Una delle narrazioni correnti circa l’inizio della colonizzazione europea dell’Africa è che alle esplorazioni ardite di avventurieri e missionari nelle regioni interne del continente – seconda metà del XIX secolo – seguì la penetrazione commerciale e religiosa, tutelata in una fase successiva dalla presenza istituzionale, militare e amministrativa, ma relativamente pacifica dello stato occupante.
Salvo poi scoprire che le cose non andarono così lisce; che l’occupazione coloniale fu feroce e sanguinosa. Basti pensare alla perdurante e brutale azione militare francese in Algeria, iniziata nel 1830 e che finì per innestarsi un secolo dopo nella guerra di liberazione che portò all’indipendenza; alle stragi fatte in Libia dal generale Graziani nel primo dopoguerra che perdurarono fin quasi allo scoppio della Seconda guerra mondiale; alle quattro guerre inglesi contro l’Impero Ashanti, tutte nell’Ottocento; alle due guerre del Dahomey (francesi, 1890-1892); alla guerra dei sudafricani bianchi contro gli zulù; e alle guerre dei tedeschi contro i nomadi della Namibia, i contadini del Kenya e dell’Uganda; alle guerre nel Camerun e in Zimbabwe.
Per quattro secoli i bianchi erano rimasti sulla soglia del continente africano e fu solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento che decisero di approfittarne in maniera più sistematica dopo aver stretto un accordo di spartizione nel Congresso di Berlino del 1885. Se dopo neanche tre quarti di secolo la colonizzazione europea in Africa era già arrivata al capolinea non è perché i bianchi si fossero resi conto di una incompatibilità con i loro stessi principi etici: per quella si trova sempre un accomodamento ideologico politico e religioso come dimostrano il pervasivo razzismo degli Stati Uniti, o la lunga stagione dell’apartheid o la lotta spietata in nome dell’Algérie Francaise.
No, i bianchi rinunciarono alla colonizzazione dell’Africa perché era insostenibile. La bugia del fardello dell’uomo bianco, la mistificazione della diffusione della civiltà occidentale e del cristianesimo non reggevano più. I negri avevano resistito in armi nella fase che ancora oggi si vorrebbe descrivere come pacifica avanzata della civiltà all’interno dell’Africa, al seguito di esploratori e missionari, tra il 1885 e la Prima guerra mondiale; avevano resistito in armi nel periodo tra le due guerre, quando furono ancora capaci di infliggere sconfitte all’uomo bianco; e ancora erano insorti a più riprese nel secondo dopoguerra sicché a partire dagli anni ’50 quella dei bianchi europei fu una presa d’atto, più o meno tardiva, più o meno diplomatica che la colonizzazione dell’Africa era stata un fallimento ed era insostenibile. In più negli anni sessanta si aggiunse il pericolo che le lotte per la liberazione dal colonialismo si saldassero al movimento socialista. Come disse il Mazarino francese François Mitterand, se si voleva stare in Africa bisognava starci in un’altra maniera.
In un libro piccolo ma importante, Petite Histoire de l’Afrique, Catherine Coquery-Vidrovič1 cerca di far ordine anzitutto sul periodo iniziale della colonizzazione su come e dove si organizzò la resistenza africana, tenendo conto anche checome in tutte le guerre d’invasione c’è sempre una parte considerevole delle vittime che s’allinea rapidamente all’invasore, vuoi per paura, per servilismo o per la speranza di trarne vantaggio.
Nel corso dei primi quattro secoli della loro presenza sulle coste africane i bianchi avevano evitato di spingersi all’interno, preferendo pagare un tributo commerciale ai regni della costa. Quando lo avevano fatto – e a farlo furono specialmente i portoghesi, soprattutto in Angola – avevano incontrato una fiera resistenza, come quella della regina Nzinja che nel XVII secolo li combatté per oltre quarant’anni; e non è l’unica figura femminile importante della resistenza africana.
Altre ne troviamo in Senegal nell’Ottocento e in Ghana all’inizio del Novecento, per non parlare delle divisioni femminili del Dahomey o delle donne guerriere dell’Ashanti.
Cominciamo con quelli che possono essere considerati focolai di resistenza africana contro l’espansionismo coloniale bianco. I grandi imperi – dell’Africa Occidentale, di quella Equatoriale e di quella dell’Est – all’inizio del secolo XIX – erano in crisi anche prima di confrontarsi con gli europei.
Fino all’ultimo terzo del secolo XIX la quasi totalità dell’Africa restò a lungo indipendente, sia politicamente che economicamente e su entrambi i terreni a un livello superiore di quello attuale.
In un certo senso la fine della tratta degli schiavi esercitò anche un effetto negativo sugli stati africani perché se da una parte cancellò un lucroso commercio, dall’altra indusse le potenze europee a cercare in Africa altre fonti di arricchimento che sostituissero la tratta degli schiavi. A parte merci tradizionali – come oro, avorio – la Rivoluzione industriale spinse gli europei a ricercare, a prezzi minimi, la gomma e gli oli necessari alla lubrificazione delle macchine e per l’illuminazione delle fabbriche, prima dell’introduzione dell’illuminazione elettrica, di prodotti suntuari come caffè, cacao e zucchero, di prodotti tintori per l’industria tessile ricavati dalle foreste africane.
Il Regno del Benin, all’apice del Golfo di Guinea, era abitato dagli Yoruba e resta celebre per la fioritura artistica testimoniata dalle migliaia di sculture di bronzo del secolo XIV, razziate dagli europei e in particolare dal tedesco Frobenius e che ora si pensa di restituire ai legittimi possessori, che non sono gli stati attuali quanto le monarchie tradizionali cui erano stati sottratti, insieme alle 18 teste dei sovrani di Ife, così raffinate che si escludeva potessero essere di mano africana.
Il Regno del Congo occupava una parte dell’attuale Congo (Repubblica Democratica) e dell’Angola Settentrionale. I portoghesi erano stati impressionati dal re Nzinga Nkuma che nel secolo XV si era convertito al cattolicesimo ritenendo con quella conversione di poter mitigare le pretese dei portoghesi nel suo regno2, operazione che dopo di lui venne fatta anche dalla regina Nzinga – Anna I de Souza Nzinga Mbandi (1583-1663)3 che per quasi quaranta anni combatté i portoghesi.
Un’altra donna importante della resistenza del Kongo ai portoghesi fu Kimpa Vita (1680-1706) che contro i portoghesi fondò un movimento religioso armato detto degli Antoniani. Leggendo il Vangelo in chiave africana incitava i congolesi a unirsi, superando le contrapposizioni della guerra civile, per combattere uniti contro i bianchi.
Il re fu costretto a dichiarare che il Kongo era la vera terra santa e i seguaci di Kimpa i veri cristiani. Poi la fece arrestare e giustiziare.
Secondo Coquery i sovrani dei regni tradizionali più antichi (come il Kongo) finirono per vendere ai bianchi i loro propri sudditi, cosa che evitarono di fare i regni negrieri di origine più recente. Tra questi si citano il Regno di Ashanti all’inizio del XIX secolo aveva una capitale Kumasi con 25.000-30.000 abitanti e nell’Ottocento combatté 4 guerre contro gli inglesi; e il Regno del Dahomey che fu sottomesso dai francesi solo con una dura e feroce guerra (1890-1894).
