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“Ma quali riformisti. In Iran serve una vera rivoluzione”

di Stefano
Galieni

Lei chiede che il suo nome non venga rivelato, ha gran parte della famiglia rimasta a casa che ne pagherebbe le conseguenze. È giovane, nata e cresciuta con l’idea che non ci sia mai stato un governo prima della Repubblica islamica, ricorda il volto severo di Khomeini negli immensi manifesti di Teheran, da quando era una bambina.
In Italia si sente al sicuro, studia, lavora ed è in contatto con la rete frammentata di oppositori. “Difficile fidarsi – racconta – Non si tratta di appartenere ad una o ad un’altra organizzazione. Io ad esempio sono di sinistra e non voglio che nel mio paese torni lo Scià, i miei genitori me ne parlavano come di un uomo corrotto e cattivo, ma non potrò mai vivere in un paese in cui c’è come guida suprema Khamenei, in cui gira la “polizia morale” a frustare le ragazze che hanno una ciocca di capelli fuori dall’hijab.
Lei è una delle tante e dei tanti della diaspora che hanno chiesto di boicottare le elezioni presidenziali della scorsa settimana, rese inevitabili dopo la morte, in un ancora oscuro incidente in elicottero, del presidente Ebrahim Raisi, dagli oppositori chiamato “il macellaio”, perché da giudice aveva decretato infinite condanne a morte e a pene corporali. Raisi doveva in prospettiva sostituire, in tempi brevi, l’ottantacinquenne ayatollah Ali Khamenei, la “Guida della rivoluzione”, figura che realmente detiene il potere, in un contesto dove autorità religiosa e ruolo politico sono totalmente sovrapponibili.
Oggi, come ci conferma la nostra “voce” ma come emerge anche dai dati resi pubblici, la successione è quanto di più complicato in un Paese in cui si sommano crisi economica, problemi politici e sociali, divisioni interne – la zona a maggioranza curda è spesso in piazza – e il rischio sempre più probabile di un conflitto con Israele.
L’equazione è presto fatta: l’Iran sostiene in Libano il Partito di Dio (Hezbollah) di Hassan Nasrallah, che ne è segretario da quando, nel febbraio 1992, Abbas al-Musawi, fu ucciso dall’Idf di Tel Aviv. Hezbollah, per quanto considerata in Occidente organizzazione terroristica, in Libano è un partito politico, presente nelle istituzioni e governa soprattutto il confine meridionale dello Stato, poi è Israele, in mezzo una blue zone in cui sono continui gli scambi di colpi di artiglieria e in cui è presente una missione dell’Onu (Unifil) dal 1979 con alterne vicende e dal 2006 sotto comando italiano. Le minacce fra i due Stati, il sostegno che Hezbollah offre ad Hamas, rendono il contesto altamente pericoloso. L’Iran intanto, isolato – apparentemente – dalle sanzioni occidentali, ha stretto legami sempre più forti con la Russia, ponendosi come asse strategico nell’area.

Il quadro interno dell’Iran è ancora più complesso: la crisi economica, dovuta anche ad una mala gestione delle immense risorse del Paese, ha portato ad un’inflazione del 48%, c’è chi viene frustrato o sottoposto alle norme crudeli dovute all’applicazione ortodossa della sharia, solo per aver rubato del pane o un pollo in un negozio. Alla protesta finora si è risposto con la repressione violenta.
Il 16 settembre del 2022, quando, per le percosse subite, Mahsa Amini, 22 anni, curda, moriva mentre si trovava sotto la custodia delle autorità iraniane, dopo un arresto dovuto al fatto che una ciocca di capelli le usciva dal velo, è divenuta data simbolo per una rivolta profonda. La sua uccisione ha provocato una lunga scia di proteste contro le autorità iraniane e i religiosi al governo della Repubblica islamica, con conseguente repressione che ha portato almeno ad oltre 500 persone uccise o condannate a morte, anche attraverso processi sommari, e alla detenzione di oltre 22mila, soprattutto giovani. In galera non sono finite soltanto le ragazze che continuavano a non voler indossare l’hijab, ma molti sindacalisti, attivisti politici, figure intellettuali, artisti, tutti coloro che risultavano invisi all’autorità religiosa.
Il carcere di Evin è divenuto famoso e famigerato al mondo per le violenze, gli stupri, le torture. I cortei non sono mai cessati ma si sono intensificati nelle ultime settimane e in queste ore di urne aperte, con al centro un tema preciso: l’obbligo per le donne iraniane di indossare l’hijab. C’è una legge che impone alle donne di indossarlo in maniera perfetta nei luoghi pubblici, neanche un capello deve essere messo in mostra. Chi non rispetta tale precetto, ad oggi in vigore solo in Afghanistan, rischia la vita. Soprattutto nelle aree rurali più tradizionalmente conservatrici, non è possibile deviare da tale obbligo, ma sono sempre più le ragazze che disobbediscono, anche nelle campagne.

