Difendendo i primi operai socialisti in un processo politico, nel 1892 Giovanni Bovio provò invano a dar voce alle loro ragioni e ad ammonire le classi dirigenti; «Per carità di voi stessi, giudici, per quel pudore che è l’ultimo custode delle società umane, non fateci dubitare della Giustizia. Noi fummo nati al lavoro, non fate noi delinquenti e voi giudici!». I tribunali però li «fecero delinquenti» e Umberto I, che aveva premiato Bava Beccaris per le cannonate sul popolo inerme, pagò con la vita.
Tra Bruto e Cesare la storia non cerca colpevoli ma registra un dato: tirannia, leggi ingiuste e condizioni di vita disumane non combattono il crimine, ma armano la mano dell’uomo libero e alimentano la delinquenza. I legislatori, però, che si ostinano a considerare la pena come ritorsione e castigo, sembrano ignorarlo. Ne è la prova un libro di notevole spessore, che dichiara apertamente il suo intento sin dal titolo forte e provocatorio, intitolato Processo al carcere1. Curato da Aristide Donadio per il Centro Gandhi associazione per la nonviolenza e scritto da 12 nomi eccellenti tra quanti si occupano dell’universo carcerario, il saggio è una critica radicale al sistema carcerario, del tutto estraneo ai principi della nostra Costituzione, e a una Giustizia ben lontana dall’essere uguale per tutti. Un libro dai pregi indiscutibili che giustificano l’invito a leggerlo: evita il linguaggio specifico dei “tecnici”, è di facile, comprensibile, stringente attualità e induce a riflettere sullo stato di salute della nostra democrazia.
Mentre lo leggevo, mi è venuto più volte in mente il paragone tra la sorte dei torturatori di Bolzaneto e della Diaz, che dopo i fatti di Genova 2001 hanno evitato il carcere e sono tornati in servizio e la terribile pena toccata invece al giovane Francesco Puglisi, condannato a 14 anni di carcere per “devastazione e saccheggio” come prescrive il codice penale fascista, ereditato dalla Repubblica nata dalla guerra di liberazione e dall’antifascismo.
La verità è che sul terreno della giustizia, come su quello del carcere, ad essa strettamente legato, siamo fermi a Crispi che, accusato di aver calpestato lo Statuto Albertino, imponendo lo stato d’assedio in Sicilia, spiegò al Parlamento, che non reagì, il rapporto organico che legava e lega tra dissenso, repressione e legalità; un rapporto caratteristico nel nostro Paese in tutti i momenti della sua storia, soprattutto in quelle che solitamente definiamo “emergenze”. Eravamo nel lontano 1894 e l’ex mazziniano, passato dall’opposizione democratica ai monarchici e diventato più realista del re, non esitò ad affermare: “Ai miei avversari, che mi hanno accusato di aver violato lo Statuto e le leggi dello Stato, potrei rispondere che di fronte allo Statuto c’è una legge eterna, quella che impone di garantire l’esistenza delle nazioni; questa legge è nata prima dello Statuto”. Un principio eversivo che, di fatto, in Italia ha sempre ispirato il legislatore sui temi dell’ordine pubblico e del conflitto sociale e dimostra come, a voler leggere la nostra storia dal punto di vista delle classi subalterne, il capitolo giustizia può essere illuminante.
Nel 1862, all’alba dell’Italia unita, la legge Pica sul cosiddetto «brigantaggio», mezzo «eccezionale e temporaneo di difesa», prorogato però fino al 31 dicembre 1865, apre l’eterna stagione delle leggi speciali. Di lì a poco, in una riflessione affidata a un volantino sfuggito al sequestro, Luigi Felicò, un internazionalista che ha conosciuto la galera borbonica, non ha dubbi: con l’unità, la sorte del dissidente politico e più in generale del detenuto è terribilmente peggiorata.