Nell’odierno Ghana, l’Impero Ashanti sfidò gli inglesi in quattro successive guerre nel corso dell’Ottocento, oltre a una quinta, all’inizio del Novecento, nota come l’insurrezione Ashanti, guidata da un’altra figura femminile di spicco.
Il Dahomey, odierno Benin, era una potenza regionale e resistette a lungo alla colonizzazione francese, col il suo re Bèhanzin e con la famosa divisione femminile di guerriere conosciute come Agojie o Agoledjeè o anche come Le nostre madri. I Francesi chiamarono guerre del Dahomey gli scontri più accaniti del 1893-1894.
In Madagascar, la resistenza fu altrettanto accanita e segnò il lungo periodo delle guerre Malgasce (1890-1900) che il Generale Gallieni condusse con francese spietatezza e con un numero vittime tra i civili fu superato solo con l’insurrezione malgascia del 1947.
Una medaglia di disonore spetta ai tedeschi che nonostante la loro breve apparizione in Africa si fecero un nome come massacratori e saccheggiatori.
In Namibia, dove agli ordini del generale Von Trotta sterminarono i popoli degli Herero e dei Namo (1904-1907). Von Trotta ha il dubbio onore di aver preceduto il nostro Graziani come inventore dei campi di sterminio per la popolazione incivile.
In Camerun, dove, ben determinati a far fruttare la loro colonia, costrinsero ai lavori forzati l’intera popolazione salvo poi vantarsi che “In Camerun i tedeschi avevano costruito le ferrovie”. Provocarono così l’insurrezione dell’intera popolazione che li costrinse a una guerra di guerriglia nella quale furono sostituiti dai francesi senza soluzione di continuità dopo la Prima guerra mondiale.
In Tanganika, la colonia tedesca poi passata agli inglesi, i tedeschi provocarono l’insurrezione dei Maji Maji (1905), i contadini cui avevano tolto la terra e che inflissero loro la più cocente sconfitta in terra africana4.
Il Regno di Kuba, nel Kasai Occidentale (attuale Repubblica Democratica del Congo) era piuttosto una confederazione che raggruppava 20 popoli Bantù (i Luba o Ba-Luba); i Leeli, i Pende, i Dengesi e i Wongo). Il regno fu fondato nel 1625 e disciolto nel 19005. I Bantù arrivarono in Congo dalla Nigeria e dal Camerun tra il 2000 e il 500 a.C.
Nel 1630 il re Shyaam a Mboul a Ngooing importò dal Basso Congo, la coltura del mais, della manioca, dei fagioli e del tabacco, la tessitura, il ricamo, la broderie, nuove tecniche di forgia e la scultura del legno. Di questo popolo congolese il Frobenius diceva “Civilizzato fino al midollo delle ossa”. L’arte Kuba è una delle più importanti africane: statue, pettini, maschere, porta-rasoi, astucci per il trucco, coppe cefalomorfe, maschere per la danza, tessuti ricamati e brochès.
È un’arte essenzialmente regale e aristocratica. Se ne trovano esempi importanti a Dallas, al British Museum alla Smithsonian Inst. (USA), al Musèe du quai Branly (Parigi), al Museo dell’Africa (Tervuren)6.
Regno di Zanzibar e tratta degli schiavi attraverso l’oceano indiano. Nella seconda metà dell’Ottocento la tratta degli schiavi era organizzata da Zanzibar da bande di negri islamizzati, spesso ex schiavi essi stessi.
Henry Morton Stanley, giornalista e lui stesso razziatore di schiavi, nonché stretto collaboratore di Leopoldo II del Belgio descrive la portata di queste razzie in partenza dai cosiddetti sultanati situati a metà strada tra la costa e i regni del Congo: su 118 villaggi razziati, 3.600 erano stati gli schiavi catturati e 2.500 gli uomini uccisi. Donne e bambini neanche si contano. In cinque campagne successive 10.000 schiavi, 33.000 uomini uccisi.
Si può stimare a 50.000-55.000 il numero dei deportati per anno, con un totale di 1.000.000 di deportati tra 1860 e 1880. Molti di più i morti e la devastazione, i saccheggi, la miseria, l’esilio forzato. Quindi almeno 2.2 milioni di vittime. Devastazione confermata dal missionario belga Reelens nel 1892.
Le prede erano: il Regno del Congo, il Regno di Kuba, l’Impero Luba e l’Impero Lunda.
I predatori erano: il Sultano Tippo-Tipp, alle Stanley Falls, il Sultano Kibonge a Kirundu, il Sultano Mserera a Lokandu, il Sultano Dougombie a Nyangwe, il Sultano Sefu bin Hamid a Kagongo, il Sultano Bwana r N’zigo a Kabambore, il Sultano Mohamed Ben Halifa detto Rumaliza (il distruttore) nel Tanganika. Tutti localizzati nelle regioni del Congo a Ovest dei Grandi Laghi.
Il Bu-gando o stato dei G’handa costituisce ancora oggi il più grande dei regni tradizionali dell’Uganda, anche se la percentuale dei Ghanda sulla popolazione totale del paese è scesa dal 30% di fine ottocento al 10% attuale.
Si sarebbe formato come stato centralizzato all’inizio del XVII secolo. È basato su una settantina di clan, riconosciuti a tutt’oggi e ben identificabili che segnano le varie ondate di migrazione Bantù. A differenza della popolazione circostante, per i Ganda l’agricoltura è più importante dell’allevamento, per il quale chiamano ad aiutarli dei pastori dal Nord.
Il Buganda non è mai stato conquistato dalle armate coloniali. Il re del Buganda considera il protettorato inglese un’alleanza tra pari; i Ganda vennero utilizzati dagli inglesi per riscuotere le imposte nel resto dell’Uganda. Al momento dell’indipendenza costituivano la parte più alfabetizzata e relativamente più benestante della colonia.
Al momento dell’indipendenza l’Uganda contava 6 milioni di abitanti (di cui 1/3 Ganda). Attualmente sono 42 milioni. Saranno 80 milioni nel 2050, da 5 milioni di un secolo prima (1950). I Ganda sono ridotti al 10% della popolazione.
L’altro baluardo di resistenza contro l’espansionismo coloniale della fine del XIX secolo furono gli stati nati dalla Jihad islamica nell’Africa Occidentale.
Nel Sahel, l’Islam era presente fino dal XII secolo, ma limitatamente alle élite cittadine dove era detentore di un sapere molto rispettabile testimoniato dalla straordinaria biblioteca di Timbuctu e di Agadir, ma, con l’eccezione del Senegal dove si sviluppò dal XVI secolo un Islam Marabutico, non era né rurale né popolare.
Improvvisamente le conversioni si moltiplicarono tra i Peul (o Fulani), allevatori a cui si deve l’origine di Jihad sotto la guida di grandi capi. Erano, dice Coquery “movimenti ideologici d’ispirazione conservatrice”7. Il modello di riferimento era quello dei Giusti, all’inizio dell’Islam, per il ritorno a una fede purificata. Ma era anche una formula che mobilitava le masse in nome di un rinnovamento dell’ordine sociale che rispondeva a modo uso alla sfida lanciata dagli europei installati sulle coste africane. Le Jihad divennero generalizzate alla fine del XVIII secolo.
