Di recente James Galbraith […] riprende il concetto vebleniano di ‘predatore’ per sostenere che il capitalismo contemporaneo, […], è centrato sul passaggio da un sistema costruito per il ceto medio a un sistema in cui il ceto medio viene sistematicamente depredato a favore di una classe di predatori, che controllano l’economia e la politica: uno Stato gestito come una corporation, seguendo gli interessi rappresentati dagli amministratori, in un sistema di lobbies (farmaceutiche, petrolifere, finanziarie, militari) che ne guidano l’azione.[1]
La crisi pandemica ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale la necessità di un intervento dello Stato nell’economia, per soddisfare quei bisogni che il libero operare delle forze di mercato lascia insoddisfatti. I paesi dell’UE si sono dati un piano di interventi da 750 mld di euro, noto come NextGenerationEU. I Paesi membri per poter utilizzare queste risorse debbono a loro volta dotarsi di un Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Per l’Italia sono in gioco oltre 200 mld di euro. Rispetto a questa posta in gioco, le diverse forze politiche, sono diventate tutte di maggioranza, con l’esclusione fittizia rappresentata da Fratelli d’Italia, e fanno a gara a chi promette il miglior futuro. Guardiano della spesa e referente del capitale transnazionale[2], Mario Draghi. Esecutore, ministro dell’economia: Daniele Franco. Dobbiamo vigilare affinché in questo nuovo clima del keynesismo “per tutti” non si ritrovi, come è da temere, il solito keynesismo per pochi. E non meno importante è ricordare qualche differenza tra Marx e Keynes, che è necessario comprendere per rimanere “vigili”.
Keynes nasce quando Marx muore: 1883, ma non è un passaggio di testimone. È l’imbocco di un’altra strada. Marx dedica la sua vita a comprendere il modo di produzione capitalistico, e per fare questo è costretto a studiare “tutta” l’economia politica. Di questo studio colossale egli fa la critica, dando vita al Capitale. Critica dell’economia politica. Marx evidenzia la storicità, e quindi la transitorietà, di ogni modo di produzione, compreso, ovviamente quello capitalistico. In Marx non c’è la visione, tutt’oggi comune ai più, del capitalismo come organizzazione ultima e definitiva della specie umana.
Anche Keynes fa la critica all’economia dominante del suo tempo. Egli mette in dubbio la capacità del mercato di raggiungere, per mezzo degli scambi e della flessibilità dei prezzi (salari, profitti, interesse), il pieno impiego delle risorse produttive: capitale e forza lavoro. Questo significa che l’operare delle forze di mercato possono determinare un equilibrio, nel quale i lavoratori rimangono disoccupati e i mezzi di produzione rimangono inutilizzati. Equilibrio significa che le forze di mercato, appunto equilibrandosi, non spostano la situazione alla quale si è pervenuti. Questo inutilizzo di risorse umane e di capitali è il problema al quale Keynes vuole porre rimedio. Il ragionamento e il rimedio sono i seguenti: se le forze di mercato non riescono ad occupare tutti i capitali e tutti i lavoratori, occorre un soggetto ed una forza esterni al mercato che lo spingano verso la posizione desiderata di pieno impiego. Questo soggetto è lo Stato, questa forza è la spesa pubblica in deficit[3].
La novità portata da Keynes non è l’intervento dello Stato nell’economia, (intervento sempre esistito ed ampliatosi nel corso del tempo), ma il fatto che il mercato lasciato a sé stesso non conduce verso il pieno impiego delle risorse, e, quindi, è necessario l’intervento di una “mano visibile” tra le forze di mercato e per le forze di mercato. Lo stato, pertanto, si pone come una delle forze di mercato tra le forze di mercato, e agisce in tale modo per il mercato: generando capacità di spesa per l’acquisto delle merci capitalistiche e per la realizzazione dei profitti.