Cultura della crisi, normativa emergenziale, indeterminatezza e strumentale confusione tra reato comune e reato politico, sono da allora i perni della gestione e della regolamentazione del conflitto sociale. Un’impostazione che non muta nemmeno nel gennaio 1890, col Codice Zanardelli. Per il giurista liberale, la legge penale e la sanzione non potevano essere in contrasto coi diritti dell’uomo e del cittadino e non si applicava al criminale per nascita, inventato da Lombroso. La repressione, quindi, doveva abbinarsi alla correzione e all’educazione. Di qui l’abolizione della pena capitale, la discrezionalità del giudice nella misura dell’effettiva colpevolezza del reo, la libertà condizionale. Zanardelli, però, non affida la tutela dello Stato nei momenti di crisi sociale al suo codice, ma a un “Testo unico” di Polizia, molto meno garantista e preoccupato della condizione del detenuto. Un “Testo unico” sostenuto da forti basi teoriche e strumenti efficaci ma pericolosi: reati come il vilipendio delle istituzioni, l’incitamento all’odio di classe e l’apologia di reato, diventano crimini di un’estrema indeterminatezza, imputati a chi esalta «un fatto che la legge prevede come delitto o incita alla disobbedienza […], ovvero all’odio tra le varie classi sociali in modo pericoloso per la pubblica tranquillità». La definizione volutamente vaga del reato offre agili strumenti repressivi e lo Stato, deciso a non dare risposte positive al malessere delle classi subalterne, può criminalizzare le lotte operaie, grazie a norme che sono contenitori vuoti, pronti ad accogliere le strumentali “narrazioni” di una polizia per cui anche il generico malcontento è pratica sovversiva.
Indeterminatezza, crisi e natura emergenziale della regola – un’emergenza spesso creata ad arte e più spesso figlia legittima dello sfruttamento – diventavano così dato storicamente caratterizzante di una giustizia fondata su una “legalità ingiusta”, sulla tutela di privilegi a danno dei diritti, mediante apparati normativi che consentono di tarare gli strumenti repressivi sulle necessità dei ceti dirigenti.
Dal 1890 al 1930, grazie al Codice Zanardelli, le norme per oltraggio, violenza e minaccia a pubblico ufficiale non si applicano, se il pubblico ufficiale ha causato la reazione abusando del suo potere. Il fascismo al potere sterilizza inizialmente le norme “scomode” introdotte da Zanardelli, finché nel 1930 si dà un «suo» codice firmato da Alfredo Rocco e destinato a sopravvivere al regime. La Repubblica, infatti, sacrifica al discutibile principio della continuità dello Stato – quale Stato? Quello fascista appena abbattuto? – l’iniziale intento di tornare a Zanardelli e conferma Rocco, molto più autoritario, ma “tecnicamente” più moderno. In attesa – si dice – di un nuovo codice che però non verrà. Tuttavia, il problema storico del diritto di resistenza è inizialmente presente nel disegno costituzionale. Il secondo comma dell’articolo 50, oggi 54, firmato da Dossetti, afferma, infatti, che «quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere dei cittadini».
Dopo le violenze di Crispi, la reazione del 1898, la «dittatura parlamentare» di Giolitti e il fascismo, il problema è così sentito, che i conservatori battono l’antifascismo «rosso» solo perché la DC vota con Repubblicani e liberali. In un’assemblea nata dalla Resistenza Orazio Condorelli potrà così mettere agli atti il suo no: «questo diritto di resistenza, che si manifesta attraverso insurrezioni, colpi di Stato, rivoluzioni, non è un diritto, ma la stessa realtà storica […]. Sono fatti logicamente anteriori al diritto». È significativo che uomini come Condorelli, internato dagli Alleati per la sua vicinanza al partito fascista, siano di lì a poco inseriti nel cuore della Repubblica antifascista e rendano vana persino la disobbedienza di un democristiano come Umberto Merlin che ricorderà San Tommaso, per il quale «il regime tirannico non è giusto, perché non è ordinato al bene comune ma al bene privato di colui che governa. Per tale ragione, il sovvertimento di questo regime non ha carattere di sedizione». Con i Patti del Laterano il Vaticano ha accolto il Codice Zanardelli, ma i cattolici ripudiano Tommaso e i liberali tradiscono se stessi. Spiegando il suo voto contrario, infatti, il liberale Colitto assolve inconsapevolmente i carcerieri di Pertini e Gramsci affermando che «qualunque sia il motivo da cui un cittadino possa essere indotto a disobbedire alla legge, legittimamente emanata, quel cittadino deve sempre essere considerato un ribelle e trattato come tale».
