso concepite come movimenti di liberazione, hanno rischiato di riprodurre dinamiche autoritarie e gerarchiche, come osservato nel corso del XX secolo. In ciascun caso, le aspirazioni rivoluzionarie sono state compromesse da contraddizioni interne che hanno portato alla loro cooptazione da parte di logiche di potere.
L’analisi marxiana ci insegna che ogni sistema sociale è attraversato da contraddizioni strutturali che ne minano la stabilità. Marx descrive questo processo con forza quando afferma che “Il capitale è lavoro morto che, come un vampiro, vive solo succhiando lavoro vivo, e vive di più quanto più lavoro succhia” (Il Capitale, 1867). Questa metafora potente si applica anche alle logiche imperialiste che sostengono i sistemi di dominio contemporanei, evidenziandone la capacità di divorare ogni aspirazione emancipatoria.
Oggi, la crescente solidarietà internazionale con il popolo palestinese, l’emergere di divisioni interne alla società israeliana e il declino della legittimità morale dell’Occidente indicano una crisi strutturale imminente. Tuttavia, il superamento di tali contraddizioni non è un processo automatico. Esso richiede un’azione collettiva fondata su una pratica politica consapevole e su una costante autocritica. Solo riconoscendo le radici materiali delle contraddizioni storiche è possibile aspirare a un futuro in cui le istanze di giustizia e uguaglianza non degenerino in nuove forme di oppressione.
La storia dimostra che le lotte emancipatorie non sono immuni da deviazioni. La vigilanza critica si configura dunque come un imperativo per preservare l’integrità delle lotte per la giustizia e l’uguaglianza. La dialettica storica non è solo un processo teorico, ma una guida pratica per comprendere e affrontare le sfide contemporanee. È solo attraverso un costante confronto con le contraddizioni interne che i movimenti di liberazione possono evitare il destino di trasformarsi negli stessi sistemi di oppressione contro cui si erano originariamente battuti.
La Vigilanza Critica e la Riconfigurazione della Sinistra
La riflessione proposta ci conduce inevitabilmente a un interrogativo essenziale: come possono le forze progressiste e la sinistra, in Europa e nel mondo, recuperare la loro capacità di rappresentare autenticamente le istanze popolari, opporsi all’avanzata delle destre e contrastare i meccanismi imperialisti che perpetuano conflitti e oppressioni globali? La traiettoria storica dell’antisemitismo e del sionismo, con le loro contraddizioni, offre una lezione universale: senza una vigilanza critica costante, ogni movimento emancipatorio rischia di trasformarsi in strumento di oppressione.
Oggi, il rischio di una sinistra frammentata e alienata è evidente. In Italia, come altrove, si è assistito al declino delle grandi forze storiche, come il PCI, che un tempo rappresentavano una chiara alternativa politica e sociale, a favore di una sinistra spesso accusata di essere un’élite distante e autoreferenziale, la cosiddetta “sinistra ZTL” “gauche caviar” o “ radical chic”, incapace di intercettare le necessità e i desideri delle classi popolari che si propone di rappresentare. Questa alienazione non è solo una questione retorica: è il sintomo di una disconnessione profonda, che ha reso impossibile per la sinistra essere percepita come forza autentica di rappresentanza dei popoli, sia in Europa sia negli Stati Uniti.
Il contesto attuale non fa che amplificare questa crisi. La destra globale, alimentata dalle politiche degli Stati Uniti oggi a guida trumpiana, dal sostegno strategico di Israele a sua volta guidato da una pericolosa ultradestra e dalle narrative che legittimano guerre permanenti in Medio Oriente, Africa e Ucraina, rappresenta una minaccia concreta non solo per le democrazie, ma anche per le basi stesse della solidarietà internazionale. Le vecchie contraddizioni emergono con una crudele ironia: coloro che furono i persecutori degli ebrei nella storia europea sono oggi tra i più fedeli alleati del potente Stato di Israele. Questo paradosso riflette non solo un fallimento morale, ma anche una precisa strategia geopolitica, che sfrutta le divisioni interne alla sinistra per consolidare un ordine mondiale basato sul dominio economico e militare.