La resistenza dei negri alla colonizzazione
Nella cultura dei bianchi i negri cominciano ad essere concepiti come razza inferiore e servile nel XVI secolo. L’Otello di Shakespeare è molto diverso da quello di Verdi. Sulla pelle di quest’ultimo sono stampati tre secoli di pregiudizi che da persona lo hanno fatto diventare caricatura divertente o sgradevole, a seconda delle circostanze.
I bianchi singhiozzano perché all’epoca dell’invasione della Cecoslovacchia si è suicidato uno dei loro; per i milioni di negri morti ammazzati sulla strada della colonizzazione c’è il disinteresse; e se i negri sono un problema è perché qualcuno di loro osa affacciarsi sulla costa Nord del Mediterraneo a rischio della vita.
La faccia tosta dei bianchi giunse al punto che, nella seconda metà dell’Ottocento usarono il pretesto della schiavitù per liquidare i regni negri del Golfo di Guinea che si opponevano al loro disegno di colonizzazione totale. I bianchi, che avevano abolito la tratta soltanto da qualche anno dopo esserne stati i principali beneficiari per tre secoli, si ergevano a giudici ed erano gli stessi capitani negrieri, gli stessi mercanti, gli stessi finanzieri e le medesime case regnanti che sulla tratta avevano prosperato così a lungo.
Il Fouta-Djalon8
È su quelle montagne, da cui nascono i grandi fiumi del Sudan occidentale Senegal, Niger e Gambia che si costituì gradualmente il centro motore di diverse successive Jihad.
Gli allevatori e coltivatori Peul, tradizionalmente asserviti agli altri popoli della zona, si concentrarono nel massiccio del Fouta-Djalon da cui controllavano le piste per un’ampiezza di circa 300 km intorno al massiccio.
Verso il 1770 si costituirono in una confederazione di 9 province nelle quali si diffuse una discreta prosperità fondata su un sistema interno gerarchizzato e schiavista9. La produzione di riso e bestiame era favorita dall’altitudine che tra l’altro teneva lontana dal bestiame la mosca tse-tse. La costa, che i Peul rifornivano di viveri e di schiavi, era relativamente vicina, ma anche poco accessibile, il che metteva i Peul al riparo dalla concupiscenza dei bianchi. L’egemonia culturale islamica diede luogo in quell’area una produzione assai notevole di cultura poetica, trascritta dal peular in carattere arabi.
Un’intensa attività intellettuale richiamava studenti da tutte le regioni limitrofe e anche lontane. Si può dire che il metodo africano d’insegnamento dell’Islam fu sviluppato nel Fouta-Djalon.
Jihad nel paese Haussa
Nel 1804 Ousmane Dan Fodio, che toccava già i 50 anni, partì alla conquista del paese Haussa (nel Nord della Nigeria attuale) per ricondurlo alla fede ortodossa dei primi secoli.
In qualche anno il territorio conquistato o liberato si estendeva per 1.300 km da Ovest a Est e 650 km da Nord a Sud. Dan Fodio, lui stesso figlio d’Imam, raccoglieva intorno a sé Peul, Houssa e Touareg, ma soprattutto Peul che venivano ad ascoltare il suo insegnamento.
Nel 1810 divise l’impero tra il figlio e il fratello, mentre lui si consacrava alla religione e la figlia Nana Asna, cui aveva procurato un’educazione approfondita divenne un’importante poetessa.
La Jihad del Fouta-Toro
Fu condotta da Oumar Tall detto el Hadj Omari a partire dagli anni Quaranta dell’ottocento.
Dal Senegal, dove cominciò la sua predicazione e dove è tuttora venerato si spinse nel Mali e in Costa d’Avorio, dove il suo ricordo suscita meno simpatie. Morì nel 1864 nell’esplosione del suo rifugio nella falaise di Bandiagara, a seguito della rivolta dei Peul di Mac’na, di cui aveva distrutto la capitale e dei Bambara della regione di Segou in Senegal.
Altre Jihad spuntarono un po’ dappertutto in quell’epoca nell’Africa Occidentale. Questo accadeva prima che la presenza europea fosse percepita come radicalmente ostile.
La richiesta crescente produzioni monocolturali fece sì che per le arachidi (in Senegal) e per le noci di cola (Ashanti) fosse reintrodotta la schiavitù su scala relativamente ampia.
Questo però, insieme alla produzione ed esportazione dell’olio di palma, riguardava le zone costiere.
Di converso, le popolazioni dell’interno si trovarono disorganizzate rispetto alle nuove condizioni, compresa la cessazione graduale della tratta degli schiavi.
In tutto l’Ovest africano, nella prima metà del secolo XIX si ebbe una crescita demografica resa possibile anche dall’aumento della produzione alimentare; gli schiavi risultavano perciò in surplus.
Le Jihad furono anche imprese coloniali ma gli schiavi recuperati non venivano utilizzati come merce per la tratta ma come mano d’opera agricola.
La popolazione in eccesso serviva a nuove conquiste, a nuove Jihad!
El Hadj Umar (1797-1864) nella resistenza senegalese10
Se Suret-Canale non vede niente di speciale nel campo della Jihad, attribuisce invece un ruolo fuori dall’ordinario alle vicende di El Hadj Umar.
Il giudizio che lui dà sulla vicenda si El Hadj Umar ha una ricaduta sul modo di produzione che tenta di affermarsi in Africa occidentale nella seconda metà dell’Ottocento e che fu rapidamente stroncato dalla rapida avanzata della colonizzazione.
Di El Hadj Umar si può dire che nacque privilegiato – come diceva di sé Houphouët-Boigny – ma non con le stimmate del predestinato.
Apparteneva alla famiglia che poco tempo prima aveva rovesciato le dinastie pagane dei Denianke del Fouta Toro. Giovane di 23 anni partì per la Mecca. Al ritorno fu accolto con gli onori di un capo di stato verosimilmente perché alla Mecca aveva ricevuto una sorta di mandato per il Sudan occidentale da parte del califfo della confraternita dei tidyane, il che automaticamente lo rendeva rispettabile e nello stesso tempo sospetto per tutti i regnanti dell’Africa occidentale, in gran parte Peul islamizzati, che visitò in pompa magna nel suo viaggio di rientro in patria e che Suret cita nell’ordine: el Kanemi, re del Bornou, l’unico non Peul; poi Mohammed Bello, califfo di Sokoto, il re Peul di Macina, Sekou Mamadou che lo ricevette nella nuova capitale Hamidallah; il re di Segou; e ancora il discendente dei Keita del Mali e l’Almany del Fouta Djallon. Lì fondò una sorta di ribat per poi passare in Senegal dove fu ricevuto dal comandante francese de Bekel.
Nel 1850 si ritirò a Dinguiraye dove costruì una fortezza. La confraternita di tidianye ha le caratteristiche di cancellare la difficoltà di accesso al califfo; tutti possono accedere a lui come possono accedere al potere, al sapere e alla ricchezza; ed è questo che rende El Hadj Umar tanto popolare ancora oggi. La confraternita sufi della Tijaniyya fondata da Ahmed Tijani nel 1782 avrebbe ad oggi oltre duecento milioni di adepti.
Robert de la Vignette considerava El Hadj Umar un precursore di Samory Tourè e di Rabah. Una volta installatosi nella propria fortezza El Hadj Umar si atteggiò a capo di stato e i primi conflitti furono con i Fouta Djallon che erano stati i suoi primi sostenitori.