Alla fine il giurista Mortati chiarirà il senso del no: il dissenso non è sul merito del problema, ma sul metodo, perché egli spiega, «non è al principio che ci opponiamo, ma all’inserzione nella Costituzione di esso, e ciò perché a nostro avviso […] mancano nel congegno costituzionale i mezzi e le possibilità di accertare quando il cittadino eserciti una legittima ribellione al diritto e quando invece questa sia da ritenere illegittima». Il comma non passa, ma la Costituente, che senza la Resistenza non sarebbe nata, non ritiene, quindi, inammissibile il diritto a ribellarsi contro l’oppressione, una ribellione che rende concreto il principio della sovranità popolare, che il divieto di ricorrere alla resistenza quale ultimo mezzo per ristabilire la legalità violata svuoterebbe di contenuti reali.
Mancano studi seri sul prezzo che la Repubblica paga al principio della «continuità dello Stato», ma sappiamo che le conseguenze furono devastanti. Persino gli scienziati firmatari del Manifesto sulla razza conservano, infatti, cattedre e peso sociale. Gaetano Azzariti, presidente del Tribunale della razza, diventa Presidente della Corte Costituzionale, dove si è sistemato anche il camerata Luigi Oggioni, Procuratore Generale della Repubblica di Salò. Non va peggio a Carlo Aliney, autore della legislazione razziale e capogabinetto all’Ispettorato della razza, promosso Consigliere di Corte d’Appello, Procuratore della Repubblica e giudice di quella Cassazione, di cui è Procuratore Generale Vincenzo Eula, che ha condannato Pertini, Parri e Rosselli per l’espatrio di Turati.
Quanto alle forze dell’ordine, il capo dell’Ovra, Guido Leto, diventa direttore tecnico delle scuole di quella polizia, che conferma tutti i funzionari fascisti, anche Marcello Guida, carceriere di Pertini e Terracini a Ventotene. A Milano, nel 1969, è lui il Questore, quando la pista fascista per la strage di Piazza Fontana è ignorata e Pino Pinelli «suicidato». Perché stupirsi se, dopo la vergogna di Genova nel 2001, De Gennaro, capo della Polizia ai tempi della Diaz, è nominato sottosegretario di Stato con delega alla sicurezza e Spartaco Mortola, che a Genova guida la Digos, diventa Questore e comanda le cariche in Val di Susa?
Per cogliere fino in fondo il senso e il valore del libro curato da Donadio, non è male ricordare che dopo la guerra la magistratura, mai epurata, si copre di vergogna, avviando una persecuzione feroce contro i partigiani; il 30 giugno 1946, sette giorni dopo la sua emanazione, ha applicato l’amnistia Togliatti a 7.106 fascisti e 153 partigiani. Secondo dati approssimati per difetto, si giunge a 2.474 fermati, 2.189 arrestati e 1.007 condannati, ma è certo che, tra il 1948 e il 1950, 15.000 oppositori politici sono condannati a 7.598 anni di carcere. La media supera quella del ventennio fascista. Nel 1966, quando gli effetti del Codice Rocco, sopravvissuto al regime, si trasformano in 12.981 lavoratori e 2.078 lavoratrici «perseguitati politici» in età repubblicana, diventa chiaro che l’Italia non ha mai fatto i conti con il fascismo.
Le tradizioni della magistratura non sono certo una garanzia per l’applicazione concreta della funzione che la Costituzione affida al carcere. Se ci fossero dubbi, alcune recenti ricerche ci aiutano a capire come sono andate le cose. Da un po’, negli archivi degli ospedali psichiatrici giudiziari spuntano fascicoli di partigiani che vi furono sepolti per la loro «pericolosità sociale», una formula indefinita, utilizzata da Rocco per colpire gli esponenti del dissenso e i comportamenti incompatibili con il modello fascista. Sciaguratamente lasciato in vita, il Codice Rocco inchioda il controllo sociale al concetto di pericolosità e la giustizia penale è così securitaria e repressiva che, mentre la vita di una persona uccisa per omicidio colposo «vale» da 6 mesi a 5 anni di carcere – quante morti sul lavoro impunite! – il vetro di un bancomat, sfondato a calci in una manifestazione, diventa «devastazione e saccheggio», sicché, di fatto, siamo di fronte a un dato storicamente accertato: un bancomat vale ben più di una vita e deve indignarci, non meravigliarci se un ragazzo lo paga con 14 anni di galera e la sua fidanzata, che ha involontariamente condotto la Polizia al suo nascondiglio spagnolo, con la vita, che si è tolta per un senso di colpa che l’ha distrutta. L’obiettivo è chiaro, ma calpesta i principi della Costituzione: difendere le classi dominanti. Costi quel che costi, anche una mostruosa sproporzione tra pena e reato. La pena è sempre abnorme quando si tratta di una «persona socialmente pericolosa», anche se il reato non c’è e l’imputato non è tecnicamente colpevole: paga, perché è un intralcio per il potere, perché un sistema giuridico che utilizza basi pseudo-scientifiche, consente ogni discriminazione sociale, politica, etnica, culturale o religiosa e colpisce individui e gruppi incompatibili con il pensiero dominante. Il fascismo lo utilizzò come arma per colpire il dissenso, i governi neoliberisti, osserva Giuliano Balbi, puntano contro disoccupati, lavoratori ridotti a servi, emigranti, emarginati, senza tetto, prostitute di strada, autori di graffiti, lavavetri ai semafori, vagabondi, tossici e adolescenti delle periferie, prove viventi degli esiti disastrosi delle politiche di governi che producono soprattutto solitudine, povertà, esclusione e disperazione.
