Il titolo che ho dato a questo articolo è talmente vasto che avrei forse potuto sostituirlo con la celebre e ironica formula gramsciana dei “brevi cenni sull’universo”. Saranno effettivamente brevi cenni, ma ruotano attorno un problema la cui enunciazione, a differenza della soluzione, è piuttosto semplice: come si può costruire in Italia uno strumento politico che corrisponda ai bisogni e ai valori di alcuni milioni di persone che potenzialmente non si riconoscono nelle attuali offerte politiche? Bisogni e valori che si collochino dentro una visione critica e alternativa al capitalismo neoliberista, ovvero il paradigma dominante degli ultimi quarant’anni? E siano anche alternativi a quella che oggi si presenta come l’unica risposta capace di conquistare consenso, all’interno dello stesso paradigma, ovvero le varie forme di nazionalismo. Quest’ultimo risponde alla indubbia crisi di egemonia del neoliberismo proponendo un ripiegamento su una difesa di interessi comunitari, siano essi espressi in forma etnica, religiosa o anche solo come affermazione di potenza imperiale e di blocco geopolitico (nel caso degli Usa di Biden).
Posto il problema, ritengo si debba assumere anche una premessa di ordine generale e in una qualche misura preliminare al tentativo di trovare delle risposte. Credo che un “terzo campo” tra quello delle forze politiche che si sono riconosciute in forme diverse ma non alternative di applicazione del paradigma neoliberista (centro-sinistra e centro-destra) e nelle varie destre etno-nazionaliste, abbia bisogno di riuscire a formulare una “grande narrazione”, quello che secondo i filosofi del post-modernismo non era più necessario né possibile.
In realtà sia neoliberismo che nazionalismo sono due “grandi narrazioni” che si propongono, seppure in modo più frammentato e meno coerente delle “grandi narrazioni” del novecento, contemporaneamente come chiavi per l’analisi dello stato del mondo che come strumento per la soluzione delle sue contraddizioni. Inoltre trovano un fondamento anche in una visione dell’antropologia umana che non è facilmente scalzabile. Sia essa quella dell’individualismo proprietario che quella dell’identificazione in un “noi” ben definito e contrapposto ad un “loro” visto come in essenza altro e ostile. Due forme di visione competitiva della società, sia essa su base sostanzialmente individuale sia essa sulla base di una comunità etnica. Le due “grandi narrazioni”, e lo si vede se si esamina il substrato ideologico oltre che l’azione politica di Fratelli d’Italia, sono comunque, anche se non senza contraddizioni, tra loro combinabili. A fianco di queste si possono collocare altre “grandi narrazioni” minori come quella complottista che anch’essa combina capacità di lettura del mondo, proposta di soluzione delle contraddizioni, risposta a bisogni antropologici. Che poi essa sia basata fondamentalmente su una “dissonanza cognitiva” non ne determina necessariamente l’inefficacia nella costruzione di un consenso.
Ora se si pone il problema e l’esigenza di una “grande narrazione” alternativa a quelle sopra richiamate, questa richiede di provare a rispondere ad alcune questioni fondamentali. Risposte che non mancano nel campo della sinistra alternativa. Anzi semmai sono fin troppe, ma tra loro spesso incoerenti, contradditorie, parziali o incapaci di esercitare una vera contro-egemonia nella società.
Per costruire una visione relativamente coerente, senza però che questo si traduca in una costruzione dogmatica o puramente intellettuale, occorre forse esaminare alcuni temi che spesso vengono aggirati nel dibattito pubblico a sinistra. Questa assenza non sembra nemmeno aiutare a trovare una azione politica condivisa e soprattutto non riesce a far uscire i vari progetti politici dalle rispettive nicchie sociali nelle quali si sono trovati rinchiusi.
Ecco quindi che emergono le tre parole chiave, che indicano altrettante questioni complesse, indicate nel titolo: potere, classe, sviluppo.
Nell’intervista con Transform! Italia, Fausto Bertinotti sollevava il tema della “forza”, che è in fondo, credo, un altro modo di porre la questione del “potere”. Qualsiasi manuale di sociologia politica pone il “potere” come l’oggetto, il contenuto proprio dell’azione politica. Anche se poi che cosa e come si eserciti il potere resta tema per tanti aspetti sfuggente e sul quale si esercitano le diverse tradizioni teoriche. Ma il punto fondamentale è che senza una concezione del potere non c’è politica.
