articoli, recensioni

Palestina Israele. Parole di donne

di Nicoletta
Pirotta

È questo il titolo del libro nel quale Alessandra Mecozzi e Gabriella Rossetti hanno raccolto alcune delle interviste a donne palestinesi, israeliane e italiane. effettuate fra il 2022 e il 2024, molte delle quali in “luminose giornate di maggio”, come scrivono le due curatrici1.

Attraverso le parole delle donne palestinesi si conoscono storie d’amore, d’amicizia, di lotta, di impegno, di resistenza, di rabbia, di dolore. Cioè di vita.
Ma si viene a conoscenza anche di un luogo: la Palestina. Un luogo attraversato da conflitti perenni fra chi, arbitrariamente e impunemente, lo occupa e chi questa occupazione è costretta/o a subire quasi fosse un destino, quasi non ci possa essere un altro modo di stare al mondo.
Ci sono anche le parole di alcune donne israeliane. Donne critiche verso il governo del loro paese che vogliono continuare ad esserlo ma che al contempo sottolineano quanto sia sempre più difficile poterlo fare senza essere additate come “traditrici”. Donne che hanno tentato di praticare ciò che veniva chiamato “esercizio di convivenza” mentre oggi sentono farsi strada, con prepotenza, una deriva pericolosa tesa a giustificare qualsiasi violenza si compia sul popolo palestinese, visto come “il nemico che vuole sterminare ogni ebreo”.

Ho letto il libro d’un fiato, commuovendomi per i delicati sentimenti di solidarietà ed empatia che trasparivano in molte interviste e provando sdegno per il clima di brutale violenza e inaudita crudeltà nel quale il popolo palestinese è costretto a vivere.
Su un piano di maggior razionalità, tre mi sembrano gli aspetti che rendono questo testo unico e prezioso.

Le parole delle donne palestinesi sfatano in modo incontrovertibile la vulgata occidentale mainstream, ma non solo, che dipinge il popolo palestinese come vittima rassegnata e supina, come terrorista a prescindere o ancora come “simbolo astratto di una lotta giusta”. Il potere comunicativo e politico occidentale, specie dopo il tragico atto militare di Hamas del 7 ottobre dello scorso anno, ha da subito scelto il “campo di guerra”: quella della difesa dello Stato di Israele “senza se e senza ma”, impedendo ogni possibilità di capire torti, ragioni, semplici spiegazioni. L’obiettivo primario era ed è quello di costringere a schierarsi accusando chi non lo vuol fare di stare dalla parte del nemico di turno, che in questo caso è Hamas.
Un approccio pericoloso perché ottunde la capacità di giudizio, produce divisioni e spaccature e genera ulteriore odio e rancore.
Il libro invece presenta l’immagine di “un popolo che lotta per la propria libertà e per la giustizia”. In particolare in un’intervista si chiede con forza di “non mettere sullo stesso piano la resistenza di un popolo colonizzato con il militarismo inteso come progetto di espansione e profitto”. La lotta delle e dei palestinesi, viene detto nell’intervista, sta dentro la storia delle lotte di liberazione dal potere coloniale e nulla ha a che vedere con la violenza istituzionalizzata di chi vuole opprimere, sottomettere, umiliare un popolo intero.

Credo sia bene citare un ulteriore elemento ben descritto nelle parole delle donne di Palestina, anche perché esso ha anche a che vedere con la deriva autoritaria che stiamo vivendo nel nostro Paese e più in generale in Occidente. Donne, uomini, bambini palestinesi, denunciano alcune delle donne intervistate, vengono spesso disumanizzati, addirittura definiti animali o resi invisibili. In questo modo è più facile negare il genocidio che il governo israeliano sta impunemente portando avanti. Credo che ciò abbia a che vedere con quella che Judith Butler, una delle figure più conosciute nel contesto filosofico attuale, definisce la “tendenza fascista” del neoliberismo odierno. Una tendenza pericolosa ma al contempo “appassionante” perché costruisce gerarchie secondo le quali alcune vite possono essere più importanti di altre fino a permettersi di stare al di sopra della legge. Amore, lutto, diritti hanno valore diverso per chi, dentro queste gerarchie, sta sopra o sotto. E il popolo palestinese è, senza alcun dubbio, fra coloro che stanno sotto.
Eppure nelle parole delle donne palestinesi intervistate non c’è nessun revanscismo né desiderio di vendetta. Solo la volontà di ribadire un diritto che è al contempo personale e politico: autodeterminarsi come donne e come popolo!

