Il 29 aprile, circa una settimana prima delle ultime elezioni parlamentari in Scozia, che hanno visto la crescita dei partiti indipendentisti (SNP, ossia Scottish National Party, e Verdi, che ora hanno insieme la più ampia maggioranza in Parlamento di sempre) e la flessione o la tenuta sofferta dei partiti unionisti (Conservatori, Laburisti, Liberali), è apparso in una serie di giornali scozzesi ed europei (The Guardian, Libération, Süddeutsche Zeitung, Público e altri, in Italia Domani) un appello sottoscritto da quasi duecento accademici, scrittori, giornalisti, artisti e attivisti da tutto il Continente e oltre, tra cui fior di indipendentisti e/o europeisti più o meno “critici”, che chiede all’Unione Europea di considerare la volontà degli scozzesi di rimanere nella UE, così come si è espressa nel referendum sulla Brexit, e di facilitare quindi il loro rientro nel caso la Scozia diventi indipendente: «fare in modo che l’UE indichi chiaramente, prima di qualsiasi referendum sull’indipendenza, un percorso che permetta alla Scozia di diventare paese membro»; «fare un’offerta di adesione aperta e unilaterale»; «andrebbero offerte condizioni generose a sostegno del bilancio scozzese nei complicati mesi di transizione prima di rientrare nella UE». L’iniziativa proviene dagli ambienti di OpenDemocracy, in particolare dal co-fondatore, Anthony Barnett, è stata sottoscritta da oltre 10.000 cittadini, e la raccolta di firme è ancora in corso. L’11 maggio è uscito sempre su “Domani” un articolo dei coordinatori della campagna, Nina Jetter e Andrea Pisauro, che spiega le ragioni della mobilitazione dal loro punto di vista di europei. La dimensione europea della campagna come di tutta la “questione scozzese” è evidente e – in un paese la cui stampa mainstream non riesce a parlare di Scozia senza ogni volta tirare in ballo Braveheart – alquanto spiazzante.
Così come spiazzante è stata la notizia di una decina di giorni fa della mobilitazione di un quartiere multietnico di Glasgow per impedire la deportazione “a sorpresa” di due uomini da parte dello Home Office britannico il giorno della celebrazione musulmana di Eid al-Fitr. Duecento residenti e attivisti hanno circondato il furgone della polizia e sono rimasti seduti ore per terra finché, dopo una mediazione della Prima Ministra scozzese Nicola Sturgeon (che ha condannato il raid anti-immigrazione) con lo Home Office, i due arrestati sono stati lasciati andare. “Profughi e migranti sono qui benvenuti”, “Date la colpa all’austerità, non ai migranti”, dicevano i cartelli. Ma come, non è proprio nei quartieri multietnici che “la gente non ne può più”, i residenti plaudono alle forze dell’ordine, e la migrazione mette a rischio la “tenuta democratica” del paese? Che posto è mai questo, dove si chiede l’indipendenza da un’unione che dura da oltre trecento anni per rientrare in un’altra dove non si è stati nemmeno mezzo secolo, e le cui credenziali in tema di democrazia non appaiono certo più specchiate di quelle di Westminster?
In realtà la Scozia non è il paese del mondo alla rovescia, né il faro del socialismo realizzato, e nemmeno un paradiso eurofederalista. Non tutti gli indipendentisti vorrebbero ricongiungersi alla UE, e per converso ci sono tanti europeisti anche fra gli unionisti. Non mancano neanche le frange di estrema destra, o gli orangisti come quelli che marciano ogni estate nell’Irlanda del Nord (una tappa importante della marching season è infatti proprio Glasgow). Il Partito Conservatore resta pur sempre il secondo partito, specie in termini di seggi (in termini di voti è di pochissimo sopra al Labour). Le élite economiche scozzesi sono perfettamente integrate nel capitalismo britannico e globale. E che dire delle considerevoli sacche di povertà e dei gravi problemi sociali che permangono ancora in Scozia – verranno risolti o aggravati in un piccolo stato che dipenderà comunque dagli investimenti e dai capitali internazionali? Quanto all’europeismo degli scozzesi, considerato che in Scozia, come nel resto del Regno Unito, dell’“Europa reale” si è sempre parlato relativamente poco, si potrebbe ben sostenere che esso abbia tutta la freschezza e l’entusiasmo delle cose nuove e ancora di fatto sconosciute. Non avendo il Regno Unito fatto parte dell’Eurozona, la Scozia si è trovata protetta dalle dinamiche europee che hanno afflitto altri paesi. Se dovesse entrare nella UE, euro o non euro, si possono ben prevedere docce fredde all’entusiasmo europeista di un paese che nel 2018 ha prodotto un deficit sette volte più alto che in tutto il Regno Unito. Allo stesso modo, come gestire un “confine duro” che, nonostante gli auspici degli indipendentisti, si potrebbe creare con il resto del Regno Unito, con cui i legami sono storicamente innumerevoli?
