L’Italia è quel Paese in cui la solidarietà si processa, mentre coloro che traggono illeciti profitti dal traffico di esseri umani, come gli scafisti in divisa da Guardia costiera in Libia, vengono ben pagati dal 2017 dai nostri governi. Per essere più precisi, già dal 2015 l’arrivo, dai porti nord africani di migliaia di richiedenti asilo portò tanto nel centro destra che nel centro sinistra, in Italia come in Europa ad escogitare dispositivi sempre più macchinosi dove all’ultimo posto veniva la salvaguardia delle vite umane, al penultimo il rispetto dei diritti fondamentali e al primo la difesa dei “sacri confini”. Peraltro una bugia da propaganda perché di lavoratrici e lavoratori in nero e ricattabili ne avevano continuamente bisogno anche gli stessi che poi urlavano contro l’immigrazione incontrollata. Che l’invasione non esista e non sia nei fatti mai esistita se ne comincia a rendere conto anche la stampa reazionaria, ma negli anni, l’accanimento di alcune procure verso coloro che tentavano di soccorrere, tanto in mare come nelle rotte terrestri, le persone in fuga da guerre spesso provocate o foraggiate dagli stessi nostri Paesi, venivano bollate come rei di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. E se contro le ong di mare si scatenò una vera e propria guerra politica e mediatica, per impedire che esistesse in quel deserto chiamato Mediterraneo qualcuno in grado di soccorrere, altrettanto accanimento fu dedicato a coloro che accoglievano senza rispettare il business che derivava dal garantire un tetto, a chi tentava di soccorrere i respinti alle frontiere nord orientali e nord occidentali del Paese, a chi si limitava ad offrire un pasto caldo, segnalare un luogo di ricovero o offrire le informazioni necessarie per chiedere asilo. Se questi servizi li garantivano enti gestori spesso dai bilanci opachi non c’erano problemi, se lo faceva chi era animato da volontà di inclusione diveniva una grave colpa verso il Paese intero. In molte/i si sono ritrovati a ricevere fogli di via da Ventimiglia, dai confini alpini, dal confine con la Slovenia. Per molte/i sono partite indagini perché, nel clima d’odio imperante era inaccettabile che qualcuno si occupasse di chi cercava salvezza. Le vicende di Baobab Experience, a Roma, nei pressi della Stazione Tiburtina, sono in tal senso rilevatrici. La capitale d’Italia non riusciva a garantire cibo e posti letto a chi arrivava con l’intenzione di lasciare presto il nostro poco Belpaese mentre i volontari dell’associazione raccoglievano e distribuivano generi di prima necessità, pasti caldi, cure, servizi legali. Decine di migliaia di invisibili sono passati nel centro di Via Cupa durante questi anni. Certo si sarebbe dovuto provvedere ai loro bisogni in condizioni migliori, ma chi lo faceva se le istituzioni si mostravano latitanti? E per quale ragione poi ogni pretesto era buono per sgomberare il centro salvo poi averne bisogno e lasciarlo riaprire in attesa del prossimo intervento di polizia?
Il preambolo era necessario per far capire le ragioni di un processo come quello che si è concluso ieri e il significato che questo potrebbe avere (il condizionale è d’obbligo). Alla fine del 2016 la procura di Roma, coinvolgendone altre fino a richiamare l’attenzione della Direzione Distrettuale Antimafia, aprì un filone di indagine su Andrea Costa, presidente di Baobab Experience e su altre due attiviste, una delle quali non legata al Baobab ma iscritta a Rifondazione Comunista. Si volevano trovare gli elementi di un piano criminoso attraverso cui si sosteneva il traffico di esseri umani. La Dia ben presto si disinteressò di tale indagine che, a differenza di quanto accaduto finora per vicende che avevano i solidali come protagonisti, continuò invece per le procure interessate. Vennero eseguite per i 3 accusati intercettazioni telefoniche e ambientali, si seguirono i tracciamenti bancari, scoprendo che il presidente di Baobab aveva un conto in rosso di euro 9,60, si cercò di dimostrare in ogni modo che i tre avevano concorso in un reato gravissimo, punibile con una pena fino ai 18 anni di carcere. Omicidio? Rapina a mano armata? Violenza sessuale? Niente affatto, i 3 avevano, come tranquillamente ammesso, raccolto i soldi per pagare i biglietti di un treno che da Roma avrebbe portato 8 cittadini sudanesi e uno del Ciad al campo di accoglienza della Croce Rossa sito a Ventimiglia. Il viaggio era dovuto al fatto che i 9 non volevano restare a dormire in strada e sapevano che a Ventimiglia, che ricordiamo a chi ha imbastito il processo, fa parte dello stesso Stato italiano (non sono neanche stati aiutati ad entrare illegalmente), avrebbero trovato migliori condizioni di vita. Ebbene per costoro si ipotizzava il reato di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, come ha avuto modo di dichiarare il primo degli imputati che si è esposto pubblicamente, Andrea Costa, “un vero e proprio processo politico”. Ci sono state due udienze, fatte sembra in maniera molto sbrigativa e, cosa che non sempre accade nei nostri tribunali, 15 giorni fa era stata fissata la data per la sentenza: il 3 maggio 2022, nel tribunale di Piazzale Clodio. Il processo ha acquisito risalto dopo una conferenza stampa che si è tenuta alla Sala della Stampa Estera, dove tanto i legali degli imputati quanto esperti nel settore hanno potuto dimostrare l’insussistenza di qualsiasi ipotesi di reato, anche seguendo i dettami delle leggi xenofobe che ci governano.
