A covare sotto la pesante coltre della pandemia sono braci di tensioni ardenti, che rinfocolano conflitti in diverse aree dell’Europa orientale.
Mentre tutto il mondo guarda con preoccupazione al confronto fra NATO e Russia in Ucraina, un altro fronte sembra risentirne maggiormente i contraccolpi.
Dall’estate scorsa infatti una serie di vicissitudini stanno acuendo quella che da più parti è stata definita come la più grave minaccia all’esistenza della Bosnia-Erzegovina dalla fine della guerra negli anni ‘90.
La modifica al codice penale bosniaco, disposto dall’Alto Rappresentante degli Accordi di Dayton, con l’introduzione di pene detentive per il negazionismo del genocidio di Srebrenica, o per l’esaltazione dei criminali di guerra; seguita a poca distanza dalle sanzioni statunitensi contro l’uomo forte della Repubblica Sprska (RS), Milord Dodik – implicato in processi per corruzione – proprio nel giorno del trentesimo anniversario dalla fondazione dell’entità statale (9 gennaio) hanno in qualche modo rappresentato l’innesco delle nuove contrapposizioni.
Come ritorsione a questi provvedimenti, l’Alleanza dei socialdemocratici indipendenti (Snsd) guidata da Dodik ha boicottato le elezioni politiche, portando ad una paralisi statale ed inasprendo ulteriormente i rapporti con la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FBiH).
La Bosnia-Erzegovina è un’entità culturale specifica che esiste da secoli, dove convivono cittadini di diverse origini etniche e tradizioni religiose, come quelli maggioritari: musulmano-bosniaco, serbo-bosniaco e croato-bosniaco; con una forma statale suddivisa a seguito degli Accordi di pace di Dayton del 1995 in due entità: la Repubblica serba di Bosnia ed Erzegovina (Republika Srpska, RS) e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (FBiH) , governata da una presidenza tripartita, le cui relazioni hanno vissuto momenti di particolare difficoltà.
L’unità bosniaco-erzegovese è stata promossa soprattutto dai partiti bosgnacchi, che rappresentano circa metà popolazione, mentre dall’altro lato la politica dei serbo-bosniaci – circa un terzo della popolazione – ha costruito la propria propaganda, alimentando continuamente la paura di assimilazione e proponendo vari referendum sull’indipendenza.
Il leader nazionalista Dodik, dopo otto anni come presidente della RS, è ora nella presidenza federale di Bosnia in quota serba; e nel dicembre 2021 per ritorsione a sanzioni e provvedimenti della comunità internazionale ha presentato una risoluzione all’Assemblea sul “trasferimento di poteri” e sui “principi costituzionali”, per il ritiro di alcune deleghe in materia penale, di fisco e difesa dalle competenze federali, aprendo così la strada ad una potenziale secessione dell’entità a maggioranza serba.
Di fatto anche le successive leggi su intelligence, esercito, agenzia del farmaco e sistema tributario della fiscalità indiretta profilano una frattura istituzionale sull’attribuzione dell’autorità, derivante dall’usurpazione illegale del potere statale contro l’ordine costituzionale vigente.
In un rapporto destinato all’ONU, l’Alto rappresentante Christian Schmidt ha allertato che la Bosnia corre il rischio di nuovi conflitti e divisioni.
C’è chi però ha letto questa mossa come un escamotage elettorale di Dodik per recuperare consensi dopo i recenti scandali per corruzione, in vista delle consultazioni politiche del prossimo autunno.
Tuttavia le ripercussioni in termini di tensioni sociali non hanno tardato a manifestarsi, con aggressioni violente in una crisi crescente anche a livello istituzionale, scatenata in modo premeditato dai nazionalisti serbi.
La questione travalica tuttavia i già travagliati rapporti interni e ha già agitato le acque delle relazioni diplomatiche.
Gli accordi di adesione della Serbia all’Unione Europea sembrano aver subito una battuta d’arresto dopo le manifestazioni di sostegno di alti funzionari serbi ai nazionalisti della RS, in violazione delle relazioni di buon vicinato.