Lo Stato agisce anche al di fuori delle forze di mercato, se vi è costretto dalla lotta sociale o dal particolare grado di sviluppo economico raggiunto da una nazione, erogando servizi diversi (scuola, sanità, …), in tal caso esso entra in concorrenza con il mercato. Si determina così una dinamica conflittuale tra Stato e mercato che scompare nel termine generico di spesa pubblica. La concorrenza tra Stato e mercato emerge quando si evidenziano quali spese debbono essere decurtate. Le privatizzazioni dei servizi sociali, delle pensioni e, più in generale, del welfare, non fanno che ridurre la concorrenza tra Stato e mercato, riportando quei servizi dentro le logiche delle “forze di mercato” e creando mercati prima inesistenti per le opportunità dei capitalisti. I fondi pensione privati, le scuole private, la sanità privata e così via, sono mercati creati dall’operare dello Stato.
Da quanto sopra esposto risulta che la composizione della spesa pubblica è il vero problema per le classi dominanti, non la spesa in sé e per sé. Quando la spesa pubblica fornisce occasioni per la realizzazione dei profitti delle imprese essa è la benvenuta: appalti di opere stradali, ponti, porti …, acquisto di merci, materiali, consulenze, e così via. Quando la spesa pubblica è per infermieri, professori, trasporti pubblici, pensioni, insomma, per tutto ciò che ricade nel welfare, allora tutto ciò è uno spreco di risorse pubbliche per il capitale: questa è la spesa pubblica da tagliare. Che questa spesa pubblica si trasformi in consumi, e quindi in una componente della domanda aggregata che accresce il livello della produzione e dell’occupazione, è cosa che al Capitale sembra non interessare, e dobbiamo aggiungere: ed ha ragione! La logica del Capitale non è la soddisfazione dei bisogni umani, come quei consumi indotti dalla spesa pubblica per il welfare lasciano intendere, ma l’accumulazione fine a sé stessa, senza riguardo alcuno al genere umano e alla natura. Coloro che sostengono la tesi che occorre rilanciare i consumi per sostenere la crescita economica hanno in mente un mondo che non è quello contemporaneo: hanno in mente un fine, la soddisfazione dei bisogni, che non è il fine del capitalismo.
Per Keynes le crisi sono governabili con un accorto intervento di politiche soprattutto fiscali. Per Marx le crisi sono ineliminabili in quanto rappresentano il culmine delle contraddizioni capitalistiche; esse devono diventare sempre più estese e intense: ogni soluzione della crisi, infatti, pone le premesse per una crisi successiva più aspra. Keynes suggerisce dei medicamenti per una società malata. Marx indica che il malato è incurabile e che occorra, semmai, dare luogo ad una nuova società. Per Keynes il profitto non è sfruttamento, quindi se il mercato produce disoccupazione, occorre porvi rimedio con l’intervento statale. Per Marx il profitto è sfruttamento e la disoccupazione un prodotto necessario del capitalismo ed è determinata dalle esigenze di sfruttamento (profitto).
Ovviamente le classi dominanti non hanno aspettato Keynes (la sua Teoria generale è del 1936) per far spendere al loro Stato come, quanto e quando lo ritenessero necessario. «Uno di essi fu Adolf Hitler, che nell’assumere il cancellierato nel 1933, senza lasciarsi impacciare da alcuna teoria economica, varò un grande programma di opere pubbliche …»[4]
Negli Stati Uniti il New Deal inizia nel 1933 e le spese pubbliche in disavanzo vengono utilizzate per compensare la disoccupazione di massa che la crisi del Ventinove aveva determinato. In sostanza «La gravità della situazione […] aveva già richiesto ciò che sarebbe stato raccomandato da Keynes.»[5] Per Keynes «Il problema decisivo dell’economia non è come si determini il prezzo delle merci, né come si distribuisca il reddito risultante. La questione importante è come si determini il livello della produzione e dell’occupazione.»[6]
In altre parole, se l’aumento della produzione se ne va in gran parte nelle tasche dei capitalisti (distribuzione) non è per Keynes un problema[7], l’importante è che tutti ricevano un posto di lavoro (livello massimo di occupazione).
La pubblicazione della Teoria generale diede all’attività pratica dei Governi la loro base scientifica. Da quel momento l’intervento dello Stato nell’economia non sarebbe stato più posto in discussione: oggetto del contendere divenne il come spendere, e per chi spendere. A questi due aspetti si aggiunsero il tema geopolitico dovuto alla presenza di un sistema economico concorrente (l’URSS) e quello sociale dovuto alle lotte dei lavoratori e delle lavoratrici: entrambi dovevano essere affrontati con un intervento narcotizzante della spesa pubblica.