Ma la preoccupazione era alta, al punto che la mattina del giorno della sentenza, alcune centinaia di attiviste/i, richiedenti asilo e rifugiati, si sono radunati davanti al tribunale in trepidante attesa. L’udienza, iniziata anche in ritardo di un’ora circa in cui chi era in piazza discuteva animatamente della assoluta assenza di valore giuridico delle accuse ma collettivamente rifletteva anche su quanto, il proliferare in Italia e in Europa di normative di legge di dubbia costituzionalità ed evidentemente contrarie anche a quanto resta del diritto internazionale, avessero sdoganato qualsiasi tipo di interpretazione del codice penale. E quando, poco dopo le 13,30, sono giunti i primi messaggi WhatsApp con cui si annunciava la piena assoluzione degli imputati, l’argine si è rotto ed è partito un lungo, interminabile potente e commosso applauso. Ma ha lasciato ancor più sbigottiti il fatto che a dichiarare che “il fatto non sussiste”, facendo quindi decadere tutte le accuse, sia stato il Gup, il Pubblico Ministero, che in tribunale dovrebbe sostenere le ragioni dell’accusa. Pochi minuti dopo, i due fra i 3 imputati che avevano scelto di presenziare, sono usciti dal tribunale e accolti da un abbraccio collettivo e forte, di quelli che danno il senso ad un’attesa tanto tormentata. Andrea Costa, intervistato poco dopo, dichiarava serenamente che “quei biglietti li avrebbe ricomprati il giorno stesso se ci fosse stata l’esigenza di farlo” e che per lui, tornato da poco da una missione di soccorso in Ucraina per cui non ha incontrato ostacoli, “non esistono rifugiati da accogliere o da respingere, esiste un dovere etico e morale più importante di quelli che dominano oggi”. La giovane di Rifondazione Comunista, ora il nome si può fare, si chiama Sara Zuffardi e di lei vanno orgogliosi tanto i genitori quanto l’intero partito, dopo un momento di sollievo per la soluzione del processo, si è immediatamente rimessa al lavoro. Lei segue molto le vicende sudanesi e coloro che rimasti in Italia fanno parte di una diaspora e si battono per il ripristino delle libertà democratiche nel loro paese. Quindi il primo atto da cittadina assolta è stato quello di cercare di fare in modo che esperienze politiche italiane e questa diaspora trovassero un ulteriore momento di contatto e di confronto.
Queste sono le persone che per una lunga inchiesta pagata dalla collettività andavano condotte in carcere come i peggiori fra i criminali.
Al di là della nuda cronaca la sentenza offre spazi di riflessione. Impossibile comprendere se possa essere considerata una svolta, tanto è lo smacco per chi ha fatto di tutto per giungere a processo. Certo è che diviene difficile fare discriminazioni, in un contesto in cui arrivano circa un migliaio di persone al giorno, in fuga dall’Ucraina invasa, per cui giustamente è stata attuata una direttiva europea finora mai applicata (la 55 del 2001) e con una macchina del ministero dell’Interno, lenta, obsoleta e in cui il sistema di accoglienza è devastato. È difficile, anche i falchi leghisti e di FdI sembrano tacere momentaneamente, dire che i “bianchi ucraini” sono ben accetti mentre chi ha un colore della pelle o dei tratti somatici diversi deve essere respinto. Ed è ancora più complicato trattare da eroe chi raggiunge e porta in Italia donne e bambini dalle zone bombardate nel cuore d’Europa e da delinquente chi lo fa dal Mediterraneo o chi assicura un tetto nel cuore della capitale. Anche perché spesso (sta accadendo con Mediterranea Saving Humans) le organizzazioni, le persone, l’impegno è identico e con la stessa carica. Questa sentenza potrebbe anche essere utilizzata come leva per far comprendere, anche a chi maggiormente ignora quanto gli accade intorno, una cosa molto semplice. Se la direttiva applicata per gli ucraini venisse estesa a tutte le aree di conflitto (si tenga conto che nei paesi ricchi giungono il 14% dei migranti forzati), non ci sarebbero invasioni o sostituzioni etniche come cianciano i complottisti. Il diritto a migrare diventerebbe, come afferma uno dei più illustri costituzionalisti, Luigi Ferrajoli, un “potere costituente”. E chissà che in questa necessaria utopia, un approccio del genere possa nascondere il fulcro di quel bisogno generale che attraversa ogni frontiera? Un bisogno semplice, di poche parole: pace, libertà, dignità. In un orrendo clima di guerra è giusto dire che la sentenza di Roma è in fondo un barlume di pace, l’embrione di un “cessate il fuoco” nella guerra contro chi fugge. Piccola metafora di come potrebbero cambiare le cose nel Paese e non solo.
Stefano Galieni
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Mi sono sempre rivolta verso chi ha bisogno,verso un essere umano che aspetta di essere capito,considerato e accolto.
C’è chi sfrutta è vero…..ma certamente è molto differente da chi accoglie… o deve portare un distintivo per qualificarsi?