Il prossimo 21 febbraio è prevista una riunione dei Ministri degli Esteri del Consiglio Europeo sulla questione dei finanziamenti per lo sviluppo della Bosnia-Erzegovina, con una spaccatura fra i rappresentanti degli stati membri: da un lato la Germania minaccia di allinearsi alle sanzioni statunitensi, rinnovando il suo orientamento favorevole alla componente serbo-croata; mentre dall’altro, Slovenia e Ungheria hanno dichiarato la volontà di porre il veto a sanzioni europee contro Dodik, ritenuto il difensore delle ‘radici cristiane’ all’interno della federazione.
L’imprinting islamofobo sembra a sua volta guidare l’approccio di diversi leader europei in materia di sicurezza riguardo alla questione balcanica, in una sostanziale latitanza delle istituzioni UE, focalizzate su altri dossier. L’appoggio di Orban non è solitario, ma viene rinfrancato dallo schieramento di Cina e Russia sempre in chiave anti-islamica. Mosca ha infatti assecondato le richieste di rimozione dell’Alto Rappresentante, minacciando di porre il veto nel Consiglio di Sicurezza ONU sul rifinanziamento della missione EuFor Althea.
Lo scorso 10 gennaio molte associazioni rappresentanti la pluralità di gruppi etnici e religiosi si sono riunite per manifestare la volontà di convivenza unitaria, trasmettendo una piattaforma di richieste all’Alto Rappresentante della Comunità Internazionale, così come all’UE e agli USA in merito alla ferma condanna del piano di Dodik, interpretato come grave minaccia all’ordine costituzionale, all’integrità territoriale e all’indipendenza trentennale della Bosnia-Erzegovina e alla stabilità e alla sicurezza nei Balcani occidentali e in Europa. La richiesta, finalizzata alla dissuasione dell’attacco destabilizzante mediante segnali politici fermi, fa appello a sanzioni e all’ulteriore presenza militare sul territorio, partendo dal supporto alla Corte costituzionale della Bosnia ed Erzegovina per rivedere le leggi dal carattere separatista già approvate.
Dalle recenti dinamiche riemerge quel rischio ricorrente di balcanizzazione delle entità statali.
L’accordo che mise fine alla guerra, configurando l’assetto costituzionale del paese, poggia di fatto su un principio di riapartizione etnica, che solo sulla carta garantisce equa rappresentanza ai tre gruppi maggioritari: bosgnacchi, serbi e croati.
In realtà, il sistema Dayton esclude le identità civiche, nonché gli appartenenti agli altri gruppi etnici – come rom, ebrei, ecc. –, ipotecando qualunque sviluppo politico, oltre il quadro definito in quel contesto di trent’anni fa; e lasciando quindi che le istituzioni siano espressione quasi unicamente dei rispettivi partiti nazionalisti. Questi ultimi con l’avvicinarsi delle nuove elezioni, fissate per l’ottobre 2022, hanno deciso di alzare la posta, espandendo l’ostruzionismo alle istituzioni statali.
Più che di paralisi, c’è chi parla insomma di definitiva metastasi del sistema istituzionale bosniaco, dovuta alle responsabilità di élite etno-nazionaliste, sostenute da interessi geopolitici esterni.
Il trattato di Dayton, pur valido in modo contingente per il cessate-il-fuoco, ha dunque fallito nel fornire alla Bosnia-Erzegovina degli strumenti per poter contrastare efficacemente le ingerenze aggressive di Serbia e Croazia negli affari interni bosniaci.
Così, mentre larga parte della popolazione sembra recalcitrante a seguire gli avventurismi della propaganda nazionalista, soffrendo piuttosto la corruzione e l’immobilismo della classe dirigente, anche la prospettiva di adesione all’Unione Europea non rappresenta più un’attrazione politicamente unificante e la Bosnia rischia con queste pulsioni secessioniste di essere il campo di scontro congeniale nella contrapposizione per procura di interessi geopolitici internazionali.
Tommaso Chiti
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