Un altro aspetto che giudico prezioso è l’aver dato parola anche ad alcune donne israeliane.
Non può esistere nessun percorso di pace se non vengono riconosciute ed ascoltate tutte le parti in conflitto.
E sebbene la pace fra i due popoli, ora sembra essere ancora più lontana se non impossibile non va sprecata nessuna occasione per favorire se non un dialogo almeno un confronto.
Le israeliane intervistate hanno sempre provato a lavorare nei “margini stretti di un incontro fra due culture differenti”. Ora avvertono, con preoccupazione, come nella società israeliana stiano aumentando rancore, quando non odio, verso il popolo palestinese. E al contempo si rendono conto che tutto ciò rende ancora più precaria la democrazia nel loro paese. Sempre che si possa chiamare democratico un paese che, da anni, ne occupa con la forza un altro.
“Così come in Sudafrica non poteva esserci democrazia sola per i bianchi” dice una delle intervistate, “così in Israele non può esserci democrazia senza i palestinesi!”.
Altre aggiungono che serve imparare dal popolo palestinese la capacità di non abbandonarsi alla disperazione (non è facile per chi è davvero democratica vivere in un paese come Israele) ma “fuggire verso la vita”. È quello che fanno, per esempio, le giovani israeliane della rete femminista “mesarvot” che rifiutano di arruolarsi nelle forze di difesa israeliane. Giovani femministe, non numerose e spesso isolate, ma lucide e determinate, convinte che non possa esistere “una soluzione militare ad un problema politico” e che ” Hamas rappresenti una mentalità che trae forza dalla mentalità oppressiva israeliana.”

Gli spazi per un dialogo fra donne palestinesi e israeliani potrebbero continuare ad esserci benché sia sempre più difficile sfuggire, dicono le donne israeliane intervistate, ad una costruzione della propria soggettività che non sia fondata sulla figura del nemico o della nemica.
La strada per Tipperary è ancora lunga….

L’ultimo aspetto che ho apprezzato e che voglio sottolineare è l’aver dato voce e parola anche ad alcune donne italiane. Donne che hanno fatto esperienze di vita, a volte lunga e a volte meno, in Palestina e che quindi conoscono bene la fatica e al contempo la bellezza di vivere da “straniere” in “luoghi difficili”. Giudico importanti le loro testimonianze perché se da un lato sono fra coloro che considerano essenziale sottoporre a dura critica il pensiero e le pratiche coloniali dell’Occidente d’altro canto trovo che questa critica possa essere più efficace se sfugge alla tentazione di fare di tutta l’erba un fascio. L’occidente è il capitalismo coloniale che divora, sfrutta, esclude ma è al contempo chi ha lottato e lotta contro tutto ciò. L’Occidente cioè, parafrasando Foucault, rappresenta senza dubbio il potere della dominazione ma al contempo anche il potere di contestare la dominazione stessa.
Le parole delle donne italiane, senza voler enfatizzare troppo, dimostrano che esistono anche in occidente persone consapevoli della propria posizione nel mondo e che, con questa consapevolezza, si mettono in gioco per costruire legami politici e pratiche di solidarietà. Provare a mettere in discussione, ovunque possibile, i sistemi di potere e le strutture mentali che da questi poteri derivano, questo il senso del loro esserci e del loro fare.

Per tutto ciò mi pare di poter dire che il libro curato da Alessandra Mecozzi e Gabriella Rossetti mostra che, anche quando tutto sembra oscurarsi, può sempre esistere “una crepa dalla quale entra la luce”. Alessandra e Gabriella si augurano che una di queste crepe possa essere il femminismo, inteso come pratica di relazioni personali e politiche capaci di sovvertire l’ordine delle cose esistenti

Un femminismo attraverso il quale “contribuire all’affermarsi di una strada di giustizia senza la quale non si potrà mai costruire la pace”.
Ne consiglio vivamente la lettura.

Nicoletta Pirotta

  1. Palestina Israele. Parole di donne, a cura di Alessandra Mecozzi e Gabriella Rossetti, Futura Editrice, 2024.[]
Articolo precedente
Facciamo presto. Pensare la complessità e agire semplicemente
Articolo successivo
“Ma quali riformisti. In Iran serve una vera rivoluzione”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.