È grazie anche alla mancanza di un’esplicita accettazione della proposta di Dossetti se oggi comunque, in un clima di nuovo autoritarismo, si può tornare al reato di «devastazione e saccheggio» e spezzare così la vita di un giovane, senza che in Parlamento una voce denunci la natura classista dell’operazione e i «caratteri permanenti» che attraversano trasversalmente le età della nostra storia.
Su questo sfondo si inseriscono le più o meno lunghe fasi repressive – lo stato d’assedio nel 1894, le cannonate a mitraglia nel maggio ’98, la furia omicida in piazza durante i moti della Settimana Rossa, il fascismo, Avola, e, per giungere ai nostri giorni, Genova 2001. In questo quadro si spiegano l’indifferenza per la tortura, le impunite morti «di polizia» e i loro tragici connotati: Frezzi ammazzato di botte in una caserma di Pubblica Sicurezza, Acciarito torturato, Passannante ridotto alla pazzia, Bresci «suicidato» e il suo fascicolo sparito, Anteo Zamboni linciato dopo un oscuro attentato a Mussolini che consente di tornare alla pena di morte, e via via, Pinelli, Cucchi, Uva, Aldrovandi e i tanti sventurati che nessuno paga.
È bene dirlo chiaramente: il carcere e la pena, così come vengono fuori dal “processo” curato da Aristide Donadio, non sono figli di particolari momenti storici. Non sono patologia, ma fisiologia. Se nel 1894, per colpire il PSI, Crispi si «affida» all’esperienza di un prefetto per un processo che non lasci scampo – e il processo truccato si farà – la Repubblica cancella la verità con eterno segreto di Stato. In ogni tempo, indeterminatezza e discrezionalità della legge consentono di colpire il dissenso come e quando si vuole. In età liberale a domicilio coatto ti manda la Polizia, e nessuno controlla in che condizioni sei costretto a vivere, col fascismo il confino non è deciso dai magistrati e il “Daspo” che Maroni e la Cancellieri avrebbero voluto estendere al dissenso di piazza, è sanzione amministrativa. Quale criterio regoli da noi il rapporto legalità, tribunali e dissenso e automaticamente condizioni del detenuto, emerge da dati che non ci parlano di età liberal-fascista, ma repubblicana: dal 1948 al 1952, mentre nei grandi Paesi europei si contano in piazza da tre a sei morti, qui la polizia fa sessantacinque vittime. Nove furono poi i morti nel 1960, in due caddero ad Avola nel 1968 e si potrebbe proseguire. Nel 1968, quando una legge poté deciderlo, l’Italia scoprì che la Repubblica aveva avuto quindicimila perseguitati politici con pene carcerarie dure come quelle fasciste. Di lì a poco, all’ennesima emergenza – stavolta è il terrorismo – si replicò col fermo di Polizia, la discrezionalità della forza pubblica nell’uso delle armi e leggi sulla detenzione, nate per essere eccezionali, ma ancora vigenti, quasi a dimostrare che di eccezionale da noi c’è stata solo la stagione democratica nata con la Resistenza.
Così stando le cose, mentre una protesta di piazza costa a un giovane quattordici anni di galera e i «morti di Polizia» non li paga nessuno, una domanda è d’obbligo: perché si fanno carte false per archiviare la Costituzione antifascista e nessuno si preoccupa di cancellare il codice fascista?
Giuseppe Aragno
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