Dal 1850 al 1854 fece a pezzi quel che restava dei vecchi regni agrari dei Keita (Mali) e dei Coulibali Massassi (il regno pagano Bambara di Kaarta), la cui capitale era Nioro, poi ancora più a Ovest se la prese con i regni di Khasso e con la sua patria d’origine, il Fouta Toro. Proprio lì una parte consistente dei notabili richiesero e ottennero l’aiuto dei francesi.
È in Senegal, stante la sua grande popolarità, che avrebbe voluto installare uno stato sociale di tipo nuovo, ma ne fu impedito dai cannoni francesi.
S’installò allora a Genou sulla riva destra del Senegal ma la sua guarnigione viene sconfitta dopo eroica resistenza. Lui si spostò ancora di più verso Est combattendo contro i Bambara di Segou (pagani) e i Peul di Macina (musulmani) di cui distrusse entrambi gli stati (1861-1863).
Morì in territorio Dogon nel 1864 a seguito di una rivolta dei Peul di Macina.
La guerra di Samori (1860-1898)
Samori, nato verso il 1830, non era in origine un predicatore, ma un Diola, un mercante musulmano, ma siamo già a metà secolo XIX e i francesi in Senegal e gli inglesi in Casamance e nella Costa d’Oro avevano cominciato le loro spedizioni verso l’interno. Samori si fece militante religioso per contrastarli e guidò la Jihad finché i francesi lo catturarono e lo giustiziarono nel 1898, così come 5 anni prima avevano fatto lo stesso col figlio di El Hadj Oumar che aveva ripreso la lotta del padre.
Il Mahdismo Senussita
Movimenti religiosi tardivi, più commerciali che militari, ma comunque opposti alla colonizzazione, furono quelli profetici dei diversi Mahdi o inviati del Profeta, dalla Libia al Chad, movimenti presto criminalizzati e bollati come terroristici dai colonialisti italiani come dei francesi, ma il movimento Mahdisti forse più consistente fu quello che a partire dal 1885 si organizzò contro la presenza inglese a Karthoun, facendo base a Ondurman, la città dirimpettaia.
Occorsero 13 anni agli inglesi per venire a capo di quel movimento militare e religioso.
Queste diverse formazioni politico-religiose, per quanto conservatrici sul piano ideologico, contribuirono però a una certa modernizzazione dei modi di vivere e anche dell’ambiente politico e culturale.
In Africa Orientale le motivazioni religiose, a differenza che nel Sahel, furono (generalmente) praticamente assenti; e tuttavia la formazione di imperi di conquista è riportata anche in Africa Orientale.
L’epopea di Rabah11 (1842-1900) in Centro Africa
Rabah, nato schiavo nell’odierno Sudan, divenne soldato nell’esercito egiziano, si ribellò e costituì la sua base in Darfur, nel Sud Sudan. Da lì partì, a partire dagli anni ’80, per costruire il suo impero personale che copriva parte del Sudan e del Chad, stabilendo la sua capitale a Bornou sul Lago Chad.
Descritto dai francesi con le tinte più fosche, comprava armi moderne in Etiopia (all’epoca anche Arthur Rimbaud cercava di far fortuna con quel commercio), binocoli e munizioni in Libia. I suoi capi mandavano i figli a studiare nelle missioni cattoliche, da cui uscirono preparati a inserirsi nelle reti culturali e politiche della futura potenza dominante12.
Respinse le proposte di alleanza degli inglesi e i francesi riuscrono ad avere ragione di lui solo dopo diversi anniFecero parte del tentativo le sanguinarie spedizioni di Voulet e Chanoine (1899) e poi, nel 1900, la tripla spedizione Joalland et Meynier partiti in contemporanea dall’Algeria, dal Senegal e dal Congo. Voulet e Chanoine si erano distinti nel 1896 nella conquista dell’Impero Mossi (Burkina Faso). Partirono da Dakar con 50 tirailleurs senegalesi, 20 spahis e 400 “ausiliari”, più 800 portatori.
La linea di difesa africana contro l’invasione bianca (1850)
In Senegal c’erano i regni residuati dallo smembramento dei grandi imperi subsahariani (Mali e Songhai); parte di essi erano stati rinvigoriti a partire dalle Jihad islamiche dell’Ottocento, in particolare il Fouta Toro (che occupava lo spazio dell’antico Regno Tekrur poi Impero Toucouleur, ricostituito nel 1850 da Umar Tall che dichiarò la guerra santa contro i francesi. ma da 1857 si spostò verso est attaccando i regni Bambara. I francesi ne ebbero ragione nel 1890. Tra Guinea, Conakry e Costa d’Avorio c’era il regno di Fouta Djalon, una sorta di seconda linea. In quell’area Samory Toure, uno dei capi di Umar Tall, creò l’effimero impero Uassoulou (1878-1898) che cedette gradatamente ai francesi, fu catturato nel 1898 ed esiliato in Gabon
Erano invece in prima linea in Senegal il Regno di Cayor, quello dei Wolof, e quello della Casamance; e si opponevano ai francesi infedeli le confraternite islamiche.
Sempre in prima linea, sulla Costa d’Oro si trovavano le città stato dei Fanti, che costituivano un avversario malleabile. Alle loro spalle c’era però l’Impero Ashanti e più a Est il Regno del Dahomey: due regni guerrieri che costrinsero inglesi e francesi a lunghe e ripetute guerre.
In seconda linea – negli odierni Mali e Niger – c’era l’Impero dei Toucouleur, che però il recente passaggio del Jihad islamica aveva destabilizzato e indebolito.
Alle spalle del regno di Ashanti e del Dahomey, c’è una serie di regni.
Proseguendo sulla costa nigeriana c’è il piccolo regno del Benin e alle sue spalle quello che resta dell’Impero Oyo. Poi la più grossa formazione dell’epoca, il Califfato di Sekou che gli inglesi affrontarono con molta cautela.
Sulle coste dell’Oceano Indiano
Tra l’Oman e l’Isola di Zanzibar nella prima parte del secolo XIX si estese il potere del Sultano di Oman che nel 1840 fece di Zanzibar la sua capitale e mantenne il suo potere fino al 1870 circa su quell’insieme di città costiere parzialmente arabizzate, ma fondamentalmente swahili, essendo lo swahili una lingua meticcia ricavata dalla fusione di arabo e bantù.
Gli arabi omaniti si occupavano poco della politica locale, salvo a Mombasa, dove gli Shirazi – i nobili swahili locali tra cui primeggiava la famiglia dei Mazrui – oppose loro una fiera resistenza.
Per differenziarsi dagli Omaniti, gli Shirazi si erano inventati un’antica discendenza dai persiani (Shiraz). S’interessavano soprattutto di commercio che prosperava grazie all’alleanza con i mercanti zanzibariti e con i finanzieri indiani.
Nelle città della costa gli arabi dominavano grazie alle loro vaste piantagioni schiavistiche di canna da zucchero e i cocotiers; fecero anche alleanza con i commercianti indiani che finanziavano le spedizioni carovaniere verso l’interno dei continenti.
