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UE: “Migranti? Ne parleremo…forse”

di Stefano
Galieni

Il Consiglio europeo straordinario del 24 e 25 maggio era stato annunciato in Italia come quello in cui Mario Draghi avrebbe ottenuto risultati per affrontare la fantomatica “emergenza migranti”. Da Bruxelles questa emergenza non è stata avvertita quindi tutto è rimandato ad accordi e decisioni su cui prevalgono le divergenze. Intanto in mare si continua a morire e sulle coste nordafricane affiorano, terribili, cadaveri di bambini. L’Europa costruita sul mito della frontiera inaccessibile, su una falsa identità retaggio del peggior colonialismo, si traduce in questo orrendo scempio. Le lacrime e gli slanci emotivi dei leader europei non cancelleranno mai il crimine che si continua a perpetrare con leggi inumane. Draghi è tornato a mani vuote, ma le vere mani da stringere  restano quelle di coloro che cercano di superare le frontiere. 

Il vertice straordinario del Consiglio d’Europa, convocato il 24 e 25 maggio ha confermato quanto già contenuto in precedenti decisioni dei vari organismi esecutivi dell’UE. Per quanto riguarda le questioni connesse all’immigrazione, l’Unione semplicemente non esiste o al massimo si limita ad azioni di facciata e a rilanciare sull’effetto annuncio. L’ultima volta in cui realmente c’è stata una azione corale e i risultati ancora pesano sulle coscienze dei governi, risale al marzo 2016, quando all’unanimità venne messo in atto un accordo osceno con il regime turco di Erdogan che comprendeva il versamento da parte dei singoli stati di complessivi 6 mld di euro, in due tranche, a condizione che, con ogni mezzo necessario, venissero fermati i richiedenti asilo siriani in fuga verso l’Europa.

Tutti i tentativi precedenti e successivi per raggiungere accordi simili, soprattutto con i paesi di transito del Nord Africa, sono naufragati nel nulla. Da una parte le richieste e le difficoltà logistiche e politiche poste tanto dai paesi di transito che da quelli di provenienza, quanto l’indisponibilità dei singoli stati dell’Unione a farsi carico di oneri pesanti complessivamente più di quelli riservati alla Turchia. Il New pact on migration and asylum di cui abbiamo su queste pagine già lungamente parlato, non solo rispolvera ricette vecchie e fallimentari condite da tentativi di ammodernamento a dir poco farraginosi, ma non contenta nessuno e sta definendo fronti contrapposti.

Mancando una politica comune dei 27 e non volendo affrontare il tema dell’abrogazione del Regolamento Dublino (che obbliga chi fugge a fermarsi nel primo Stato membro Ue raggiunto) né tantomeno quello dell’obbligatorietà proporzionale nella partecipazione ai ricollocamenti di chi ha diritto di protezione e raggiunge soprattutto i paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo.

Se nel 2020 si è registrata una fase di stallo dovuta anche – ma non solo – al covid, il 2021 ha visto una ripresa delle partenze. Nulla di realmente allarmante, non ci saranno le cifre peraltro gestibili del 2016 quando solo in Italia sbarcarono 181 mila persone, semplicemente ci sarà un incremento che potrebbe essere facilmente affrontato su dimensione europea.

Se i paesi del gruppo Visegrad hanno già chiarito che non intendono accettare profughi né contribuire a pagare con i propri bilanci i rimpatri per conto terzi, se quelli del Nord Europa non offrono appigli, la stessa Germania, che fino al 2015 ha fatto entrare nel proprio territorio molti profughi, oggi reagisce con maggiore freddezza. In Germania si vota in autunno e saranno le elezioni che sanciranno la fine dell’era Merkel. Difficilmente qualche leader politico vorrà impegnarsi in campagna elettorale in difesa dei profughi e dichiararsi disponibile a prendere impegni e a impiegare ulteriori risorse per l’accoglienza.

