di Roberto Musacchio –
Doveva essere un governo contro l’assalto di Salvini alle prerogative parlamentari e che rompesse con le peggiori politiche delle destre. Un governo dunque con motivazioni forti, quasi imperative.
Lo spettacolo invece è abbastanza desolante e tutto già scricchiola.
Le “liti” e gli scontri di “posizionamento” sono all’ordine del giorno.
Il che stride con gli abbozzi di “grandi strategie” che vengono lanciate per “accordi storici” tra Pd e Cinquestelle o per le ambizioni macroniane di Renzi ma forse anche di Conte.
Si è pagato un prezzo altissimo al populismo grillino con la riduzione del Parlamento che ferisce la sua rappresentatività e la sua funzionalità.
Prezzo che non sembra proprio avere i tanto decantati contrappesi visto che da un lato si va verso modifiche regolamentari che incorporano molto del “governismo” che stava nelle “riforme” renziane.
Dall’altro la riforma elettorale è come sempre in questa eterna transizione iniziata con la deriva maggioritaria in balia delle convenienze spicce.
Democrazia vorrebbe che un Parlamento ridotto non possa essere alla mercé di maggioranze che dispongono a quel punto anche della Costituzione. Dunque ci vuole il proporzionale. E invece no. Zingaretti tiene il punto maggioritario e si inventa un nuovo polo fondato sull’accordo Pd Cinquestelle. E questo dopo aver accarezzato le elezioni anticipate per far fuori i grillini a costo di dare la presidenza del consiglio a Salvini.
Di Maio si immagina come ago permanente della bilancia tra schieramenti cui imporre la centralità a cinquestelle. Dunque magari un proporzionale con sbarramento alto. E in più vincolo di mandato tanto per colpire ancora un po’ la democrazia parlamentare per andare verso la rete alla Casaleggio.
Renzi e Conte si sognano Macron e dunque adattano all’ambizione il modello elettorale che ancora non dicono.
Le destre stanno unite e compatte sul maggioritario. Più il presidenzialismo.
Per un governo che doveva salvare la democrazia i rischi che la democrazia corre sono veramente tanti.
Ci metterei anche la stramba riproposizione della formula nazionale anche nelle elezioni regionali che “uccide” ancor più le autonomie già ferite a morte dall’esautoramento dei consigli, ridotti in numero e compressi da sbarramenti folli.
E per giunta espone il governo nazionale come ben ricorda D’Alema che, subentrato a Prodi, cadde proprio per aver considerato il voto delle autonomie come una conferma del suo esecutivo.
Ma tutta questa pasticciata costruzione di pasticciate strategie e sconsiderate ambizioni non corrisponde una capacità di intervento nella realtà.
Del prezzo pagato al populismo col taglio delle “poltrone” ho già detto.
Ma se le cose più odiose sugli sbarchi di migranti sono state frenate una svolta non c’è stata, anzi. I decreti Salvini restano in vigore; quelli Minniti anche. E lo stesso Minniti chiede di confermare gli accordi con la Libia.
Dal punto di vista economico sociale poi siamo al puro galleggiamento. Peccato però che il mare sia tempestoso.
L’Europa per quanto rassicurata dalla caduta del sovranista Salvini non demorde sul debito e scrive letterine. Non si fa peccato a pensare che vorrebbe la testa di quota 100 dato che sulle pensioni e la loro privatizzazione la UE è molto ingaggiata e in Francia Macron attacca (ma i lavoratori rispondono e il sindacato chiama lo sciopero generale).
Il galleggiamento non prevede cancellazioni invece del mal fatto, anche perché molto viene dai centrisinistri.
Un po’ di cuneo fiscale e un po’ di lotta all’evasione è ciò che resta dopo l’intervento di sterilizzazione dell’Iva.
Ma cuneo fiscale e lotta all’evasione dovrebbero servire a cominciare a mettere a punto ciò che manca da 30 anni e cioè una politica contro il capitalismo finanziario globalizzato e per riprendere il ciclo spezzato del compromesso sociale progressivo.
Invece questo è lontanissimo dal pensiero che è il vero collante della maggioranza, ma anche dell’opposizione e cioè il liberal populismo.
Per cui il fatto che il volume finanziario globale sia 15 volte il Pil mondiale e produca un assurdo rendimento medio del 15% non lo si discute.
Che questo meccanismo preveda una continua svalorizzazione del lavoro che va di pari passo al dominio della rendita non tange. Così come le privatizzazioni da cui si alimentano gli appetiti della finanza.