A Zanzibar la presenza contestuale delle piantagioni schiavistiche di proprietà degli Shirazi e di un ceto proletarizzato costituito dalla Mijikende, la plebe africana dei portatori, cacciatori di elefanti, soldati mercenari ex schiavi aveva prodotto a una particolare divisione in classi, al cui vertice c’erano i patrizi shirazi, latifondisti schiavisti ma anche commercianti, commercianti arabi e finanzieri indiani; in una posizione intermedia la plebe africana; e alla base gli schiavi africani.
Uno strato di artigiani nasceva all’interno della popolazione schiavizzata e a volte agli schiavi veniva consentito di mettere in proprio, con capitale indiano, per razziare l’interno.
La monetizzazione dell’economia divenne la regola con la diffusione dei talleri (d’argento) di Maria Teresa, coniato appositamente in Austria per il mercato africano a partire dal XVIII secolo e la cui stabilità era garantita dal fatto che erano emessi unicamente in cambio di lingotti d’oro.
Nell’ultimo terzo del XIX secolo nel sultanato omanita di Zanzibar più o meno tutti partecipavano all’economia monetaria, che fosse in talleri o in cauri, le piccole conchiglie importate dall’oceano indiano e divenute moneta corrente in gran parte dell’Africa. Dai grandi piantatori ai mercanti di schiavi verso l’India, a chi riforniva di cibo le spedizioni verso l’interno, alle regioni dell’interno che vendeva sulla costa birra, tessuti artigianali, stuoie, pagne o prodotti agricoli e alimentari; e questo a prescindere da un’agricoltura di sussistenza che nutriva la gran parte della popolazione africana, ancora composta di contadini liberi.
Il mercato era movimentato dall’apprezzamento dell’avorio, sempre più richiesto in Occidente. Per converso calavano i prezzi dei prodotti industriali occidentali.
Un piantatore zanzibarita ben conosciuto dagli europei con il nome di Tippu Tip fu a certo punto socio di Stanley più come razziatore di schiavi che come piantatore schiavista.
Lo stato zanzibarita, dice Coquery, era troppo gerarchizzato e compartimentato per generare una nazione, ma lo era abbastanza per creare una cultura aristocratica meticcia a dominanza musulmana e una lingua, lo swahili, che resta la lingua più parlata a Sud del Sahara.
Il Regno Zulu di Shaka (1787-1828)
Shaka fu un grande monarca e generale africano, non per niente conosciuto come il Napoleone nero e fu anche il creatore di uno stato centralizzato, autoritario e guerriero.
L’Impero Zulu si rafforzò nei sessant’anni successivi alla sua scomparsa anche grazie alle riforme militari volute da Shaka. Nel 1879 il governatore inglese del capo ne impose lo scioglimento e mosse contro l’esercito zulu una colonna di 17.000 uomini, che fu poi divisa in colonne più piccole.
L’accampamento base, con circa 2.000 uomini, fu attaccato dagli Zuluil 22 gennaio 1879 e ne seguì quella che gli inglesi, dimenticando Adua, considerano la più sanguinosa sconfitta dell’uomo bianco in Africa: con 858 inglesi e 471 ausiliari africani morti a Isandlwana.
Caddero anche 52 ufficiali inglesi, 4 più che a Waterloo. Altre perdite gli inglesi le subirono sul fiume Ntombi (79 inglesi morti) e a Hlobane (200 inglesi morti); qualche mese dopo cadde anche il figlio di Napoleone III.
La guerra si condusse nel 1879 con la cattura del re Zulu. L’Impero Zulu aveva avuto un’estensione di circa 200.000 km2 (1822) e una popolazione di 250.000 abitanti (1828).
La sua eredità politica è stata raccolta dal partito Inkhata, nato negli anni ’20 del Novecento, dopo l’ultima rivolta del 1905.
L’età dell’oro della colonizzazione
Se gli inizi furono tribolati – ma quale unione all’inizio non lo è !– nell’intervallo tra le due guerre una cospicua letteratura bianca vorrebbe far passare il modello “Casablanca”. E cioè presentare come risolti i conflitti tra “nativi” e madrepatria con l’avvio di una fruttuosa e pacifica cooperazione.
In Sudafrica e in Rhodesia a controbilanciare lo sfruttamento industriale si erano costituite robuste organizzazioni sindacali; e i movimenti rivendicativi e di sciopero assunsero, volenti o nolenti, un carattere eversivo.
Nel Congo Popolare – allora Africa Equatoriale Francese o Congo Brazzaville– l’amministrazione coloniale fu combattuta dall’associazione degli ex combattenti negri nell’esercito francese creata da André Matswua, un ex catechista poi arruolatosi nell’Armeé, ferito sul fronte franco-tedesco e morto in una prigione francese in Africa nel 1940.
Nel Secondo dopoguerra le lotte armate di resistenza all’occupazione si saldarono senza soluzione di continuità alle lotte di liberazione dal colonialismo. Tra le prime l’insurrezione malgascia del 1947 che fece un numero impressionante di vittime, tra centomila e settecentomila. All’epoca la Francia democratica difendeva spietatamente il suo impero coloniale con l’unica opposizione dei comunisti. Il governo inviò in Madagascar un corpo di spedizione di trentamila uomini. Tra questi c’erano molti tedeschi arruolati nei reparti della Legione. La Repubblica democratica gli perdonava i delitti passati purché ne commettessero di nuovi. Molti di quei reparti li ritroveremo di lì a poco nell’Indocina insorta.
In Kenya ci fu la rivolta dei Mau Mau, contadini poveri di etnia Kkuyu che volevano l’indipendenza, ma soprattutto rivolevano la terra rubata dai bianchi. La stampa occidentale li denunciò come selvaggi, barbari, assassini e soprattutto negri, anche se il rapporto tra le vittime bianche e quelle nere in quella che fu definita strage di poveri coloni innocenti era di 1 a 1000, senza contare le detenzioni di massa, le torture, le illegalità. I Mau Mau furono abbandonati anche dai dirigenti neri moderati, al punto che ancor oggi il Kenya è l’unico paese africano insieme al Camerun che si rifiuta di onorare i propri combattenti per l’indipendenza.
Nel Secondo dopoguerra a partire dal 1945 i nodi della lotta di classe vennero al pettine in tutti i principali paesi dell’Africa Occidentale Francese (AOF). In mezzo c’era stato l’ulteriore indurimento delle politiche repressive ed estorsive, tanto nelle colonie che avevano aderito alla Francia di Vichy quanto in quelle che si erano schierate con De Gaulle e la sua Francia Libera, come il Camerun. Lì aveva fatto la sua apparizione il generale Leclerc, futuro liberatore di Parigi per mettere le basi della sua famosa divisione B2 – 2a Divisione blindata. Se qualche decina di bianchi si presentarono volontari, parecchie migliaia di giovani camerunensi negri furono arruolati a forza, vuoi nella divisione di Leclerc vuoi nel corpo dei tirailleurs. Arruolati a forza vuol dire che per ogni villaggio o agglomerato urbano i bianchi avevano fissato un numero di coscritti obbligatorio. Spettava ai capi locali presentare la lista dei nomi e incassare per ciascun soldato una quota o riscatto che restava a lui con santa pace delle illusioni della Uyamaa,( in swahili la famiglia estesa, la fraternità comunitaria). Durante la guerra gli affari della ristrettissima minoranza bianca di piantatori, commercianti, magistrati andarono molto bene. Parliamo, per il Camerun che non era colonia di popolamento e che tuttavia si voleva restasse soggetto alla Francia, di circa l’1‰ della popolazione, 3.000 francesi su tre milioni di negri, quelli che, quando venne il momento in cui sventolare a suon di frustate la superiorità razziale dell’uomo bianco non era più di moda, avrebbero preteso che i loro interessi fossero tutelati in quanto “tribù africana bianca”, al pari delle altre nazioni africane. Avevano dalla loro il potere economico e quello sociale attraverso la pratica dell’indigenato che permetteva ai bianchi ogni sorte di abuso, discriminazione e prepotenza, dalla tortura praticata correntemente, e che alcuni volevano legalizzare, alle deportazioni e alle sanzioni collettive. Erano pochi ma avevano buoni appoggi, specie nel partito gollista e nell’esercito.
