articoli

La paralisi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio

di  
Al. Sc.

Con Trump, l’ordine internazionale basato su regole condivise è stato paradossalmente messo in discussione dagli Stati Uniti, il suo principale architetto, garante e beneficiario (sovranità del dollaro, supremazia delle industrie militari ed informatiche, dominio nel sistema finanziario). Per certi versi, in una prima fase Trump è sembrato seguire quella che Richard Haass, il presidente del Council on Foreign Relations (un think tank molto influente e legato a Wall Street), ha definito “the withdrawal doctrine” (la dottrina della ritirata), rispetto all’“imperial overstretching” (Kennedy, 1990) che ha caratterizzato la presidenza di George W. Bush (e di cui Haass è stato uno degli architetti chiave) e che era stato in gran parte realizzato a spese delle tradizionali zone di influenza della Russia in Europa Orientale e Medio Oriente.

Ma, anche se Trump ha sostenuto di voler combattere il “globalismo” e che gli Stati Uniti “non sono più i gendarmi del mondo”, non bisogna dimenticare che Trump è un nazionalista convinto che affermava di voler riaffermare il potere dell’America sul mondo. Questa non è certo una visione di moderazione e ritiro strategico o di “isolazionismo”.

Nei 4 anni della sua presidenza, Trump ha cercato di mettere fuori gioco l’OMC per sostituirla con un’architettura di governance commerciale ancora più asimmetrica, basata su accordi bilateriali e su misure protezionistiche, con l’obiettivo di contenere la Cina e di riportare gli Stati Uniti nella posizione di controllo globale da cui si sentivano ingiustamente estromessi.

Per questo gli Stati Uniti sono entrati in contrasto con l’Unione Europea su questioni critiche come il commercio, i rapporti economici con la Cina e la Russia, i cambiamenti climatici, le tasse, la privacy, l’Iran e le spese militari. Riguardo ai rapporti economici con la Cina, ad esempio, la UE ha proposto una rivitalizzazione dell’OMC e un pressing multilaterale affinché la Cina riveda i sussidi statali a favore delle imprese e apra (liberalizzi) maggiormente il suo mercato interno dei servizi.

Da una decina di anni non si registrano progressi significativi nei negoziati multilaterali e l’OMC – che insieme al FMI costituisce la spina dorsale del sistema multilaterale globale – è stata la prima vittima della guerra commerciale iniziata nel marzo del 2018 tra gli Stati Uniti, la Cina e l’Unione Europea.

Oggi, ognuno di loro è in flagrante violazione delle regole dell’OMC e questo mette in serio dubbio la credibilità dell’istituzione come protettrice di un sistema commerciale regolamentato. L’imposizione unilaterale di dazi su acciaio, alluminio e altri prodotti da parte degli Stati Uniti ha provocato l’immediata protesta all’OMC da parte dei Paesi colpiti (Canada, Cina, Messico, Norvegia, Russia, Turchia e Unione Europea), che hanno anche unilateralmente colpito con dazi analoghi prodotti americani, non rispettando le regole dell’OMC che prevedono che eventuali azioni di ritorsione debbano essere autorizzate dal proprio Organo di risoluzione delle dispute (non a caso gli USA hanno chiesto all’OMC di censurare queste azioni), il cui funzionamento però è stato paralizzato, perché gli USA si sono rifiutati di nominare i tre componenti scaduti e andati in pensione.

La linea di difesa di Washington è stata abbastanza chiara: secondo la clausola della sicurezza nazionale, l’OMC non può “impedire a nessuna parte contraente di intraprendere azioni che ritiene necessarie per la tutela dei suoi interessi essenziali di sicurezza” e solo gli Stati Uniti possono decidere ciò che è richiesto per proteggere quegli interessi. In quanto tale, non solo le sue azioni erano assai probabilmente valide secondo le regole dell’OMC, ma erano anche, di fatto, al di là di ogni revisione critica. Però, le tariffe imposte dagli USA sulle importazioni dalla Cina (marzo/settembre 2018 e maggio 2019), sono state giustificate in base all’articolo 301 del Trade Act del 1974 e sappiamo che a seguito di un caso del 2000 portato all’OMC dall’UE, l’OMC ha già ritenuto invalide le restrizioni commerciali imposte in base a questa legge e nel settembre 2020 ha affermato che gli Stati Uniti hanno violato le regole del commercio internazionale imponendo dazi alla Cina nel 2018 durante la guerra commerciale iniziata dagli USA. E’ assai probabile che se l’OMC avesse deciso di sanzionare gli Stati Uniti dopo un lungo iter processuale, questi avrebbero semplicemente uscire dall’organizzazione. E se così non fosse, qualsiasi Paese potrebbe giustificare future restrizioni commerciali sulla base del suo interesse nazionale. Nel frattempo, se l’OMC avesse stabilito che Canada, Cina, Messico e Unione Europea hanno violato le sue regole, dando ragione agli Stati Uniti, questi Paesi avrebbero potuto scegliere di lasciare l’organizzazione.

Trump è uscito di scena e Biden ha affermato che gli Stati Uniti vogliono rafforzare il sistema multilaterale. Ma, ad oggi, il funzionamento del Trade Appellate Body, che opera come ultimo grado di giudizio dell’organismo per la risoluzione delle controversie commerciali tra i 164 Paesi membri dell’OMC, rimane bloccato. Le ultime sentenze di questo Organo di Appello sono state quelle relative ai casi Airbus (2019) e Boeing (2020) che hanno legittimato una piccola guerra protezionistica tra Stati Uniti e Unione Europea.