Il movimento operaio ha affrontato nel corso di una lunga e complessa storia il tema sia dal punto di vista teorico che da quello pratico almeno a partire dalla rottura fra marxisti e anarchici all’interno della Prima Internazionale. Le varie correnti nelle quali si è diviso e contrapposto il movimento nel corso dei decenni ha dato risposte diverse a quello che risultava essere però un obbiettivo comune: la conquista del potere.
Le stesse vicende storiche, sia nell’esperienza socialdemocratica e riformista, sia in quella comunista e in particolare stalinista, hanno dimostrato come una certa idea del potere potesse tradursi, da un lato, in un adattamento subalterno a quella società che si voleva cambiare, nell’altra a costituire un potere che si autolegittimava in nome del processo storico e diventa oppressivo nei confronti delle persone i cui bisogni e valori venivano ad esso totalmente subordinati.
La cesura determinata dal crollo dell’Urss e del blocco socialista, come l’emergere di nuovi movimenti e nuove aspirazioni sociali, implicanti un più deciso riconoscimento di un nucleo irriducibile di valori individuali ha anche messo in crisi la stessa idea della “conquista del potere”. Certamente si è realizzata una comprensione più articolata dell’idea del “potere”, inteso non più come una “cosa” di cui ci dovesse appropriare (ma lo stesso Marx diceva del “capitale”), quanto un insieme complesso di relazioni sociali, le cui contraddizioni non sono tutte risolvibile con l’insediamento nel potere politico.
Si è anche avanzata l’ipotesi che ormai si dovesse “fare la rivoluzione senza prendere il potere”, a partire da una rielaborazione teorica dell’esperienza zapatista. Una formulazione che ipotizzava la possibilità di costruire un cambiamento sociale radicale “dal basso”, attraverso un insieme di strutture di movimento, di insediamenti comunitari, di contropoteri. Benché non priva di suggerimenti e intuizioni valide, mi pare che questa opzione abbia anche dimostrato i suoi limiti, teorici e pratici. Così anche per quelle interpretazioni dei forum sociali, all’interno del “movimento per una giustizia globale” (definizione più corretta di quella di “no-global”), come alternativi e in parte ostili alle forze politiche. L’America latina è stata l’area geografica che ha prodotto delle alternative al neo-liberismo anche grazie alla relazione e interconnessione tra movimenti sociali e forze politiche, piuttosto che alla loro contrapposizione.
Il tema del potere, inteso come capacità di mutare i rapporti di forza sociali tra coloro che ne hanno molto e coloro che ne hanno poco a favore di quest’ultimi, resta quindi un elemento fondamentale di qualsiasi soggetto politico. Per la sinistra radicale in Italia il problema, mi sembra, non è solo quello di avere oggi poco potere, ma di non porsi nemmeno il tema, il che viene percepito a livello di massa come quello di una sua sostanziale inutilità. Esiste uno scarto evidente e crescente tra gli obbiettivi che ci si pongono e la forza di cui si dispone per realizzarli, almeno in parte. Questo problema, anziché essere affrontato attraverso una discussione sui due anelli mancanti, ovvero una strategia per il potere e la definizione di uno strumento politico ad essa adeguato, viene risolta tendenzialmente nell’estendere e radicalizzare i fini che ci si propone di ottenere, o nel ritenere che questi possano essere risolti unicamente, o principalmente, nell’ambito dei conflitti sociali. Senza che questi necessitino per svilupparsi e anche per mutare stabilmente il contesto sociale in cui operano, anche di un livello adeguato di rappresentanza politica.
Diceva Rosa Luxemburg che chi vuole il fine deve volere anche il mezzo. Noi abbiamo molti fini e pochi mezzi, ma anziché cercare di risolvere questa distanza, che a mio parere è perfettamente percepita nel senso comune anche da chi sarebbe disposto a condividere e sottoscrivere i fini che ci proponiamo ma coglie la nostra totale inadeguatezza nel rapportare fini e mezzi, tendiamo in realtà ad accentuarla.
