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Ma chi turba i sogni di Salvini, Meloni e Minniti?

di Stefano
Galieni

In piena pandemia il governo portoghese optò, con tutti i limiti derivanti da un apparato burocratico poliziesco e da difficoltà oggettive, per una scelta controcorrente rispetto alle politiche migratorie applicate nell’UE. Chiunque aveva avviato le pratiche per la regolarizzazione della propria presenza sul territorio nazionale diventava temporaneamente regolare. La misura, che scadrà il 31 luglio, dovrebbe avere una proroga. Da Lisbona, già in anni passati c’era stata una riforma non in linea con i parametri europei. Si poteva essere assunti nonostante l’assenza di documenti e, dopo un anno di impiego continuativo legale, quindi col versamento di contributi, si veniva ad avere gli stessi diritti in campo sociale dei cittadini lusitani. Un meccanismo che ha certamente alimentato anche pratiche di sfruttamento (salari non rispettati, contratti non corrispondenti alle mansioni, orari massacranti) ma che proponeva almeno e in tempi brevi una via di uscita.

Le pratiche burocratiche spesso richiedevano e richiedono anche tre anni per completare l’iter ma nel frattempo non si è a rischio di espulsione.

In Italia è sempre mancato il coraggio politico- indipendentemente dalle compagini governative che si sono succedute – di arrivare ad un provvedimento a regime. La scelta assurda operata attraverso la Bossi Fini secondo cui per poter entrare regolarmente in Italia bisogna avere già un contratto di lavoro effettivo non solo si è rivelata profondamente razzista e violenta ma sostanzialmente fallimentare. Gli stessi imprenditori interessati ad avere manodopera anche da qualificare – non solo lavoro nei campi o assistenza familiare – si sono ritrovati con un meccanismo che impediva, per le stesse esigenze di mercato, l’incontro fra domanda e offerta. Si è proceduti negli anni con “sanatorie”, ovvero provvedimenti emergenziali emanati dal governo di turno con cui si davano tempi e modalità specifiche per uscire dall’invisibilità, clamorosa quella del 2009 ricordata come quella quantitativamente più grande nel pianeta, e attraverso “decreti flussi” ovvero provvedimenti annuali con cui si permetteva a numeri limitati di persone, in base ai paesi di provenienza, di entrare regolarmente in Italia. Previsti con scadenza annuale già con la legge Turco Napolitano, ben presto, soprattutto con gli effetti della crisi del 2008, le quote di ingresso si sono ristrette (potevano entrare solo lavoratori stagionali di alcuni Paesi o persone come le collaboratrici familiari, necessarie a sostituire l’assente welfare) sino a quasi scomparire.

In questo modo le persone hanno smesso di entrare in Italia? Affatto, per anni, quando già l’attenzione era concentrata sugli sbarchi a Lampedusa o in Sicilia, da alcuni Paesi si riusciva ad entrare con un visto turistico valido 90 giorni. In quel periodo, spesso grazie alle reti familiari, si trovava lavoro e a quel punto si tornava (o si fingeva di tornare) al paese di provenienza per poi farsi chiamare dal datore di lavoro recependo la Bossi Fini. Oltre l’82% degli arrivi delle persone avveniva in questa maniera ma nel frattempo si guardavano con ossessione mediatica le coste meridionali. Tutto questo si è praticamente interrotto quando, i primi segnali sono giunti nel 2012, l’Italia tornava ad essere Paese di emigrazione. Al punto che chi arrivava da noi considerava il Belpaese come luogo di transito per raggiungere mete migliori e con migliori prospettive di inserimento sociale e lavorativo, come hanno fatto molti, soprattutto giovani, italiani.

Intanto il peggioramento delle condizioni di vita in Libia e in altri paesi del Nord Africa, il deterioramento della situazione in vaste aree dell’Africa Sub Sahariana, del Sud Est Asiatico dell’America Latina, ha fatto riaumentare le partenze. In Italia si resta bloccati da due fattori: si può restare solo chiedendo protezione internazionale se non asilo politico, tale richiesta, mediante il Regolamento Dublino, obbliga a restare nel primo Paese UE in cui si viene registrati.

Il lungo preambolo è necessario per comprendere tanto le ragioni che hanno portato, dopo tanti questo governo, a emanare un provvedimento di regolarizzazione delle lavoratrici e dei lavoratori presenti in Italia, quanto per evidenziarne i limiti che lo rendono totalmente insoddisfacente.

A poter essere regolarizzati attraverso i due commi che compongono l’art. 103 del cosiddetto Decreto Rilancio, recentemente convertito in legge senza reali modifiche, sono state soltanto alcune delle persone impegnate nei lavori domestici e di cura, chi è lavora in agricoltura, pastorizia e poco altro. Le domande di regolarizzazione, sottoposte ad una lunga serie di vincoli, potevano essere presentate a partire dal primo giugno. In un primo momento si era deciso di dare come data di scadenza il 15 luglio ma, data la lentezza con cui si è proceduto alla conversione in legge i termini si sono prorogati di un mese. Al 15 luglio, secondo il Viminale, erano state presentate secondo il comma 1 (richiesta di emersione formulata dal datore di lavoro) 123429 domande, di cui oltre 11 mila ancora in lavorazione. Poco più di 5000 sono state quelle inviate direttamente dal lavoratore (comma 2), il tutto con un ritmo di crescita finora di 3000 domande al giorno.