Nel dopoguerra (1945-1980)[8] il capitale si sviluppa soprattutto sulla sua base nazionale, da qui la necessità per il capitale di una spesa pubblica per le opere necessarie ai suoi profitti. Opere di natura soprattutto strutturale (strade, ferrovie, distribuzione elettrica, telefonica, acquedotti, produzione energetica, ecc.) che individualmente i capitalisti non potevano affrontare sia per la grandezza degli investimenti necessari che per il rischio che bisognava assumersi. Il capitale per i due motivi aggiuntivi sopra ricordati (geopolitici e lotte sociali) permetteva al suo Stato di spendere anche per le classi subalterne, per attenuarne le pretese più serie (cosa, come per chi produrre). Questi benefici sociali (pensioni, sanità, scuola, ecc.) che per il capitale sono un costo da ridurre sempre, si rendevano necessari per stemperare le pretese suddette. Nello stesso tempo questi benefici venivano offerti alla popolazione spendendo in deficit e accumulando debito pubblico (che allora non era un problema, ma la soluzione al loro problema del confronto geopolitico e delle lotte sociali). Debito pubblico predisposto come arma di lotta da utilizzare quando il “clima” sarebbe cambiato.
Con il modificarsi della struttura produttiva, con l’arrivo di nuovi concorrenti nel mercato mondiale, con la necessità di sostituire la riduzione dei profitti industriali con quelli di origine finanziaria, il venire meno del contendente (Urss) e l’eclissarsi delle lotte sociali, l’intervento dello Stato, divenne un impaccio per il capitale.
In questo mutato quadro della lotta tra capitali[9] la necessità di ridurre le sole spese pubbliche che rappresentano un costo per il capitale diviene questione di vita o di morte per i capitali stanziati in aree del mondo nel quale il welfare aveva assunto dimensioni notevoli. Le classi dominanti risposero fornendo una nuova base scientifica economica alle loro esigenze. Così le teorie economiche liberali, credute sepolte dall’opera keynesiana, tornarono alla ribalta nella loro forma modernizzata, e si fregiarono del titolo di “neo-liberali”.
Qualunque formazione politica al Governo di una nazione, senza distinzione tra destra e sinistra, non poteva sottacere queste nuove verità scientifiche. Cominciò la gara a chi fosse più bravo a disfarsi dell’ingombrante ed inefficiente statalismo, affinché – così recitavano i nuovi precetti della scienza economica borghese – crescita e occupazione potessero svilupparsi senza “lacci e lacciuoli”. Non era più tempo di vivere al di sopra delle proprie possibilità, la scarsità non poteva essere aggirata da trucchi di politica economica, quale la spesa pubblica in deficit. Ora il focus doveva essere spostato: non bisognava più guardare alla gestione della domanda aggregata per mezzo della spesa pubblica in deficit, come Keynes riteneva necessario, ma concentrarsi sul lato dell’offerta, cioè della produzione.
Per produrre occorre forza lavoro e considerando che sulla produzione realizzata si pagano le tasse, ecco che per sprigionare gli animal spirits era necessario ridurre i salari, precarizzare la forza lavoro e ridurre le tasse sui profitti. Nel ventennio 1980/2000, i Governi, di qualunque colore, fanno a gara per spogliare le classi subalterne delle loro conquiste.
Se si pone attenzione su ciò che è stato tagliato e ciò che è stato offerto come opportunità di mercato ai capitalisti, tramite le privatizzazioni, ci si renderà conto del diverso significato che la spesa pubblica assume per il capitale, e forse si troveranno delle spiegazioni al perché alcune cose che si ritengono necessarie, come la messa in sicurezza del territorio, la salute pubblica, l’istruzione, e così via, non vengano realizzate dallo Stato.
Nonostante un ventennio di politiche economiche restrittive a danno delle classi subalterne, necessarie, secondo il nuovo credo economico, a generare crescita e benessere, la crisi erompe ugualmente già all’inizio del nuovo millennio e poi in modo più pesante nel 2007/2008. La crisi economica e quella finanziaria si unirono a braccetto, determinando una contrazione del Pil mondiale e del commercio mondiale di una intensità e vastità inusitata; trascinarono migliaia di persone nella disoccupazione, e coinvolsero gli Stati facendone aumentare enormemente il debito pubblico.