Per quanto riguarda il dibattito sulla definizione dello “strumento politico” vedo profilarsi due rischi. Il primo più semplice è la tendenza a riproporre una qualche modello preso dal passato, pensando che sia possibile risuscitarlo (compresi tra quelli che anche nel passato avevano sofferto di clamorosi insuccessi). Il secondo, più sostanziale, è di rispondere alla domanda definendo il tipo di strumento politico che servirebbe a “noi”. Dove il “noi” indica oggi un quadro di militanti attivi calcolabili in 10-15.000 persone (e mi pare già ottimistico) con un’area di influenza elettorale di 4-500.000 votanti. E quindi di pensare che ciò che piace a “noi” (che per altro siamo anche divisi in un discreto numero di progetti politici alternativi fra loro) debba piacere anche ad una parte significativa di società che invece oggi ritiene sostanzialmente inutile (quando non dannoso) il genere di strumento politico a cui noi aspiriamo. Che poi spesso è solo una versione idealizzata di ciò che c’è già.
Anziché porsi il problema, evidentemente complesso e che quindi richiede risposte nuove, di quale “domanda politica”, presente o latente nella società, abbia bisogno di esprimersi in una nuova “offerta politica” diversa da quelle già esistenti, si tende a pensare che prima o poi troveremo un “mercato” per la stessa offerta politica che stiamo proponendo da anni, magari con qualche modesta operazione di “re-packaging”.
Potere-strategia-strumento politico sono i tre elementi fondamentali, tra loro strettamente intrecciati, a cui bisogna provare a dare una risposta che si misuri con i risultati ottenuti negli ultimi anni e che sia anche comprensibile a livello di massa.
Il tema “classe”, secondo termine che ho citato, pone un altro tipo di problema al quale occorre tentare di dare una risposta. Avevo già indicato in precedenti occasioni come nel dibattito teorico e nell’azione politica delle forze di sinistra si ponessero diversi modi di individuare la natura del soggetto politico alternativo. Schematizzando realtà che sono evidentemente più complesse e tra loro mescolate individuavo tre formule: il partito (intendendo strumento politico) arcobaleno, composizione di diverse identità sociali e politiche che restano tali e che formano un’alleanza tra loro; il partito populista di sinistra, la cui teorizzazione (Laclau-Mouffe) si basa sulla scomparsa come base dell’agire politico dell’identità di classe e sulla centralità della divisione amico/nemico; il partito di classe, ovviamente tenendo conto dei mutamenti profondi avvenuti nella articolazione delle “classi lavoratrici” negli ultimi decenni. A queste tre visioni del soggetto del cambiamento sociale si potrebbe aggiungere anche quello della “comunità”, presente in alcune elaborazioni della sinistra in America Latina (soprattutto nei Paesi con una forte e attiva presenza di movimenti indigeni) o in forma diversa in alcune posizioni della sinistra tedesca (ad es. Wagenknecht).
Così come non esiste un modello puro, non risulta praticabile una strategia che si basi su una accentuazione unilaterale di uno di questi aspetti. Sembra però utile individuare quantomeno un’asse centrale attorno a cui costruire una proposta strategica. Sapendo che la scelta di uno o l’altro prevalente determina una diversa gerarchia degli obbiettivi programmatici, forme differenti di organizzazione e anche diverse modalità comunicative.
L’assunzione di un modello prevalente può consentire anche di determinare i criteri di valutazione analitica della composizione della società. Chi può essere parte di questa coalizione sociale, a partire da quali bisogni, da quali orientamenti valoriale, da quale immaginario sociale. Questo consentirebbe forse di uscire da una comunicazione che si rivolge indistintamente a tutti, che poi date le forze reali in campo e la capacità di incidenza sull’agenda politica, significa non rivolgersi a nessuno. Se non a quegli stessi che emettono il messaggio.
Procedendo sempre per brutale semplificazione di temi molto complessi, ma che alla fine debbono tradursi in un insieme essenziali di concetti comprensibili a chiunque, passo alla terza parola chiave, in quella che a mio parere, deve essere la ricostruzione di una “grande narrazione”. Riprendo il termine “sviluppo” avendo presente un dibattito ormai abbastanza lontano nel tempo che riguardava il cosiddetto “modello di sviluppo”.
Si trattava allora (direi attorno all’inizio degli anni ’60) di uscire da una visione eccessivamente stagnazionista del capitalismo, cogliendone la capacità non solo di crescita economica ma anche di miglioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne. Un miglioramento che aveva anche la funzione di integrare parte del movimento operaio all’interno del blocco sociale dominante. A fronte di questa capacità del capitalismo di produrre “sviluppo” e non solo “accumulazione”, occorreva proporre una visione alternativa dello “sviluppo”.