Sarà un miracolo se si supereranno alla fine le 200 mila richieste delle quali una parte rischia di essere respinta per numerose ragioni (il reddito del datore di lavoro non è sufficiente, la documentazione non risulta completa, ci saranno contrasti – peraltro già emersi – di interpretazione delle norme da parte delle questure ecc…) col risultato che si intaseranno i tribunali, nel frattempo i permessi, che ricordiamo hanno durata semestrale, scadranno, riportando in tempi brevi e in mancanza della convertibilità – non ancora confermata – di questi permessi, in normali permessi di lavoro, si tornerà, come amano dire gli esponenti non solo del centro destra, “clandestini”. Sarebbe bastato poco per quantomeno migliorare il provvedimento. Sarebbe bastato estenderlo ad altre categorie di lavoratori e lavoratrici come la logistica, la cantieristica, l’edilizia, il turismo, la ristorazione e il lavoro autonomo. Molte persone che hanno presentato domanda di regolarizzazione lavorano in questi comparti e sono costretti – per assurdo – a licenziarsi magari da un posto migliore per avere contratti (a volte finti) nei settori “sanabili” e nella speranza di poter poi tornare a fare il proprio lavoro. Gruppi che hanno provato a spingere in tal senso come GREI250 (www.grei250.it) hanno visto rigettati e non presentati gli emendamenti proposti in tal senso. Nel frattempo da una parte, nei casi migliori, ci si ritrova con persone ufficialmente assunte per un lavoro ma che in realtà ne svolgono un altro, nei peggiori in contratti fittizi, realizzati da intermediari e faccendieri italiani o appartenenti alle comunità di provenienza, il cui costo è ad oggi giunto anche a 8000 euro. Già per presentare normalmente la domanda il datore di lavoro deve versare 500 euro che sovente vengono fatte pagare al lavoratore, con questo meccanismo prevale la logica della truffa e del ricatto che rischia di aumentare mano mano che si avvicina la scadenza del termine oltre cui non sarà più possibile provare a rendersi visibili. Alcune reti di movimento come “Siamo qui, Sanatoria subito”, stanno preparando mobilitazioni per la “Sanatoria delle escluse e degli esclusi”, inoltre hanno attivato una rete di sportelli per raccogliere le domande e preparare ricorsi ai dinieghi.

Ma da ultimo, ci sono due osservazioni da fare e che rimandano al lungo preambolo storico. Il provvedimento del Conte bis, doveva in teoria affrontare il problema del caporalato e dello sfruttamento in agricoltura dove il lavoro e le condizioni di vita assumono spesso livelli paraschiavistici. Nulla di tutto questo è accaduto, solo il 13% delle richieste riguarda il comparto agricolo e questo grazie ad un boicottaggio delle associazioni di categoria che non vogliono rischiare di dover pagare salari corrispondenti al contratto nazionale a chi lavora nei campi. Il restante 87% è composto da lavoratori e lavoratrici impegnati nel lavoro domestico e di cura, altrettanto sfruttati ma molto spesso poi impegnati, come scrivevamo in tutt’altre mansioni. Ma è il secondo aspetto a portare alla quadratura del cerchio. Chi ha presentato le domande di regolarizzazione? Quelli che turbano i sogni di Salvini, Meloni e Minniti? I richiedenti asilo altrimenti definiti “clandestini”? Solo in parte, anche perché interpretazioni estremamente pittoresche delle questure, emanate attraverso circolari (a volte smentite dallo stesso Viminale) altre volte realizzate con aggiunta di frasi scritte a penna, hanno provato ad imporre ai richiedenti asilo che volevano emergere dal lavoro nero di rinunciare alla protezione richiesta. Semplificando: o chiedi protezione e, se ti viene negata, sarai espulso, o cerchi di lavorare in maniera visibile, ma devi rinunciare a poter dire che nel Paese da cui arrivi sei perseguitato. Molte e molti che hanno presentato la domanda di regolarizzazione sono in realtà presenti in Italia da tanti anni, hanno magari perso il lavoro e con esso il diritto a restare in Italia, hanno pagato la crisi e dovrebbero, secondo il legislatore, continuare a pagarla ancora restando a farsi sfruttare nell’invisibilità. Saranno oltre 400 mila le persone che resteranno fuori da questo piccolo spiraglio aperto, persone che, in emergenza covid non ancora conclusa, sarebbe anche utile regolarizzare e poter inserire a pieno titolo nel SSN a garanzia della salute pubblica generale. Ma nessuno ha il coraggio di avanzare un ragionamento simile che è di puro buon senso e di interesse per la collettività. Nessuno o quasi vuole pensare a provvedimenti che non abbiano carattere emergenziale ma che permettano a chi vuole trovare in Italia, meglio ancora in Europa, un futuro, di non avere una strada disseminata di mine. Sono mine che non danneggiano solo chi arriva, nuocciono anche e soprattutto ai diritti di tutte/i

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