La situazione dei “paesi mediterranei” è complessa e articolata. La Spagna in questi giorni si è ritrovata a dover far fronte all’emergenza nelle proprie enclave in Marocco che affacciano sul mare. Il Marocco già non riconosce l’autorità spagnola in queste città e, utilizzando come pretesto il fatto che un leader saharawi è stato ricoverato per assistenza medica a Madrid, ha lasciato liberi alcune migliaia di cittadini affinché dessero l’assalto alle città spagnole superando le reti spinate, un tempo di 3 metri, poi di 6, oggi progettate per innalzarsi a 10 mt. Ne è nata una crisi subito rientrata politicamente – l’esercito marocchino ha provveduto a riprendere i fuggitivi – ma che ha simbolicamente colpito l’opinione pubblica spagnola. Il governo di sinistra ha utilizzato gli stessi metodi della destra mentre la destra estrema di Vox ha violentemente attaccato chiunque si adoperava per salvare la vita ai migranti in mare.

Malta, per scelta e per costrizione, non è mai uscita dai guai. La piccola isola i cui governi hanno sempre cavalcato il nazionalismo antimigranti, anche cambiando di colore, dovrebbe provvedere a controllare una “zona SAR” (Search And Rescue) infinitamente più grande delle proprie possibilità militari, logistiche ed economiche.   Col risultato – le denunce stanno aumentando – che le autorità maltesi spesso non rispondono alle richieste di soccorso o le fanno rimbalzare sui libici o che, peggio, mettono in pratica la privatizzazione dei rimpatri. Il governo paga armatori privati per non far attraccare richiedenti asilo e per poterli riportare in acque territoriali di competenza degli altri paesi.

La Grecia sta facendo pressioni per un maggior impegno di Frontex, l’agenzia europea per il contrasto alle migrazioni irregolari, che sta assumendo sempre più il ruolo di polizia di frontiera. Recentemente c’è stato un incontro fra Il premier greco Kyriakos Mitsotakis, il ministro della Migrazione e dell’asilo Notis Mitarachi, il capo dello Stato maggiore generale della difesa nazionale ellenica, il generale Konstantinos Floros, il capo della polizia ellenica, il tenente generale Michael Karamalakis e altri funzionari con il Direttore esecutivo dell’agenzia, Fabrice Leggerì. I greci chiedono maggiore impegno, la presenza delle navi della “Missione Irini” al largo dell’Egitto e quindi maggiormente vicina che in passato al “fronte orientale”, è stata considerata un fatto positivo ma insufficiente. La Grecia continua a subire pressioni sulla rotta balcanica e vorrebbe veder fermati gli arrivi sulle proprie isole, soprattutto ora che si riapre la stagione turistica segnata dalla pandemia.

L’Italia sperava di poter dirottare il vertice di Bruxelles, profittando dei comuni interessi con gli altri paesi “meridionali” e contando sull’autorevolezza di Mario Draghi ma, la cena di lavoro in cui si dovevano toccare tali temi ha forse unicamente permesso ad alcuni di gustare prelibatezze. L’emergenza covid affatto risolta, i problemi su cui l’UE sta trovando una propria linea comune compattandosi contro gli avversari esterni, in primis Russia e Gran Bretagna, l’incidente in Bielorussia e, non da ultima la crisi ambientale, hanno fatto si che a Draghi si rispondesse: “Si ha ragione, ne parliamo la prossima volta”.

Eppure quanto sta accadendo interessa il Paese in maniera profonda e urgente. La commozione mostrata in conferenza stampa dal presidente del Consiglio italiano rispetto alle immagini dei cadaveri dei bambini riversi sulle spiagge libiche, ne è solo l’aspetto più forte dal punto di vista emotivo.

Al 25 maggio erano arrivati sulle coste italiane, a partire dal primo gennaio, 13 766 persone, in gran parte provenienti dalla Libia, molte dalla Tunisia. Impossibile definirla invasione, certo è nei prossimi mesi le partenze potrebbero salire soprattutto da porti come Sfax in Tunisia e Zwara nel ovest libico. Fermare tutti sembra essere l’unico punto di reale convergenza europeo su cui investire. Il primo reale fatto politico di importanza europea si è avviato il 20 maggio scorso quando la Commissaria europea agli affari interni Ylva Johansson. Si è recata a Tunisi con la ministra dell’Interno italiana Luciana Lamorgese.