Che questo sistema si avvalga di strumenti di dubbia compatibilità e legalità non viene associato alla pur giusta discussione sull’uso del contante.
Discussione che sarebbe più pregnante se accompagnata alla necessità di intervenire sul connubio tra banche di risparmio e di affari, su hedge fund, future, transazioni ultra veloci, paradisi fiscali, elusioni d’imposta delle grandi multinazionali, assurdi privilegi fiscali per la finanza. E magari si ripristinassero le aliquote Irpef ora semplificate e si mettesse una patrimoniale e la Tobin tax.
Ma i liberal populisti di questo non parlano, né quelli al governo, né quelli (momentaneamente?) all’opposizione.
Tocca a noi farlo, contro entrambi.
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Una sinistra moderata, riformista, radicale o rivoluzionaria che non indaghi in modo approfondito il capitalismo contemporaneo, cosiddetto della “globalizzazione”, è colpevole perché rinuncia a comprendere le condizioni nelle quali si trova ad agire e i mutamenti intercorsi all’interno dei processi produttivi e riproduttivi. La carenza più grave è non comprendere come il capitalismo contemporaneo non abbia più bisogno del consenso politico, perché dotato di potenti mezzi di persuasione e controllo: rappresentati dalle nuove forme assunte dalla produzione, dal consumismo di massa e dai diffusi mezzi di comunicazione digitale, quali, ad esempio, i social network.
La “crisi della politica”, identificata nella distanza tra i partiti e gli elettori, tra i palazzi del potere e i cittadini, è la conseguenza della riduzione del peso della politica nella gestione dei processi di decisione, perché questi sono sempre più sotto il controllo di soggetti economici “globalizzati” (multinazionali e centri finanziari) che si riparano dietro a organismi sovranazionali quali il FMI, il WTO, ecc.
L’accento posto sulla governabilità, quale principale funzione politica praticabile, è paradossale: è il segno inequivocabile dell’impotenza della politica, tradizionalmente intesa, all’interno di un capitalismo che sempre più usa lo Stato esclusivamente come comitato di controllo della finanza pubblica e dell’ordine sociale. Le svolte autoritarie in tutto il mondo, non solo in Occidente, in presenza di un continuo aumento dell’astensionismo, sono il segno di un processo liberticida che conferma che la crisi della politica è anche crisi della democrazia rappresentativa.
Alla crisi della democrazia si può rispondere solo evitando di ricorrere a strumenti politici che i recenti mutamenti dei processi produttivi e le nuove tecnologie di controllo sociale hanno spazzato via o reso obsoleti. La storia indietro non torna: abbiamo bisogno di metter in moto un processo inedito, che prenda atto della condizione presente quale risultato di una lotta di classe condotta dal capitale che, per ora, abbiamo perso.
Le rivolte sempre più diffuse in tutto il mondo (non solo in occidente) con ragioni, cause e modalità diverse ci dicono che le pratiche della politica hanno cambiato verso, che siamo usciti definitivamente dal ‘900. L’imprevedibile ha preso il sopravvento e l’azione politica è esercitata nel momento stesso in cui nasce il bisogno e lì produce lo scontro ed esercita la critica collettiva (spesso di massa) più radicale!
Per questo non ci sono fronti di sinistra o di svolta liberal democratica o riformismi, comunque legati a pratiche politiciste, capaci di rispondere alla sfida di classe che questo capitalismo, incapace di offrire opportunità e produttore di ingiustizie funzionali alla sua sopravvivenza, ha lanciato. Lo scontro si gioca tutto fuori dai palazzi, nella società: nel variegato mondo del lavoro, nella scuola, sul territorio.
Si deve lavorare per aprire varchi e contraddizioni ovunque sia possibile: attraverso il sabotaggio, il contrasto radicale e il boicottaggio delle scelte politiche volte a lasciare immutati o peggiorare i rapporti di forza tra istituzioni e cittadini, tra datore di lavoro e lavoratore, tra istituzioni scolastiche e studente, tra merci e consumatori…
Si deve dar vita a spazi liberati e autogestiti non per supplire alle carenze del sistema, ma aprire alternative in grado di raccogliere il dissenso e la critica, contrastare e superare le pratiche autoritarie, privatistiche e sessiste in atto e rendere egemoni pratiche comunitarie, pubbliche e transfemministe.
Marco Sansoè
info@lacittadisott.org
http://www.lacittadisotto.org
Ottima sintesi