Oggi non portare il velo è molto più normalizzato, specialmente fra le donne che vivono nelle città. L’effetto delle proteste ha obbligato – di fatto – la maggior parte degli agenti della polizia morale a provare a persuadere le donne a rimettersi il velo se le incontrano per strada senza. Solo una parte della polizia morale continua ad essere implacabile. Ma le carceri restano piene, importante anche l’arresto continuo di sindacalisti e di reali oppositori al punto che al primo turno delle elezioni presidenziali solo 4 candidati hanno potuto presentarsi regolarmente. L’unico a sostenere un notevole ridimensionamento dell’obbligo di indossare l’hijab è l’ex ministro della Sanità, il riformista Masoud Pezeshkian, che durante la sua campagna ha utilizzato durante i suoi comizi la canzone “Baraye”, considerata l’inno delle proteste per la morte di Mahsa Amini. C’è stato chi ha apprezzato tale gesto ma per molti è stata solo propaganda. Nonostante il successo del boicottaggio – meno del 40% degli oltre 61 milioni di aventi diritto si è recato alle urne – la scelta di Pezeshkian ha pagato. Dei 24,54 milioni di schede scrutinate, ha ricevuto 10,41 milioni di voti, ovvero il 42%. È davanti a Said Jalili, considerato un ultra conservatore ed ex negoziatore sul nucleare, che ha ottenuto 9,47 milioni di voti (38%). I due andranno al ballottaggio venerdì 5 luglio. Dalla “rivoluzione di Khomeini” è la seconda volta, in 45 anni, che il presidente non viene scelto al primo turno, accadde anche nel 2005. Gli altri, sconfitti, per quanto anch’essi conservatori, non sembrano intenzionati ad appoggiare Jalili e questo potrebbe spalancare la strada al cosiddetto candidato riformista.
Pezeshkian ha promesso anche riforme economiche, per risollevare il Paese e maggiore apertura all’occidente in politica estera. In cosa possa tradursi tutto questo è difficile da comprendere. “Magari è uno di quelli che vuole vendere il nostro Paese agli Usa – dice sconsolata la nostra interlocutrice – e chissà che non sia meglio avere gli americani che, non amo, al posto di questi ignoranti sessuofobi, spaventati dal futuro”.

Nonostante fino alle ultime ore le massime autorità religiose avessero incitato i cittadini a votare, il crollo dell’affluenza va ascritto sicuramente alla grande, diffusa e variegata campagna di boicottaggio. Ali Khamenei aveva esortato i cittadini a partecipare al voto “in quanto si tratta di un importante test politico […] Votate scegliendo il candidato migliore” dichiarava, il giorno prima  alla tv di Stato. Lo ha ascoltato meno del 40% dell’elettorato, con 8% in meno rispetto alle presidenziali del 2021 e un altro punto percentuale rispetto alle recenti amministrative di marzo. Le proteste sono riuscite a superare il blocco dei social – garantito dalla tecnologia tedesca che non ha rinunciato ad un buon affare – ma i video sono usciti.
Sono tante le donne, velate di nero, che si sono avvicinate anche ai seggi, rischiando la vita, portando con loro le foto delle figlie e dei figli uccisi o arrestati. Madri che invitavano a “boicottare la farsa”, perché nulla potrà cambiare se non salta il regime. E in caso di vittoria riformista – il potere del presidente è scarso – è difficile che la legge che impone l’hijab possa essere abrogata o semplicemente riformata, sarebbe un segnale di debolezza che il regime non si può permettere e che amplificherebbe gli scontri interni. È quanto ha affermato dal carcere Narges Mohammadi, premio Nobel per la pace e leader delle attiviste per i diritti delle donne nel Paese, che deve scontare una condanna a 10 anni. È dalla cella che ha invitato le persone a boicottare le elezioni.

In patria come nelle diaspore, l’opposizione iraniana è divisa, ci sono ancora coloro che invocano il ritorno di una “monarchia modernizzatrice” rimpiangendo Reza Pahlavi e la sua corte, ci sono le forze laiche e di sinistra che auspicano una democrazia parlamentare in grado di rompere radicalmente con l’oscurantismo degli ayatollah e chi non spera più in nulla. In un quadro del genere è giocoforza che potenze internazionali intervengano fornendo risorse, appoggiando l’una o l’altra fazione, per i propri giochi geopolitici. “Non mi importa da dove arriveranno i soldi – racconta la giovane iraniana con un filo di voce ma con tanta rabbia negli occhi – noi dobbiamo poter vivere in un Paese libero, a qualsiasi costo. Poi non vi crediate. Eravamo la Persia e il nostro popolo non accetterà che altri si impongano con la forza sulla nostra vita. Non abbiamo nulla da perdere”.

Chissà che, indipendentemente dall’esito del ballottaggio, qualche prospettiva possa giungere proprio da questo Paese tanto temuto?

Stefano Galieni

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