Non sono uno specialista di una realtà complessa come è quella cinese, ma torno ad affrontare questo tema al quale ho dedicato altri articoli pubblicati da Transform Italia, perché ritengo sia importante per capire come evolverà per tutta una lunga fase storica la situazione globale. Conoscere meglio la realtà cinese penso sia necessario per le forze che aspirano ad un cambiamento sociale al fine di definire una strategia di medio e lungo periodo e di individuare le forze sociali, politiche, istituzionali che possono operare in tale direzione.
Quale valutazione diamo dell’idea di “socialismo” espressa dalla dirigenza cinese? Come consideriamo il modo col quale la Cina affronta alcune delle contraddizioni globali che stiamo vivendo? Come pensiamo che l’Italia e l’Europa debbano muoversi in relazione a questa che si sta delineando come la potenza emergente? Interrogativi complessi che meriterebbero, credo, uno sforzo di definizione da parte delle strutture politiche che a livello nazionale e sovranazionale si collocano nel campo del cambiamento sociale e politico. Evitando due errori contrapposti: quello dell’agiografia e quello della demonizzazione.
Questi orientamenti si possono entrambi riscontrare in alcune forze della sinistra. Da un lato chi ripropone verso la Cina la logica “campista” già sperimentata, fallimentarmente, dal movimento operaio e comunista nei confronti dell’Unione Sovietica. Dall’altro chi aderisce troppo facilmente alla campagna ideologica sulla Cina come ultimo grande paese “totalitario”, per il quale si tratta solo di auspicare il trionfo della “democrazia”, secondo un modello che in verità nell’Urss e nei paesi dell’Europa centro-orientale, a trent’anni di distanza, non ha prodotti grandi successi.
Per farsi un’idea sulla Cina che possa orientare una posizione politica, vengono in aiuto due libri pubblicati da poco. Il primo ha come autore Simone Pieranni, giornalista del Manifesto, che la realtà cinese la segue da anni. Il suo libro, pubblicato da Laterza, si intitola “Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina” (pp. 158, euro 14,00). Il secondo esce per le edizioni Bordeaux, è curato da Paolo Ciofi, Presidente onorario dell’associazione “Futura Umanità-Associazione per la storia e la memoria del PCI”, ed è intitolato “Più vicina. La Cina del XXI secolo” (pp. 161, euro 16,00). In questo caso si tratta di una raccolta di interventi di interventi di autori che guardano alla realtà cinese con occhi diversi e toccando anche differenti aspetti. Tutti contributi interessanti e stimolanti anche e proprio per le loro differenze di prospettiva.
Quella che segue non è una recensione ma un tentativo di evidenziare alcuni temi che sollecitano riflessioni di valore più generale. In questo entrambi i diversi contributi, giornalistico quello di Pieranni, più analitici e scientifici quelli raccolti da Ciofi, ci segnalano l’importanza della “questione cinese”. Per il primo la Cina racconta e prepara il nostro futuro, per la raccolta di saggi del volume delle edizioni Bordeaux, la Cina sarà sempre più vicina. Molto più oggi di quanto non lo fosse negli anni ’60, quando uscì nelle sale il film di Marco Bellocchio. Allora era più che altro un mito che suscitò energie di rinnovamento radicale, ma che in parte le indirizzò su binari morti per assenza di consapevolezza critica. Oggi, nelle differenze del contesto sociale e culturale, presenta contraddizioni e nodi da sciogliere non così lontani da quelli che anche noi abbiamo (o avremo) da affrontare.
Socialismo o capitalismo?
Sulla Cina esiste un problema di definizione che non è solo nominalistico ed è affrontato in particolare nel contributo di Vladimiro Giacché. Siamo in presenza di un “socialismo di mercato” o “socialismo con caratteristiche cinesi” per usare formule usate dalla stessa dirigenza cinese? Oppure ad un “capitalismo di Stato” come sostengono altri. Nel suo saggio, Alberto Bradanini, che è stato ambasciatore italiano a Pechino, usa questa formula: “un burocratismo autoritario al servizio del capitalismo di Stato (e della classe di Stato)”. Mentre lo stesso Giacchè, dopo aver dato spazio alle diverse e contrastanti definizioni, lascia aperta la conclusione, evidenziando comunque che si tratta di un modello alternativo a quello capitalistico dominante e per tanto tale da inverare la previsione di Francis Fukuyama dell’inizio degli anni ’90 per il quale la storia era finita, perché ormai non esisteva altro modello sociale di quello interpretato dal capitalismo americano. (In un mio precedente articolo ho parlato di “capitalismo organizzato”, a proposito della Cina, senza voler dare a questa definizione una pretesa di scientificità superiore ad altre).