La sinistra, dunque, è chiamata a una rifondazione. Deve interrogarsi su come ricomporsi a livello transnazionale, affrontando le sfide del XXI secolo con una visione inclusiva e radicale, capace di contrastare efficacemente l’avanzata delle destre e di stabilire priorità chiare. Non può limitarsi a guardare al proprio ombelico, chiusa entro i confini dello Stato-nazione, ma deve ricostruire una strategia globale, basata su quelle conditio sine qua non, i presupposti indispensabili senza i quali ogni altra azione rischia di ridursi a mera retorica o a obiettivi di corto respiro.
Occorre tenere sempre presente l’interconnessione globale dei fenomeni contemporanei, nonché affrontare con urgenza la questione del cambiamento climatico. Senza un impegno risoluto in questa direzione, qualsiasi altro processo di trasformazione sociale rischia di diventare irrilevante. Conosciamo bene gli ostacoli principali che impediscono il raggiungimento della giustizia ecologica ed economica, soprattutto per quei popoli che, per vocazione internazionalista, abbiamo il dovere non solo politico, ma soprattutto morale, di sostenere. Ogni percorso che si discosti da questi imperativi rischia di ridursi a quella retorica e, come ammonisce Pasolini nel poemetto La realtà, “essere retorici significa odiare, essere incolti, avere perso deliberatamente ogni rispetto per l’uomo.”
Questo richiede una mobilitazione intellettuale e politica che torni a radicarsi nei bisogni reali delle classi lavoratrici e dei popoli oppressi, nella grande sfida del non rinunciare a una visione universale di giustizia e uguaglianza. È necessario tornare a interpretare i fenomeni globali attraverso un’analisi materiale e storica, o come si usa dire oggi in cina “ trovare la realtà nei fatti”, riconoscendo che l’emancipazione non sarà possibile senza affrontare le cause strutturali della disuguaglianza e della guerra.
Cercare la verità nei fatti, significa ancehe evitare di cadere nelle trappole ideologiche che la relegano a un’élite distante, percepita come comprosta di buontemponi privilegiati dediti all’alimentare il proprio ego. Dall’altro, sempre per restare ancorati al principio di realtà, riconoscere che la lotta contro le destre richiede un approccio unitario, transnazionale, che consideri il nesso tra le politiche locali e le dinamiche globali. La sinistra europea e americana, così come le forze progressiste nei paesi del Sud globale, devono necessariamente unirsi in una piattaforma comune per opporsi ai sistemi che perpetuano conflitti, nuovi e vecchi colonialismi e diseguaglianze.
In un mondo in cui le guerre si moltiplicano, minacciando di estendersi verso Oriente e consolidando nuove forme di oppressione, non c’è spazio per l’inazione o la frammentazione. La vigilanza critica deve essere il principio guida di una sinistra rinnovata, che aspiri non solo a opporsi, ma a costruire un’alternativa globale basata sulla solidarietà, sulla giustizia sociale e sulla pace.
1 Commento. Nuovo commento
Concordo umilmente e pienamente con l’analisi e le considerazioni dell’autrice.
Il metodo tracciato è quello dello studio paziente e costante della realtà e delle sue trasformazioni e contraddizioni, congiunto con la vigilanza critica.
I presupposti fondamentali da tenere presenti sono quelli dell’interconnessione globale dei fenomeni contemporanei e dell’urgenza nell’affrontare la questione ecologica del cambiamento climatico, oltre che quella dell’intersezionalità etnica e di genere; contraddizioni che approfondiscono le diseguaglianze di base oriunde dal “vampirismo” implicito nella relazione conflittuale Capitale/Lavoro.
La rifondazione della sinistra è imprescindibile che si basi sulla vocazione internazionalista per affrontare gli ostacoli principali che impediscono il raggiungimento della giustizia ecologica ed economica per i popoli del mondo.
In questo processo, chiunque sia consapevole e privilegiato – in qualsiasi ambito – è obbligato ad un concreto sforzo di fertile condivisione, a cedere una parte del proprio potere (il potere di pronunciare la parola, di definire la realtà) e del privilegio materiale acquisito ai suoi compagni e alle sue compagne di lotta storicamente silenziati e silenziate, sfavoriti e sfavorite; pena il decadere in quella “retorica” verticistica – sterile, incolta e irrispettosa – alla quale faceva riferimento il lucido e spesso illuminante poeta Pasolini.