Scopo dell’incontro è stato quello di gettare le basi di un accordo, non più bilaterale e informale come quello esistente fra Italia e Tunisia ma con l’Europa per agevolare i rimpatri e porre un limite alle partenze. Le autorità tunisine hanno assunto impegno di cooperare in tal senso anche comunicando le coordinate delle imbarcazioni che partono e che non si è riusciti a bloccare ai porti (i cosiddetti “barchini fantasma”) che in gran parte giungono a Lampedusa. L’Ue ha assunto impegni per sostenere le spese di implementazione delle motovedette tunisine utilizzate per fermare le partenze ma la stessa Commissaria ha chiaramente dichiarato che risultati si potranno vedere solo quando programmi di cooperazione col paese nordafricano porteranno a creare nuovi posti di lavoro e quindi a disincentivare le partenze. Ci vorranno insomma tempo e risorse e per l’estate c’è da prevedere un incremento degli arrivi in Italia. Peraltro, anche secondo il New pact, almeno nella sua stesura iniziale, coloro che partono e non vengono soccorsi in mare ma arrivano di propria sponte, non rientreranno nemmeno nelle quote che “volontariamente” i 27 paesi UE si dovrebbero ripartire ma sarebbero destinati al rimpatrio laddove non esistano le prerogative per permessi umanitari. Non casualmente fra i programmi verso la Tunisia ma non solo, si sta ragionando della apertura di canali di ingresso regolari e limitati che selezionino a monte le persone da far entrare in Europa. Borse di studio, progetti Erasmus, disponibilità all’accoglienza verso uomini e donne migranti dotati di un eccellente profilo professionale, ampliando il sistema delle blue cards, potrebbero essere un ulteriore incentivo per le autorità tunisine che, in cambio, dovrebbero garantire il pugno di ferro contro gli indesiderati e la massima cooperazione nel riprendere le persone partite illegalmente. Più complesso il ragionamento da fare con la Libia che è soprattutto, ma non solo, paese di transito da cui partono persone provenienti o dall’Africa Sub Sahariana o addirittura dal Bangladesh. La Commissaria europea ha dichiarato di voler aprire una collaborazione concreta senza dover aspettare le elezioni libiche del 24 dicembre anche relazionandosi con il governo provvisorio di unità nazionale. Il fatto che in queste settimane tacciano le armi nel Paese è certo un buon segnale. Ma non sfugge che, in questa fase di interregno, siano riprese le partenze di imbarcazioni e purtroppo anche i naufragi. I corpi in spiaggia per cui ha manifestato commozione, spesso ipocrita, l’intero mondo politico italiano, sono la rappresentazione plastica delle infinite contraddizioni presenti nel paese nordafricano. In alcuni casi, come ha raccontato Oscar Camps, della ong spagnola Open Arms che tante persone ha salvato, si tratta di corpi lasciati per giorni sulla battigia. In altri, come dichiarato dalla giornalista Nancy Porsia, le autorità libiche hanno, non appena giunti in spiaggia, recuperato i resti dei defunti, i loro documenti o vestiti, prelevato il sangue per garantire di poter ridare un nome e un volto a chi ha perso la vita. E questo, non avviene purtroppo con altrettanta frequenza in Europa. Ma questa è la fine. È ancora possibile, ma su questo punto ci sono meno intese e meno dichiarazioni, impedire se non limitare il numero di vittime delle leggi di protezione della opulenta frontiera europea. Sarebbe sufficiente che la missione Irini (dell’agenzia Frontex) si spostasse al largo delle coste libiche o che si definisse un minimo di sostegno europeo per salvare chi parte non considerando questo un fattore di attrazione (pull factor). Invece, come abbiamo già denunciato, Frontex nell’area di competenza libica e maltese, si limita a far volare aerei che segnalano la presenza di imbarcazioni e poi ne riferiscono alle autorità dei paesi delle zone SAR competenti. La zona SAR libica, istituita nel 2018 è quanto mai lacunosa. Le motovedette libiche, fornite dall’Italia, sono insufficienti e spesso non escono in mare per portare soccorso. Quando lo fanno recuperano con ogni mezzo, spesso con la violenza, le persone fuggite, riportandole nei centri di detenzione dove nessuna autorità europea mette piede e dove continuano, dai tempi di Gheddafi, a perpetrarsi abusi e violenze di ogni tipo. Del resto cosa aspettarsi quando gli ufficiali in divisa della Guardia costiera sono gli stessi che in passato o addirittura ancora oggi, hanno un ruolo significativo nel traffico di esseri umani? Da ultimo il Mediterraneo Centrale è oggi desertificato. Le navi commerciali evitano di passarci per non doversi trovare a prestare soccorso, la marina italiana non ha alcun interesse ad avvicinarsi troppo alle coste libiche, le navi delle ong sono quasi tutte sotto fermo amministrativo, spesso per ragioni incomprensibili o in fase di revisione, perché non possono rischiare continuamente il mare senza lavori di manutenzione. E poi sono oggettivamente poche, non certo in grado di salvare tutti. Il ragionamento che si è accennato in sede europea ma che difficilmente potrà tradursi in risposte serie è stato presentato come un programma di cooperazione con i paesi di provenienza dei migranti – laddove non ci sono conflitti in atto – per incentivare i governi a fermare le partenze e le popolazioni a restare nel continente. Con ogni mezzo, anche ricorrendo a esternalizzazioni ulteriori delle frontiere che si spingano più a sud, coinvolgendo i paesi del Sahel, come Niger e Mali, dove a breve troveranno posto i contingenti militari italiani che stanno lasciando l’Afghanistan “pacificato”.