A loro si devono i massacri indiscriminati del settembre 1945, in occasione dello sciopero dei ferrovieri e nel maggio 1955, quando furono assalite e bruciate le sedi dell’UPC – il Movimento Indipendentista Camerunense – che dopo quei pogrom fu dichiarato illegale. Erano armati, ultra nazionalisti e razzisti e i loro interessi di classe erano protetti dai bastioni dello stato francese: governo, assemblea legislativa, esercito e partiti borghesi.
I loro alleati locali, pur nella divergenza di interessi erano i negri auxiliaires o evolouès, quell’1% circa della popolazione negra cui era stato concesso un modesto grado di istruzione e che erano diventati medici di medicina africana, come Houphouët-Boigny, o impiegati postali – come Lumumba o SekouTourè – o di altri servizi, amministratori locali o funzionari subordinati si polizia. A questi vanno aggiunti i piantatori negri locali – circa ventimila in Costa d’Avorio – che il solito Houphouët-Boigny aveva riunito in un sindacato, poi diventato la base del locale partito negro. La sua composizione maggioritaria spiega anche l’evoluzione pro-francese di quel partito – stiamo parlando della sezione ivoriana della RDA (il partito degli africani colonizzati, Rassemblement Democratique Africain)– a differenza di altre sezioni a maggioranza proletaria come quelle del Niger o del Camerun.
Il riferimento francese di quella classe era il Movimento Socialista e in quel vasto arcipelago, il piccolo Movimento di Mitterand e di Pleven.
Mitterand, ministro della Francia di Petain e collaborazionista dei nazisti, era fortunosamente scampato all’epurazione che aveva colpito duro gli esaltati di poco conto alla Celine. Lui era entrato nell’area governativa, prima con i comunisti e poi contro di loro sposando la causa di un’accresciuta presenza coloniale della Francia in Africa, dato che era giocoforza abbandonare l’Indocina.
Come colonialista e ministro della giustizia nel 1956 negò la grazia ai combattenti del FN algerino che, anche grazie a lui furono ghigliottinati. Prima d’allora, nel 1950 aveva stretto un accordo con il deputato e presidente dell’RDA Houphouët-Boigny che era stato sapientemente intimorito con l’accusa del tutto immotivata di comunismo, l’uccisione e la persecuzione dei suoi sostenitori in Costa d’Avorio, fino all’impiccagione di un suo senatore trovato misteriosamente impiccato a un albero in una foresta della Costa d’Avorio.
Houphouët-Boigny che tutto era meno che comunista, decise che era ora di abbandonare l’alleanza coi comunisti e di accettare la proposta di Mitterand: “Potremo discutere delle richieste economiche, se sono ragionevoli, ma se avanzate richieste politiche, risponderemo con l’esercito”.
Questo voltafaccia Houphouët-Boigny riuscì a farlo tagliando fuori il suo stesso partito di cui, nei successivi quattro anni, non fu convocato né un congresso né il comitato di direzione, attraverso una serie funambolica di accorgimenti, pretesti e imbrogli di cui Boigny si dimostrò maestro. Dal momento dell’accordo con Mitterand la sua carriera prese il volo nel governo francese; e soprattutto la Costa d’Avorio restò sotto il suo controllo padronale.
Il patto con Mitterand ebbe come risultato anche quello di lasciare isolati gli altri partiti nazionali africani che pure, in Niger, Mali e Camerun facevano parte dell’RDA e fu così che l’elemento più combattivo, l’UPC camerunense fu messo fuori legge nel 1955.
Questa classe di auxiliaires o di evolouèes, ha poco a che vedere con quella borghesia compradora di cui parla speso Mao per la Cina. Nel caso africano si tratta di piccola borghesia e non degli eredi del grande commercio cinese che erano la base di quella borghesia compradora.
Degli auxiliaire o evolouèes non facevano parte i negri arruolati a forza nei tirailleurs. Vera e propria carne da cannone erano stati letteralmente venduti dai capi villaggio durante le due guerre mondiali. I superstiti al loro ritorno non erano stati accolti festosamente ma disarmati e rinchiusi in campi di raccolta con poco mangiare e senza paga. Quando avevano chiesto la paga promessa furono presi a fucilate e ne venne fuori il massacro di Thiaroye nel 1945.
Anche loro, ed erano molte migliaia, avevano propri interessi di classe, lontani da quelli dei capi locali che li avevano venduti all’esercito francese e più vicini a quelli dei ferrovieri che rimasti nel sindacato comunista avevano fatto la svolta difficile di scendere in sciopero nel 1945. Ma due scioperi durati mesi c’erano già stati nel 1920 e nel 1926, sempre sulle ferrovie Senegalesi e maliane.
Il racconto della loro impresa è in un romanzo dell’autore e regista senegalese Ousmane Sembene, Les bouts de bois de Dieu.
I capi e ancor più i residui aristocratici che esistevano in tutta l’Africa Occidentale erano una classe ben distinta dai contadini poveri degli stessi villaggi, dai tessitori, dai fabbri e dagli altri artigiani; e soprattutto dagli innumerevoli schiavi ed ex schiavi, sradicati e estranei alla comunità, coloro ai quali non si riconosceva personalità umana in quanto avevano perso i loro antenati e le nuove comunità dove erano arrivati come schiavi, a prescindere dal fatto che ora fossero affrancati, non li avevano accolti.
Le vittorie africane contro il colonialismo
A confrontarsi con i potenti eserciti europei nel periodo precedente la Prima guerra mondiale erano stati regni negri indipendenti, da un capo all’altro dell’Africa.
Gli inglesi, nel loro allargamento dalla Colonia del Capo verso Nord non incontrarono solo i Boeri, ma anche il Regno Zulù, fondato all’inizio dell’Ottocento dal re Shaka, che non per niente fu chiamato il Napoleone nero. Era un regno militare con un esercito ben addestrato e comandanti capaci e quelle loro capacità le dimostrarono ampiamente, infliggendo agli inglesi le più cocenti sconfitte in terra d’Africa. Accadde nel 1879 nella battaglia di Isandlwana dove rimasero sul campo 912 europei, di cui 52 ufficiali: quattro più che a Waterloo13.
