La pandemia Covd-19 indotta dal virus Sars-Cov-2, ci ha reso partecipi, ci ha immersi in in dinamiche di globali di trasmissioni globali e ci ha ridotti per un lungo periodo nello spazio privato delle nostre case, sollecitando un attenzione ossessiva alle relazioni interpersonali, alla misura delle distanze da persona a persona. Il governo della salute pubblica e personale ha introdotto vincoli e procedure nello spazio globale e privato. In realtà gli spazi normativi sono stati e sono ancora assai differenziati da paese a paese, da territorio a territorio e si differenziano molto in funzione dell’organizzazione del lavoro e della produzione e dei flussi della forza lavoro, come dimostrano il caso dei macelli in Germania e nella bassa padana. Mentre si rimettono in quarantena territori particolari come in Spagna – Catalogna e Andalusia- o in Australia a Melbourne. In Italia è aperta la caccia a mini e micro focolai di infezione.
Dall’analisi delle modalità di contagio da persona a persona, fondata sulle caratteristiche del virus, ala costruzione di modelli epidemiologici che ne descrivono la diffusione, si va costruendo una pappa multidimensionale, che attraversa tutte le scale da quella del patrimonio genetico virale ai flussi globali delle persone e delle merci.
La descrizione della società iper-informatizzata in cui viviamo perennemente agganciati ad una qualche rete virtuale, a cui affidiamo sentimenti, relazioni e comportamenti -in cambio di un accesso eterodiretto all’informazione ed a spazi virtuali di relazione- ci aveva già fatto prendere in considerazioni mappe analoghe del nostro vivere sociale ed individuale. Non a caso nella modellistica di fenomeni di diffusione in sistemi di rete, si sono colte analogie tra diffusione di memi nelle reti sociali e di agenti patogeni nelle popolazioni.
L’intreccio di reti pandemiche e reti telematiche, di spazi di vita materiali e virtuali si è manifestato nell’uso delle relazioni virtuali, tramite connessione più o meno agevole alla rete, per mantenere relazioni interpersonali, di lavoro e apprendimento ( in gran parte dei casi molto ‘tele’ e poco ‘smart’).
In questa spazio molto normato – assieme mobile e gerarchizzato- che si proietta dall’individuo alla totalità del mondo, che fine ha fatto quello spazio alla vita, alla riproduzione sociale che chiamiamo territorio?
Lo scontro tra le esigenze, i caratteri dei territori – più o meno estesi- ed i processi della globalizzazione è stato uno dei caratteri fondanti dei conflitti sociali all’epoca della globalizzazione, appunto. Sul piano economico e sociale, culturale ed ecologico, dove la dialettica tra chiusura ed apertura delle relazioni, tra identità e trasformazione, tra delega ed autodeterminazione -in buona sostanza tra riduzionismo ed accettazione della complessità del mondo- ha prodotto le diverse culture politiche di questi anni, con le diverse varianti di ciò che è stato definito come populismo e le nuove forme di partecipazione democratica e popolare che legano la giustizia sociale alla difesa dell’ambiente.
La struttura dello spazio sociale e di riproduzione, su scala globale ha conosciuto la crescita esponenziale del processo di urbanizzazione, di abbandono delle campagne, con la creazione di megalopoli di decine di milioni di abitanti, con fenomeni anche inversi di decongestionamento di aree urbane nei paesi di più antica industrializzazione. In Italia la dimensione territoriale, che spesso non rispetta la partizione amministrativa, costituisce un carattere fondante della formazione sociale del paese, con profondissime radici storiche e incidenza sul modello di sviluppo. Parliamo del famoso modello di organizzazione delle filiere produttive per distretti territoriali con la messa in rete piccole e medie unità produttive e la valorizzazione del modello di relazione familiare, culturale e sociale del territorio. Modello che si è profondamente ristrutturato, producendo un maggiore grado di concentrazione con le crisi del secolo corrente e molto probabilmente subirà, sta subendo, nuovi colpi con la recessione indotta dalla pandemia.
Negli ultimi 20 anni -tanto per dare una periodizzazione di riferimento, ma si risale anche molto all’indietro- i territori, una parte rilevante delle popolazioni che li abitano, sono stati protagonisti di lotte, mobilitazioni er la difesa della salute e dell’ambiente, contro gli effetti devastanti prodotti tanto dai passati processi di industrializzazione, urbanizzazione e realizzazione di infrastrutture, quanto da nuovi insediamenti che riproducono logiche di devastazione degli equilibri ecologici e della salute pubblica. In queste mobilitazioni è cresciuta una rete molto interconnessa di attivisti, di associazioni e comitati che ha prodotto una diffusione e condivisione di conoscenze nelle comunità in cui i soggetti organizzati operano. Protagonisti di questa crescita organizzativa e culturale sono stati anche i tanti ‘esperti’ presenti nei centri accademici e di ricerca come negli organi di controllo che hanno messo a disposizione in modo continuativo le proprie competenze, il proprio patrimonio di conoscenze ed i propri strumenti di analisi.