In questa nuova e profonda situazione di crisi generale, la concorrenza tra capitali si fa più feroce che mai, l’esigenza di tagliare tutte le spese inutili per il capitale si fa più stringente. Le classi dominanti tirano fuori dal cappello il nuovo coniglio economico: l’austerità espansiva. Tale tesi viene sostenuta in un celebre paper ad opera di due insigni economisti[10], nel quale si afferma che oltre un determinato rapporto tra debito pubblico e Pil, individuato nel 90%, si osserva una crescita del reddito mediamente più bassa. Ne consegue che la riduzione del debito in rapporto al Pil, mediante tagli alla spesa pubblica, può stimolare i consumi e gli investimenti e per tale via la crescita economica. Ecco come l’austerità (taglio alle spese statali) diventa espansiva (crescita del reddito). Nonostante la figuraccia[11] per aver commesso errori di calcolo, per aver sottaciuto o non considerato altri dati, ecc., la loro “ricetta” non è stata affatto abbandonata. Come scrisse Marx «Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia.»[12] E il teorema risultò molto utile al capitale.
Questa austerità espansiva venne a gravare sulle spalle del proletariato soprattutto europeo, che ancora godeva di un sistema di welfare, relativamente esagerato agli occhi del capitale. Gli attacchi speculativi ai PIIGS, la ferocia repressione del popolo greco, il riaffacciarsi del nazionalismo e del populismo, la disgregazione e la sfiducia tra le popolazioni europee, la Brexit, ecc., sono i frutti amari di queste politiche.
Giungiamo così all’anno 2019, e a settembre sembra che stia per scoppiare l’ennesima bolla finanziaria, la Federal Reserve fa in tempo a tappare la falla. La crisi che stava per scoppiare nel 2019 venne rimandata, ma nulla poterono Banche centrali e Governi di fronte all’improvvisa pandemia mondiale che esploderà da lì a qualche mese: patatrac! Lo Stato, buttato fuori dalla porta rientra dalla finestra. Tutti quanti, come un tempo furono contro lo Stato, sono ora a favore dell’intervento statale. Anche la rigida Merkel si piega alle necessità del capitale: occorre salvare questo modo di produzione, l’egoismo dei singoli capitali nazionali deve essere messo da parte: non va salvato questo o quel capitale specifico. Va salvato il Capitale! Lo Stato deve adempiere a questo compito, e lo compirà!
L’Ue ha varato il Recovery Plan, il Patto di stabilità[13] è solo momentaneamente sospeso; così, all’interno della medesima cornice istituzionale (Fiscal compact, ecc.) gli Stati possono spendere in deficit. Ora si pongono le premesse, debitorie, per un dopo pandemia: quando la “sospensione” del Patto di Stabilità cesserà, vedremo all’opera gli stessi meccanismi ideologici e gli stessi esiti nefasti sulle classi popolari che abbiamo sperimentato negli anni Ottanta e seguenti.
Biden si presenta come il nuovo Roosvelt e il suo piano di stimoli fiscali è senza riscontro storico. Le Banche centrali di tutto il mondo stanno stampando moneta. Fino a ieri, questa stampa di moneta era vietata anche solo pensarla. Pensarla significava che si potevano fornire servizi all’umanità mediante la monetizzazione delle spese pubbliche, senza avere la necessità di ricorrere ai mercati finanziari. Al pubblico oggi viene detto che si adottano politiche monetarie “non convenzionali”, così dietro una parola che sembra esser molto “tecnica”, si nasconde la solita verità del Capitale: si fa ciò che si deve (per i capitalisti) non ciò che la teoria predica!
Le classi subalterne sanno ciò che si deve fare per loro (scuola, sanità, lavoro, ecc.), ma non sanno che bisogna farlo contro altre classi. Esse sono abituate e indotte a credere nello Stato super partes, e coerentemente a questi insegnamenti, allo Stato si rivolgono per risolvere i loro problemi. Ma il clima socioeconomico e geopolitico è mutato: lo Stato non ha la necessità di ascoltarle, e il capitale è transnazionale, non ha interesse a quello che accade su questo o quell’altro territorio nazionale specifico. Il capitale transnazionale ha il mondo come palcoscenico.