Ma proprio qui sta il punto.
Tutta la “questione scozzese” ruota attorno a un concetto a cui ci siamo ormai disabituati, quello dell’autodeterminazione. Nel Regno Unito, che non è uno stato nazionale come altri, ma appunto un regno unito, ossia quel che resta di uno stato imperiale senza una Costituzione scritta, in cui le nazioni che lo compongono, come le colonie, hanno sempre intrattenuto con il centro metropolitano rapporti disuguali e disomogenei tra loro, fa parte della storia la presenza costante di rivendicazioni nazionali, la rinegoziazione dei rapporti con il centro metropolitano, o anche la loro dissoluzione. Di per sé l’indipendentismo scozzese contemporaneo non sarebbe niente di nuovo, né alcunché di particolarmente traumatico, tanto più che la lotta politica nazionale è avvenuta sinora all’interno degli spazi costituzionali e nel rispetto delle leggi. Due elementi hanno però dato una nuova pregnanza alla questione dell’autodeterminazione: da una parte l’indipendentismo ha finito per rappresentare le istanze di un modello diverso di democrazia e società che i partiti unionisti, e segnatamente il Labour, non sono (più) in grado di propugnare; dall’altra la Brexit ha messo a nudo le contraddizioni su cui poggia lo stato britannico.
I governi di Margaret Thatcher sono stati particolarmente devastanti per la Scozia perché sono state imposte “riforme” che la maggior parte della popolazione non voleva. Per dire, dopo la seconda guerra mondiale l’86% di tutte le case costruite nell’area di Glasgow era di proprietà pubblica, fino a quando nel 1980 non fu deciso a Londra di trasformare gli inquilini delle case popolari in proprietari. O si pensi ancora alla poll tax, che fu introdotta in Scozia prima che altrove. Fino agli anni Novanta il Partito Laburista viaggiava tra il 40 e il 50% dei voti. L’indipendentismo è cresciuto anche per scongiurare il ripetersi di simili situazioni, rese possibile dal sistema elettorale per le elezioni del Parlamento di Westminster, che crea maggioranze artificiali e antidemocratiche, che assicura comunque la prevalenza dell’Inghilterra sulle altre nazioni, e che nessun partito unionista è in grado di cambiare. Il governo scozzese “devoluto” si è messo di traverso ad altre “riforme” che venivano dal centro; ad esempio per i residenti scozzesi (e i cittadini UE immatricolati prima della Brexit) l’università è ancora gratuita. Nei confronti di migranti e rifugiati la politica di Edimburgo è decisamente più accogliente di quella di Londra. La partecipazione civile e politica viene incoraggiata; al referendum del 2014 sull’indipendenza hanno potuto votare anche i residenti con cittadinanza UE. Si viene creando così un’idea di “popolo” (o di community, per usare un termine caro al discorso politico locale) variegata e plurale. Lungi dall’essere quindi un’ulteriore manifestazione di populismo, di provincialismo, o quant’altro, l’indipendentismo rappresenta la base per delineare e proteggere una visione di politica e società diversa da quella dominante, e in questo senso trova crescenti simpatie pure fra gli inglesi.