Al blocco americano, l’Unione Europea, la Cina e altri 21 Paesi hanno reagito, istituendo un proprio organo d’appello ombra ad hoc per mantenere gli standard e le procedure dell’OMC. Il sistema di risoluzione delle controversie dell’OMC non è perfetto, ma piuttosto che fare proposte costruttive su come migliorarlo, cosa che alcuni Paesi hanno provato a fare, l’amministrazione Trump si era disimpegnata del tutto. Voleva distruggere il vecchio sistema senza avere prodotto un progetto alternativo che non fosse quello della “legge della giungla” in cui prevale il più forte attraverso negoziati bilaterali. Ha anche bloccato per mesi la nomina di Ngozi Okonjo-Iweala a direttore generale dellOMC, avallata poi invece dalla nuova amministrazione Biden.

Trump vedeva le regole del commercio internazionale come delle soffocanti limitazioni della potenza economica americana secondo il suo programma “Make America Great Again” (MAGA). “L’OMC ha trattato gli Stati Uniti molto, molto male per molti, molti anni e spero che cambino i loro modi.” L’amministrazione Trump ha aumentato le tariffe a proprio piacimento e ha cercato di negoziare tariffe speciali con Paesi specifici – due violazioni di base delle regole dell’OMC. Gli Stati Uniti hanno “un grosso svantaggio con l’OMC. E non stiamo pianificando nulla ora, ma se non ci trattano correttamente, faremo qualcosa“, aveva detto Trump, senza elaborare.

Al G-20 di Buenos Aires, era stato preso l’impegno alla “necessaria riforma dell’OMC per migliorarne il funzionamento”, senza che però venisse definito in quale modo, anche se USA, Giappone e Unione Europea hanno sostenuto in altre sedi la necessità di introdurre criteri per la graduazione dallo status di Paese in via di sviluppo e regole più efficaci per disciplinare le sovvenzioni industriali e ridurre i vantaggi considerati sleali per le imprese di proprietà statale (con un chiaro riferimento alla Cina).

E’ bene ricordare che l’OMC e i numerosi accordi multilaterali, regionali e bilaterali di libero scambio che sono proliferati negli ultimi decenni hanno promosso la deregolamentazione dei flussi transnazionali di capitali e beni, imponendo a molti Paesi un regime globalizzato di concorrenza relativamente libera tra gigantesche global corporations.

Allo stesso tempo, però, l’OMC e le altre istituzioni sovranazionali hanno spesso mantenuto e persino rafforzato le normative interne – sul movimento e l’accesso delle persone, sulle tasse, i salari, gli standard industriali e molto altro – che alla fine sono responsabili delle discontinuità giuridiche e sociali tra Paesi, che queste stesse grandi imprese sfruttano per massimizzare i profitti.

In particolare, le aziende traggono vantaggio dalle enormi diseguaglianze nella remunerazione del lavoro e discrepanze nelle normative in materia di lavoro e ambiente che, combinate con la soppressione delle tariffe e altre restrizioni sul commercio e gli investimenti internazionali, consentono loro di fabbricare beni o fornire servizi in Stati con salari molto più bassi e con meno regolamentazioni di quelli dei principali Paesi consumatori in cui i loro prodotti e servizi sono infine venduti. Questo meccanismo globale aumenta i guadagni aziendali, riducendo al minimo i costi di manodopera e di regolamentazione, e costituisce il principale strumento di controllo dei flussi transfrontalieri di capitali, beni e servizi.

A Seattle, a fine 1999, in occasione della Conferenza Ministeriale dell’OMC chiamata a ratificare la globalizzazione economica, migliaia di persone in rappresentanza di un migliaio di organizzazioni non governative (sindacali, ambientaliste, religiose, degli agricoltori, dei consumatori, delle popolazioni indigene, dei movimenti delle donne) di 90 Paesi hanno protestato contro i piani di espansione degli accordi di “libero commercio”, sostenendo che questo avrebbe garantito la libertà delle grandi imprese di scandagliare il mondo alla ricerca di lavoro a basso costo nel contesto di una assenza di restrizioni riguardo ai diritti dei lavoratori e agli investimenti industriali che avvelenano l’ambiente. Un’idea semplice univa insieme le diverse componenti della protesta (inclusi gli anarchici violenti del “black bloc”) contro il summit dell’OMC di Seattle: che “un altro mondo è possibile” e che la salute, i diritti e la libertà degli abitanti del pianeta non devono essere sacrificati sull’altare dei profitti di un ristretto gruppo di imprese globali. Il meeting ufficiale dell’OMC è stato influenzato dal movimento di protesta e le trattative in corso sono fallite. La credibilità dell’OMC, però, è stata intaccata soprattutto dagli esiti limitati e deludenti dell’ultimo negoziato multilaterale avviato nel 2001, noto come “Doha Round”.

Articolo precedente
Marx, Keynes e il PNRR
Articolo successivo
Milano, durante e dopo la crisi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Compila questo campo
Compila questo campo
Inserisci un indirizzo email valido.