E’ stato un processo durato anni, talvolta decenni, diverso dalla reazione alle drammatiche carenze del sistema sanitario di prevenzione e cura della pandemia, che ha rivelato in poche settimane carenze che si erano accumulate nei decenni precedenti. Carenze erano già state evidenziate dalle lotte in difesa della salute contro i fenomeni di contaminazione delle matrici ambientali. La differenza è che gli effetti drammatici sulla salute da parte dei fenomeni di inquinamento si distribuiscono lungo il corso della vita delle persone, non sono evidenti e spesso esistono cause concorrenti e l’intreccio di diverse patologie. Aggiungiamo l’azione di quei centri di potere economico che da sempre cercano di mascherare a proprio vantaggio i danni alla salute e all’ambiente, con la complicità di parti politiche. Il prodotto delle lotte è stata anche la progressiva modifica della legislazione ambientale-
Possiamo dire che la rete in difesa dell’ambiente e della salute ha mostrato una capacità di connettersi e strutturarsi ben maggiore delle organizzazioni dei lavoratori, nonostante la ben più lunga tradizione e diffusione, molti sono stati gli incontro, ma anche gli scontri, tra organizzazioni ambientaliste e organizzazione sindacali, dove le prime vittime dei fenomeni di inquinamento sono sempre i lavoratori.
Nel confronto tra dimensione territoriale e processi di globalizzazione, legati all’innovazione tecnologica, all’intreccio tra le reti finanziarie e quelle dell’informazione, le lotte in difesa di salute e ambiente si sono dovute sperimentare su problematiche non semplicemente locali, ma su sulla complessità dei processi tecnologici e produttivi, dell’azione degli agenti inquinanti sulle forme di vita, con la complessità della crisi dei sistemi ecologici e del clima, confrontandosi quindi con la storia e le frontiere dello sviluppo capitalistico. Per fare queste il coordinamento operativo e la condivisione delle conoscenze ha dovuto superare la ristrettezza dei confini nazionali.
Si impone nella pratica e nella riflessione una ricomposizione del patrimonio di conoscenze e di organizzazione che si stanno producendo dall’esperienza della pandemia, dove si riflette sulla origine degli agenti patogeni legato ai fenomeni di zoonosi, provocati dalla devastazione degli habitat e dei gli equilibri eclogci, sulla diffusione e sugli effetti della malattia in funzione delle condizioni di vita delle popolazioni e dei soggetti colpiti- con l’esperienza delle lotte sull’inquinamento di vaste porzioni dei territori, con il movimento globale contro le cause del riscaldamento globale e del cambiamento climatico conseguente.
Sembra persino banale citare il vecchio motto agire localmente e pensare globalmente, laddove in realtà si sta producendo da tempo anche un agire globale. In questa riflessione cerchiamo di dimostrare, in modo stringato, come nelle lotte in difesa di ambiente e salute si stia producendo una cultura all’altezza della sfida rappresentata dalla straordinaria capacità di innovazione tecnologica del sistema capitalistico; una cultura che misurandosi con lo stato dell’arte della trasformazione – della transizione dovremmo dire- a cui è sottoposto il sistema in cui viviamo- è cultura non solo della critica, ma anche del progetto, di un progetto di cambiamento radicale del sistema in cui viviamo. Una cultura carica di quella passione che alimenta quotidianamente una crescita culturale e organizzativa delle reti, capace di rompere gli steccati storici delle forme di organizzazione tradizionali, ereditate dal secolo scorso.
Emerge, a questo punto del ragionamento, in modo evidente la contraddizione con le forme della politica a livello locale, nazionale, per quanto riguarda l’Italia in particolare ed europeo. Si sono prodotte in questi anni forme più o meno estese e durature di ‘coalizione sociale’ di reti organizzate di comitati e associazioni locali, portatrici di obiettivi e programmi, con la capacità anche di intervenire sul piano legislativo a livello regionale o nazionale, come su quello amministrativo nei processi di approvazione di piccole e grandi opere. Sul piano legislativo è sempre una fatica di Sisifo come dimostra la vicenda della legge di iniziativa popolare ed il referendum sull’acqua.
Sul piano della soggettività politica il panorama italiano è semplicemente desolante, tuttavia nell’esperienza di chi scrive, dai movimento non global, dei social forum di inizio secolo sino ai movimenti territoriali di questi ultimi anni, la separazione dalla politica di questi movimenti è sempre stata rivendicata, giustamente potremmo dire, rivendicando la volontà di influire sull’agire politico ed istituzionale tramite le lotte, tuttavia nella assenza più totale di luoghi dove quella capacità di mobilitazione ed organizzazione, di raccolta di consenso, di creazione di opinioni condivise si traducesse in una progettualità politica. Per fare questo è necessario legare l’azione rivendicativa, locale e nazionale, alla creazione di forme stabili di partecipazione e controllo delle decisioni degli organi politici ed amministrativi, la produzione di una cultura delle istituzioni, della loro trasformazione necessaria. Le alternative e le semplificazioni di questi anni le abbiamo conosciute ed è persino inutile citarle in questo contesto.
I movimenti di inizio secolo hanno prodotto l’idea ed hanno anche strutturato l’idea di una democrazia partecipativa, deliberativa, di una democrazia ‘chilometro zero’, dove la metafora riconduce alla necessità di strutturare e rafforzare le radici del processo democratico, di ritornare ad esse.
Progetti, riflessioni e modelli che di volta in volta sono stati veicolati da movimenti su scala nazionale e sovranazionale. Un cammino che dobbiamo riprendere, riconnettendo un tessuto di esperienze, pratiche e conoscenze che non certo andato perduto, ma si è più volte disperso. La vicenda ultima delle elezioni francesi, sia pure con una partecipazione minoritaria che qualcun ha definito militante, ci sembra fornire una qualche speranza. Il ragionamento deve farsi ora più concreto e condiviso.