Questo termine è stato oggetto di critiche, in parte fondate in parte eccessive, a partire dall’assunzione, pienamente giustificata, delle tematiche ambientaliste. Un insieme di contraddizioni che si sono ulteriormente inasprite al punto da mettere in discussione le stesse condizioni di esistenza dell’umanità. Si è quindi prodotta una critica allo “sviluppismo” senza che sia del tutto chiaro se questo vada inteso come sua deformazione negativa o definisca l’essenza stessa dell’idea. Una critica che si accompagna anche a quella rivolta all’idea di “progresso” e con essa a quella di “ragione”. Una rimessa in discussione fondamentale quindi di quelle che sono considerate le radici “illuministiche” del movimento operaio e della sua conseguente visione “universalistica”. Tema sul quale, ad esempio, in Francia si è aperto un certo dibattito di un qualche interesse.
Sembra evidente che oggi il capitalismo neoliberista unisca una grande capacità di “accumulazione” e una sempre più scarsa capacità di “sviluppo”. In termini aneddotici, si può esemplificare questa differenza con la recente informazione fornita da un giornale francese su una grande Banca di quel paese che contemporaneamente annunciava brillantissimi profitti e centinaia di licenziamenti.
Questa capacità del capitale di “accumulare” ricchezza implica che oggi si sia in una condizione di “abbondanza” e pertanto che il centro del conflitto sociale debba essere di tipo redistributivo? E’ possibile, ma naturalmente una simile impostazione dovrebbe indirizzare verso una strategia politica classicamente socialdemocratica (Olaf Palme diceva: “se vuoi tosare la pecora, bisogna che la pecora sia in buona salute). Ad essa è a volte collegata l’idea che non ci sia più relazione tra lavoro e produzione della ricchezza, sulla base dell’idea (di derivazione “biopolitica”) secondo il quale il capitalismo ha ormai trovato il sistema di mettere a valore qualsiasi attività umana, senza bisogno che questa si traduca in una forma di lavoro salariato attivo e subalterno.
Naturalmente questi approcci teorici non sono la base per un dibattito accademico e ormai secolare sull’adeguatezza della teoria del valore-lavoro di Marx, quanto una concreta linea guida dalla quale discendono una diversa definizione della composizione della coalizione sociale trasformatrice e anche delle sue priorità politiche.
Altre posizioni ritengono che essendo ormai lo sviluppo indissolubilmente legato alla distruzione del contesto ambientale nel quale l’uomo vive, l’unica opzione valida sia quella di una qualche forma di decrescita.
Lasciando per il momento da parte il tema più generale di quale visione di società si debba far portatrice una sinistra alternativa e radicale che si ponga come obbiettivo la conquista della rappresentanza politica (e quindi anche istituzionale) della maggioranza sociale e di come questa si debba definire (comunismo, socialismo, ecosocialismo, socialismo del XXI° secolo, società del Buen Vivir e così via) resta la necessità di definire una proposta politica che risponda alla concreta definizione e individuazione delle contraddizioni del capitalismo nel quale operiamo. Quindi italiano, intrecciato a quello europeo e con un proprio ruolo nel contesto globale.
Occorre solo misurarsi con il tema della distribuzione della ricchezza o anche con le modalità della sua produzione? Esiste un problema di abbondanza o di stagnazione del capitalismo italiano, prodottasi nell’arco di un trentennio? La produzione della ricchezza è ancora legata al lavoro e quindi misure come il reddito di base sono forme di solidarietà e di redistribuzione della ricchezza da chi lavora a chi non lavora, oppure la giusta retribuzione della ricchezza prodotta anche da chi non lavora per il solo fatto di essere vivente, oppure il lavoro resta elemento di produzione della ricchezza sociale ed anche di identità?
Come si è visto, se il problema posto all’inizio era, in fondo, piuttosto semplice, le risposte che si dovrebbero dare sono piuttosto complicate. Si potrebbe anche teorizzare che è inutile cercare di rispondere teoricamente a questi quesiti e che l’unica risposta consiste nell’affidarsi all’azione politica quotidiana sperando che prima o poi una qualche soluzione arrivi spontaneamente. Nel qual caso l’unico consiglio che posso darvi è di non leggere questo articolo.
Franco Ferrari