Manifestare in Iraq è molto pericoloso, ma venerdì 25 ottobre ricomincerà ugualmente la rivolta dei millennials iracheni, nonostante la repressione e le massicce misure politiche messe in atto dal Governo per tentare di sedarla.
Ai 120 morti e 6000 feriti della prima settimana, alle incursioni intimidatorie degli “uomini in nero” nelle redazioni dei giornali e delle televisioni di Baghdad, ai cecchini non identificati sui tetti, si sta aggiungendo la scomparsa di decine di attivisti, giornalisti, blogger. “Desaparecidos” iracheni per chiedere la cui sorte è dovuto intervenire anche l’Alto Commissario per i diritti umani delle Nazioni Unite, che ha parlato di almeno 30 rapimenti.
Venerdì 25 però si tornerà comunque nelle piazze dopo la tregua concessa in occasione della ricorrenza dell’Arba’een, la festività sciita durante la quale milioni di pellegrini da tutto il mondo raggiungono Karbala per commemorare la morte dell’imam Husseini. Ma ormai i 3 milioni e mezzo di fedeli giunti dall’Iran sono ripartiti e la mobilitazione può ricominciare. E sarà in contemporanea con la massiccia protesta in corso a Beirut con la quale condivide la critica al sistema delle quote etniche e religiose.
Le manifestazioni, in grandissima parte non violente sono state rivolte contro tutto l’arco politico, compresi coloro – sadristi e comunisti – che erano stati promotori della precedente ondata di proteste. Cominciate il primo ottobre a Baghdad erano rapidamente dilagate, soprattutto al centro-sud, a seguito dell’uccisione di un manifestante a piazza Tahir. Ad animarle un massa di giovanissimi, che non hanno conosciuto né Saddam né la invasione americana, delusi da politici e religiosi per la perdurante crisi economica.
Disoccupazione, corruzione e politica delle quote settarie sono state al centro delle rivendicazioni di fronte alle quali il governo, in un disperato tentativo di fermarle, ha varato un piano di riforme apparentemente di grande portata con investimenti significativi per le case popolari, i sussidi di disoccupazione, il reddito minimo, prestiti, concessione di terreni e licenze commerciali, assunzioni massicce nelle scuole e nell’esercito e liberando gli oltre 1000 arrestati e promettendo di punire i responsabili delle violenze poliziesche. I capi della polizia delle province di Babilonia, Najaf, Dhi Qar, Muthanna e Qadisiya e alcuni comandanti dell’esercito sono stati licenziati.
Ma la protesta non si è mai fermata fino alla tregua dichiarata per le festività, riprenderà venerdì prossimo e ci si attende una ondata ancora maggiore di quelle precedenti.
La promozione delle manifestazioni continua ad essere in larga parte caotica a testimonianza della spontaneità della mobilitazione. A Baghdad un coordinamento che ha dichiarato di rappresentare il sobborgo di Sadr City, la periferia povera roccaforte di Muqtada al Sadr, ha annunciato di voler attraversare il Tigri ed entrare nella zona verde per “cacciare tutti i politici”. Altri coordinamenti hanno chiamato al concentramento in piazza Tahir negando di voler marciare verso il centro. Manifestazioni sono convocate in tutte le maggiori città del sud. Tutti fanno appello a mantenere la rivolta nella non violenza.
L’Iraq è in attesa. Le forze politiche si dividono tra proclami di appoggio e grida di allarme. Le milizie prima invitano a non partecipare e poi negano di averlo fatto. L’Iran, chiamato in causa frequentemente nelle manifestazioni, nega di voler intromettersi, gli Stati Uniti ad ogni buon conto stanziano senza autorizzazione 700 militari ritirati dalla Siria.