La BBC in un recente documentario sulla battaglia, ammetteva con sussiego che si trattava della più grave sconfitta di un esercito bianco in Africa, lasciandosi sfuggire la vittoria africana ad Adua dove le perdite italiane furono quattro volte tante; vuoi per ignoranza, vuoi perché gli italiani con quella loro pelle scura non sono propriamente “bianchi”. Comunque ad Adua gli italiani lasciarono sul terreno, nel 1896, oltre 4.700 cadaveri dopo che i loro generali e i mandanti politici di quella strage si erano detti sicuri che avrebbero schiacciato quell’accozzaglia di negri barbari che un sedicente re dei re gli mandava contro.
Il periodo considerato è anche quello delle famigerate colonne francesi che attraversavano l’Africa da un capo all’altro lasciandosi dietro una striscia ininterrotta di sangue. Purtroppo esiste una storiografia francese non marginale che ancora oggi liquida il problema dicendo che si trattava di ufficiali francesi “pazzi”; sicché nessuno ne può essere fatto responsabile.
Se gli inizi furono tribolati – ma quale unione all’inizio non lo è – nell’intervallo tra le due guerre una cospicua letteratura bianca vorrebbe far passare il modello “Casablanca”. E cioè presentare come risolti i conflitti tra “nativi” e madrepatria con l’avvio di fruttuosa e pacifica cooperazione.
Ma non andò così. In Somalia, contro gli inglesi, italiani ed etiopi continuò la guerra dei Dervisci (1898-1920)14 contro i quali – per avere ragione dello stato che si erano costituiti – si ricorse ai bombardamenti aerei; e sempre in Somalia, per oltre 25 anni (1900-1925), imperversò la rivolta di Benadir.
Prese fuoco il Gabon e si riaccesero i focolai di rivolta nel Camerun, del resto mai spenti. In Sudafrica e in Rhodesia dove a controbilanciare lo sfruttamento industriale si erano costituiti robuste organizzazioni sindacali e i movimenti rivendicativi e di sciopero assumevano, volenti o nolenti, un carattere eversivo.
Nel Congo Popolare – allora Africa Equatoriale Francese o Congo Brazzaville– l’amministrazione coloniale fu combattuta dall’associazione degli ex combattenti negri nell’esercito francese creata da André Matswua.
I bianchi democratici hanno un riflesso condizionato quando parlano nel linguaggio corrente di sconfitta di Adua o di sconfitta di Isandlwana. Da quelle parole risulta implicita un’adesione, magari controvoglia, allo schieramento colonialista, Sarebbe ora che la storiografia eurocentrica riconoscesse che quelle che gli occidentali chiamano sconfitte furono vittorie dell’emancipazione dei popoli: degli Zulu a Isandlwana (1879), degli Abissini a Adua (1896), dei Berberi ad Anual, al momento la più sanguinosa di tutte, dove gli spagnoli persero tra morti e feriti 13363 uomini il 2 luglio 1921, nella guerra del Rif mossa contro un altro eroe africano, Abd el Krim, e si decidesse a chiamare col loro nome le guerre di sterminio.
Prima e seconda guerra mondiale
La resistenza dei negri africani al colonialismo bianco fu eroica, vasta e di lunga durata. In parecchie occasioni, inflisse ad eserciti bianchi modernamente armati, sconfitte tanto più clamorosa quanto maggiore era la sottovalutazione delle capacità militari di quelli che erano considerati selvaggi senz’anima e senza intelligenza.
E’ logico che chi non riconosce in Adua una grande vittoria non riesca a vedere la grande vittoria del popolo afghano sulla NATO e gli imperialisti americani, senza domandarsi perché solo la pubblicistica occidentale bianca l’ha chiamata sconfitta mentre il resto del mondo plaudiva, più o meno apertamente, alla vittoria. Ancora oggi quella stessa parte non risponde alla domanda su come mai un’accolita di straccioni in ciabatte, con pochi aiuti esterni e sorretti da un’ideologia arretrata, se non apertamente reazionaria, ha sconfitto in una guerra di vent’anni gli eserciti più potenti del mondo e, in una guerra di 24 ore, l’esercito afghano che quelli si erano lasciati alle spalle, numeroso, addestrato e dotato delle armi più sofisticate.
Quelle cui accenneremo è la resistenza negra alla fase più aggressiva del colonialismo dalla seconda metà del secolo XIX agli anni Sessanta del ventesimo secolo, che vide la penetrazione dei bianchi all’interno dell’Africa e la costituzione delle colonie e in particolare di due imperi: quello francese dell’Africa Occidentale (in particolare dell’Africa Equatoriale) e quello inglese tra l’Egitto, la Regione dei Laghi e l’Oceano Indiano.
Una prima fase, fino alla prima guerra mondiale, conobbe guerre di lunga durata, che spesso segnarono la vita di un paio di generazioni e anche più come quella dei Dervisci tra Somaliland e Etiopia o quella del Benadir sempre in Somalia, ma contro gli italiani; o le quattro guerre Ashanti nell’odierno Ghana; la lunga resistenza del Senegal all’occupazione francese; o la guerra senza fine della popolazione del Camerun che passò quasi senza soluzione di continuità dalla resistenza ai tedeschi primi invasori e poi ai francesi che li rimpiazzarono alla fine della Prima guerra mondiale e poi alla più lunga guerra di resistenza dei mahdisti sudanesi all’inglese Gordon Pascià ed al suo sottopancia italiano Gessi Pascià.
La resistenza continuò accanita tra Prima e Seconda guerra mondiale; e in quel contesto s’inserì l’avventura mussoliniana in Etiopia, troppo breve perché la resistenza etiopica facesse in tempo a sbarazzarsene ma non troppo breve perché l’idolo dei fascisti italiani, Maresciallo Graziani, non facesse in tempo a macchiarsi di delitti come il massacro di Addis Abeba e quello di Debra Libanòs, le condizioni disumane di detenzione dei prigionieri di guerra etiopici: tre casi che sfuggirono alla solerte penna del giornalista Montanelli allora presente sul posto come parte in causa15.
Nel Secondo dopoguerra la palma d’oro della crudeltà e della violenza passò ai francesi anche perché di quella violenza sanguinaria e dei suoi metodi avevano fatto una strategia razionale chiamandola “guerra rivoluzionaria”. Essa consisteva, semplificando molto, nel coinvolgimento di tutta la popolazione nella repressione di una guerriglia o di un’insorgenza. Stavano cominciando a sperimentarla in Indocina quando in Madagascar ci furono i primi moti per l’indipendenza che i francesi chiamarono insurrezione inviando a reprimerla un corpo di spedizione di 30.000 uomini. All’epoca in Europa di militari disoccupati se ne trovavano parecchi, specie tra gli ex soldati tedeschi e molti di loro si fecero onore nella Legione Straniera in Madagascar. Il risultato di quell’onore furono mezzo milione di morti e una “guerra rivoluzionaria” sanguinaria e poco nota che durò dieci anni.
La “guerra rivoluzionaria” carta vincente dell’esercito francese si faceva strada in Algeria quantunque una parte cospicua dell’opinione pubblica occidentale la trovasse riprovevole, ma ancora di più nel Camerun, la guerra alimentata dove i francesi si resero protagonisti di una feroce guerra preventiva contro i civili prima e dopo l’indipendenza del paese.