Comunque il piano a cui Draghi vorrebbe che si lavorasse in sede UE: più rimpatri, più ricollocamenti, meno arrivi, è costoso e richiede un comune accordo politico ad oggi difficilmente raggiungibile e in parte inapplicabile. La strada caldeggiata da alcuni, di incentivare ingressi regolari e selezionati paese per paese, è considerata percorribile da alcuni stati Ue ma inaccettabile da altri. Tutto lascia alla fine pensare che anche il vertice del prossimo mese non porterà altro che proclami di buone intenzioni, utilizzo spropositato della parola “solidarietà” mentre di corpi nel mare e sulle spiagge se ne continueranno a vedere. La Commissione europea non sembra affatto intenzionata a modificare il proprio approccio securitario mentre dal parlamento giungono segnali interessanti anche se l’istituzione ha oggi ben pochi poteri. Intanto, dopo le indagini aperte sul Direttore esecutivo di Frontex Fabrice Leggerì, è partita una richiesta esplicita di conoscere in maniera dettagliata le spese effettuate da questa come dalle altre agenzie europee in materia di immigrazione nonché di informare in maniera più dettagliata il parlamento in merito alle operazioni realizzate o in fase di attuazione. Ricordiamo che Frontex e i suoi dirigenti sono considerati responsabili in due anni del respingimento diretto o differito di oltre 20 mila persone in un porto non sicuro come la Libia. Nel parlamento si sono poi sollevate parecchie voci di dissenso, rispetto al fatto che dall’Europa si continua a rimpatriare o a respingere persone in paesi in cui il rischio di subire trattamenti inumani e degradanti è estremamente alto. Un buon segnale, necessario ma non sufficiente.

È ora che intervengano almeno le corti internazionali, dalla Cedu al Tribunale dell’Aja perché quello che si sta consumando da troppi anni nel Mediterraneo Centrale è un vero e proprio reiterato crimine contro l’umanità, di cui dovrebbero rispondere tanto i governi che si sono succeduti nei paesi di provenienza dei migranti e in quelli europei quanto negli organismi esecutivi dell’UE e nelle sue agenzie.

Crimini di cui i corpi dei bambini, adagiati sulle spiagge libiche, costituiscono solo il crudele, per ora, ultimo atto.

 

 

 

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