Gli Stati, allora, entrano in competizione tra loro per attirare questo capitale transnazionale: riducono le imposte sui profitti, “addolciscono” i sindacati, agevolano lo sviluppo di corpi sociali intermedi al fine di offrire servizi che lo Stato cessa di erogare (terzo settore e ong), ecc., creando in tal modo un terreno adatto allo sviluppo dei profitti e in pari tempo mortifero per le classi subalterne. Ma queste ultime si rivolgono allo Stato (necessariamente sordo), così è stato loro insegnato. Ronald Reagan, ironia della Storia, aveva ragione: lo Stato non è la soluzione è il problema! Le classi subalterne non vedono questa verità.
Oggi le masse subalterne hanno fatta propria l’idea che lo Stato può, e qualcuno dice, deve fare questo e quest’altro per il bene di tutti. Non ci si avvede che senza una spinta poderosa, senza il protagonismo in prima linea di coloro che “vogliono” non si ottiene nulla. L’attivismo di coloro che “chiedono” allo Stato porta in un vicolo cieco e disarma le masse subalterne della loro base economica scientifica.
Per ricevere dall’UE i finanziamenti per i PNRR, l’Italia dovrà fare delle “riforme”: per rilanciare una “buona occupazione”, una “crescita green”, sviluppare la capacità di affrontare “shock esogeni” (resilienza). Ma è del tutto fuori luogo esultare per il ritorno dello Stato interventista nell’economia.
«La gravità della situazione […] aveva già richiesto ciò che sarebbe stato raccomandato da Keynes.»
In assenza di lotte sociali ampie e continue, lo Stato diviene preda di lobbies economiche e finanziarie che ne guideranno l’azione, come ci ricorda Galbraith. Marx sapeva bene che lo Stato era il “comitato di affari della borghesia”; oggi diversi economisti sono costretti a riconoscerlo a denti stretti. Va salvato il Capitale! Lo Stato deve adempiere a questo compito, e lo compirà!
[1] A. Roncaglia, L’età della disgregazione. Storia del pensiero economico contemporaneo. Laterza, Bari-Roma 2019, p. 270
[2] È noto che il NextGenerationEU disporrà di 750 mld di euro a debito nei confronti dei mercati finanziari. Questi debiti, e relativi interessi, dovranno essere rimborsati con le imposte pagate dalle classi lavoratrici europee.
[3] È possibile dimostrare, teorema di Haavelmo, che effetti espansivi su reddito e occupazione si hanno anche con una spesa pubblica in pareggio, sebbene gli effetti siano inferiori a quelli derivanti da una spesa pubblica in deficit.
[4] J. K. Galbraith, Storia dell’economia, RCS Rizzoli Libri S.p.A., Milano, 2012, p.224
[5] Ibidem, p. 228
[6] Ibidem, p. 233. Nostri i corsivi.
[7] Diverrà un problema per i cosiddetti Post-Keynesiani, per i quali una distribuzione del reddito sfavorevole ai salari pone un freno allo sviluppo economico. Per tutti M. Lavoie, La Economia Postkeynesiana. Un antidoto al pensiamento unico, Icaria Editorial s.a., Barcellona 2005.
[8] La periodizzazione grossolana serve solo a dare un’idea della fase storica in oggetto.
[9] La vittoria della lotta contro la forza lavoro mondiale è il presupposto per lo scatenarsi, libero da altri pensieri, della lotta tra capitali.
[10] Carmen M. Reinhart – Kenneth S. Rogoff, Growth in a time of debt, Working Paper 15639, National Bureau of Economic Researche, Cambridge, Massachusetts (Usa), gennaio 2010
[11] Gli errori e le conclusioni errate sono state rivelate da: Thomas Herndon- Michael Ash – Robert Pollin, Does High Public Debt Consistently Stie Economic Growth? A Critique of Reinhart and Rogoff, Aprile 2013, Working Paper Series, n. 322, PERI, Universitu of Massachusetts
[12] K. Marx, Poscritto alla seconda edizione, Londra, 24/1/1873, [tra.it, Editori Riuniti, Roma 1994, p. 40]
[13] Le parole “e crescita” che lo accompagnavano negli anni Novanta, sono scomparse.