La Brexit ha fatto precipitare le cose, rendendo più urgente l’istanza di autodeterminazione. Dal punto di vista della Scozia e dell’Irlanda del Nord, che hanno votato per il Remain, tutto l’affare della Brexit denota l’incapacità dell’Inghilterra di rielaborare il lutto per la perdita dell’Impero, di ripensare su un piano di parità le relazioni con il resto del mondo nonché con le altre nazioni che compongono il Regno Unito. Lo conferma la noncuranza con cui Londra ha ignorato (in tutti i sensi) la volontà nonché le condizioni specifiche delle nazioni pro-Remain. Il senso dell’appartenenza alla UE quale premessa per nuovi rapporti politici e sociali è testimoniato anche dal fatto che nell’Irlanda del Nord l’unico partito, tra quelli maggiori, favorevole alla Brexit, il Democratic Unionist Party (DUP), era stato anche l’unico a esprimersi contro l’Accordo di pace del 1998. Il “Sì” all’“Europa” (che, va però ripetuto, non è monopolio dei soli “nazionalisti”) è parte della ricerca di cambiamento, di un progetto di emancipazione dalle condizioni del passato, nonché dello sviluppo di un’identità nazionale che si lasci definitivamente l’Impero alle spalle.
Nulla potrebbe essere più lontano dalla piega che i discorsi e le cose hanno preso qui da noi, dove tra richiami al “vincolo esterno”, alti moniti, e coalizioni “di responsabilità”, non solo l’“Europa”, come dimensione politica, ha finito per prescindere da ogni riferimento alla “volontà popolare” e anzi per contrapporsi ad essa, ma lo stesso termine “europeista” ha recentemente subito una torsione di significato, perdendo il senso di progettualità per il futuro e venendo piuttosto a connotare acquiescenza nei confronti dei poteri e delle politiche del presente (che altro significano interrogativi come “Salvini è diventato europeista?” o espressioni come “coalizioni di partiti europeisti”?). Del resto, secondo le narrazioni dominanti, le periferie orientali e meridionali si “europeizzano” dismettendo presunti antichi “vizi” storico-sociali e adattandosi ai modelli nord-occidentali, ovvero al ruolo a loro assegnato nell’economia macroregionale e globale. Per contro, proprio da questo mondo europeo nordoccidentale, nella sua “versione Westminster”, proviene una critica a quel modello basata da un lato su una ridefinizione della nazionalità e dall’altro su un rilancio dell’appartenenza europea, e incentrata sull’idea di autodeterminazione. Ed è questo l’aspetto che ci dovrebbe interessare maggiormente.
Sono ormai anni che l’europeismo progressista e di sinistra è alla ricerca di un “terzo spazio” alternativo all’establishment europeo e al nazionalismo populista, in teoria l’unica opposizione di Sua Maestà del primo, di fatto suo alleato neanche tanto segreto nelle cose che contano davvero. Una ricerca purtroppo costellata di varie occasioni mancate. Per esempio, l’integrazione dei paesi dell’Europa centro-orientale così come è stata effettuata, che ha prodotto un panorama sociale devastato da grosse disuguaglianze, una decisa torsione a destra, una regressione complessiva nelle politiche europee. Per esempio, la resistenza alle politiche di austerità, che è stata vivace e agguerrita, ha certamente vinto sul piano delle idee, ma non ancora su quello delle politiche, che rimangono sempre condizionate da determinati interessi di potere. L’autodeterminazione della Scozia – il diritto dei suoi abitanti di perseguire il proprio progetto nazionale e di aderire alla UE come stato indipendente – rappresenta un’altra occasione che si farebbe bene a non perdere, e a cui deve andare il sostegno delle forze europeiste di sinistra e progressiste. È dal referendum in Grecia sul bailout da parte della Troika, nel 2015, che la questione dell’autodeterminazione, e quindi della democrazia, non entra con entrambi i piedi nel piatto delle politiche della UE in termini che difficilmente verranno posti nelle varie Conferenze sul Futuro dell’Europa. Le istanze degli scozzesi potrebbero ben essere riprese dagli altri europei nella lotta per un assetto costituzionale democratico ed emancipatorio nell’Unione Europea.
La volontà di adesione alla UE da parte di una Scozia indipendente sarebbe una patata più che bollente per i vertici europei, e non solo per le possibili ripercussioni su altre questioni nazionali. Perché costringerebbe a riconsiderare un principio troppo a lungo trascurato. Quello che anche vogliamo noi.
Francesca Lacaita