Chi invece preferì dare il massimo risalto alla naturale perversità dei negri in confronto alla pacifica bonarietà dei bianchi fu la Corona inglese che diede la massima pubblicità alla rivolta contadina dei Kikuyu in Kenya, demonizzata dagli occidentali come “la barbara strage dei selvaggi Kikuyu,” quando la proporzione delle vittime tra bianchi e negri fu di uno a mille. Dalla parte dei Mau Mau c’erano i contadini poveri che erano stati espropriati, mentre con i bianchi c’erano i negri buoni, quelli che – non si mancava mai di sottolineare – andavano d’accordo con i bianchi. E Yomo Kenyatta, anche se allora era in galera, quando ne uscì scelse quella parte e i guerriglieri Mau Mau con tutte i loro martiri furono ostracizzati, ignorati e perseguitati anche dopo l’indipendenza del Kenya, caso non unico di combattenti per la libertà dimenticati dal proprio paese.
A partire dal 1945, anche se i prodromi c’erano stati fin dagli anni Trenta al tempo della difficile costituzione dei primi sindacati, alle rivolte e alle guerriglie si affiancarono le agitazioni sindacali, che richiedevano spesso altrettanto coraggio delle rivolte armate.
Nel 1945 ci furono gli scioperi dei ferrovieri in Senegal e in Camerun e poi lo sciopero generale sempre in Camerun. E gli scioperi dei negri in Rhodesia e in Sud Africa fino a Sokoto.
Verso l’indipendenza
Si andava formando in quegli anni la generazione dei leader africani che guidarono i loro popoli verso l’indipendenza e negli anni successivi. Molti di loro si erano formati negli ambienti o nelle scuole missionarie; altri venivano dalle file dell’esercito e non c’è da stupirsene perché missioni religiose ed eserciti coloniali erano le sole istituzioni dove un giovane negro poteva ricevere una qualche sorta di formazione scolastica. Qualche chance educativa in più avevano i giovani provenienti da famiglie abbienti o aristocratiche e regali africane.
Si contano sulle dita di una mano quelli che avevano completato o iniziato la loro formazione nelle organizzazioni comuniste che erano poche e deboli.
Scarsa era stata l’attività dell’Internazionale Comunista in Africa e ancora più scarsa nell’Africa nera. Qualcuno come Thomas Sankara ebbe una formazione marxista per via indotta durante la sua preparazione militare in Madagascar.
Tuttavia, tra le molte posizioni e caratteristiche che differenziano questi leader anche in relazione a contesti molto differenti e pressoché unici in cui si trovarono ad operare, due ci paiono le caratteristiche realmente discriminati.
La prima è la posizione nei confronti dell’imperialismo, comprese le sue varianti di colonialismo e neocolonialismo.
La seconda è la posizione assunta nei confronti del progetto di unità africana, in base al quale alla fine si misurò il risultato del Movimento Africano di Liberazione dal colonialismo.
La prima discriminante può apparire pleonastica ma non lo è. Abbiamo l’esempio di organizzazioni rivoluzionarie, in particolare nelle colonie portoghesi, che furono ampiamente sostenute dagli americani e ancora più strettamente dal Sud Africa dell’Apartheid e da Israele contro le maggioritarie organizzazioni rivoluzionarie marxiste.
Se poterono reggere lunghe guerre civili arrivando in qualche caso a dei compromessi onorevoli fu non solo grazie all’aiuto militare e finanziario degli imperialisti ma anche perché fecero leva sul tribalismo, che è la caratteristica interna fondamentale dei principali di questi movimenti: la ReNaMo in Mozambico e l’UNITA e l’FNLA in Angola.
Questa questione tuttora drammaticamente presente e viva nell’Africa subsahariana fu il punto chiave di quella che fu la politica estera o internazionalista sulla quale i leader africani, a parole tutti o quasi marxisti leninisti, si divisero: come costruire e costituire l’Unità Africana. Il risultato fu l’Unità Africana (OUA) come la conosciamo oggi, è molto diversa da come era stata immaginata da Nkrumah quando aveva convocato i leader africani ad Accra per la prima riunione per l’Unità Africana nel 1957. Allora il Ghana era l’unico stato indipendente ex coloniale dell’Africa nera; insieme a Liberia, Etiopia e Africa del Sud.
Luciano Beolchi
- Catherine Coquery-Vidrovič, Petite Histoire de l’Afrique. L’Afrique au Sud du Sahara de la prè-histoire a nos jours. La Dècouverte poche, 2016 (1a edizione 2011), pag. 132.[↩]
- Battezzato come Giovanni I del Kongo (1440-1509) fu il 5° Manikongo del Regno del Kongo (1470-1509). Abbandonò il cattolicesimo poco dopo la conversione. Il regno arrivò ad occupare una superficie di 100.000 km2 e aveva un’amministrazione molto centralizzata. I portoghesi aiutarono militarmente il Regno del Kongo nel conflitto etnico col Regno Teke, situato nell’odierno Congo Brazzaville.[↩]
- I Regni di Ngola-Nolongo (oltre a quello di Matamba) sono nella fascia dell’Angola attuale a Sud del Regno del Kongo.[↩]
- Rivolta Abashiri (1888). Rivolta del popolo Hehe (1891-1894).[↩]
- A chi dice che la storia dell’Africa è un mistero, bisognerebbe ricordare i dodici milioni di pezzi che il Belgio ha sottratto al Congo e rinchiusi nel suo museo africano. Archeologia, Etnologia, Storia dell’arte, Antropologia, Economia, Zoologia, Botanica, Tradizioni orali, Letteratura comparata etc., possono arrivare là dove non è disponibile storia scritta la storia scritta.[↩]
- Hubert Dechamp, L’Afrique noire prècoloniale, PUF, (1976), Lire en Ligne.
Theophile Obenga, Afrique Centrale prècoloniale, Documents d’histoire vivante, Prèsence Africaine, 1974.[↩] - Catherine Coquery-Vidrovič, Petite Histoire de l’Afrique. L’Afrique au Sud du Sahara de la prè-histoire a nos jours. La Dècouverte poche, 2016, pag. 141.[↩]
- Il Fouta-Djalon è il massiccio da cui nascono i tre grandi fiumi dell’Africa Occidentale: il Niger, il Senegal e il Gambia.[↩]
- Catherine Coquery-Vidrovič, Petite Histoire de l’Afrique. L’Afrique au Sud du Sahara de la prè-histoire a nos jours. La Dècouverte poche, 2016, pag. 142.[↩]
- Jean Suret-Canale. L’Afrique noire. L’ère coloniale, Les Éditions sociales, Paris, 1964.[↩]
- Rabin Al Zubayr Ibn Fadl Allah.[↩]
- Catherine Coquery-Vidrovič, Petite Histoire de l’Afrique. L’Afrique au Sud du Sahara de la prè-histoire a nos jours. La Dècouverte poche, 2016, pag. 149.[↩]
- Senza dimenticare la guerra del Mahdi che mise in ginocchio il Sudan anglo-egiziano.[↩]
- Nella battaglia del 1903 gli inglesi persero oltre 200 uomini e 9 ufficiali.[↩]
- È una scelta difficile, ma se c’è un popolo tra tutti questi che merita la palma d’oro del coraggio è quella del popolo degli Herero, il piccolo popolo della Namibia contro cui i tedeschi esercitarono una propensione nazionale allo sterminio. Fu lì che il generale Von Trotta istituì i campi di sterminio per la popolazione civile (1904-1908) vent’anni prima che la stessa idea fosse messa in pratica da Graziani in Libia.[↩]