Il socialismo inteso dalla leadership cinese si basa innanzitutto su una formulazione di Deng Xiaoping, secondo la quale esso si definisce innanzitutto come strumento per lo sviluppo delle forze produttive, perché altrimenti si ripartisce solo la povertà. Un indirizzo che ha prodotto un risultato che non si può certo sottovalutare perché ha determinato l’uscita dalla povertà di 800 milioni di persone, come ricordano i diversi autori, ma che oscura completamente l’altro aspetto fondamentale della visione marxista, ovvero il socialismo e il comunismo come processi di liberazione da ogni forma di sfruttamento e di alienazione.
Nella visione cinese del socialismo tende a scomparire la lotta di classe e in genere qualsiasi forma di conflitto sociale in nome della “società armoniosa” (che secondo molti esprime una visione più confuciana che marxista). Resta il principio autoritario della direzione dall’alto e del monopolio politico posseduto dal gruppo dirigente del Partito. Il che lascia del tutto impregiudicato il tema del rapporto tra socialismo e democrazia.
Per l’élite cinese il ruolo del partito è di garantire il miglioramento economico (che porterà la Cina ad avere il più grande ceto medio di tutto il mondo), la possibilità di acquisire beni e servizi insperati dalle precedenti generazioni e di evitare ogni forma di contrasto sociale. Sicurezza e benessere sono i due elementi che possono garantire la legittimazione del ruolo monopolistico del Partito, il quale si presenta (lo rileva Pieranni) come la struttura che raccoglie e consolida l’élite economica, sociale e culturale del Paese, piuttosto che l’organizzazione di coloro che dispongono di uno specifico punto di vista sul futuro del Paese.
“Sviluppo delle forze produttive” e “società armoniosa” comportano una serie di scelte politiche che escono fortemente rafforzate dalla crisi del Coronavirus, che ha colpito duramente la Cina, ma che questa è riuscita a gestire con più efficacia di molti altri paesi, anche capitalisticamente avanzati, a partire dagli Stati Uniti, al punto da potersi proporre come modello. Il primo obbiettivo si concretizza in un notevole sforzo di innovazione e di diffusione dell’uso delle tecnologie di cui ci parla ampiamente Pieranni nel suo libro.
Dall’uso ricorso sempre più diffuso di piattaforme come WeChat, alle ipotesi di sviluppo delle Smart City (ecologicamente e socialmente sicure), all’uso sempre più integrato dell’Intelligenza Artificiale. Pieranni descrive le potenzialità di questo potenziale primato digitale della Cina ma anche (con una certa ispirazione focaultiana nell’individuare la tendenza del potere a “sorvegliare e punire”) gli elementi distopici che sono insiti in questi sviluppi. La disponibilità e il controllo dei dati diventa una ricchezza fondamentale per la prossima fase di sviluppo del capitalismo e la Cina, per le sue dimensioni, per la sua struttura sociale e politica, è in grado di disporne in quantità enormi. (Sulle varie implicazioni di questi sviluppi tecnologici, rimando agli articoli di Roberto Rosso, qui su Transform Italia).
Il potenziale primato tecnologico cinese preoccupa gli Stati Uniti, innanzitutto, ma anche la Germania (e quindi l’Europa). Non tanto per il timore, avanzato per ragioni propagandistiche, che i “nostri dati” finiscano nelle mani del Partito Comunista Cinese, quanto perché l’egemonia in ambito tecnologico, che nel dopoguerra è spettata agli Stati Uniti (e in misura minore alla Germania) è uno degli strumenti attraverso i quali una potenza è in grado di orientare l’economia mondiale secondo i propri interessi. Un altro strumento è la disponibilità di una moneta cardine degli scambi commerciali (e qui il dollaro continua a farla da padrone) e, il terzo, è il potenziale militare (e anche in questo campo gli Stati Uniti sono ancora saldamente al primo posto).
Il Partito Comunista Cinese piega la visione del socialismo sul versante dello sviluppo economico (e la crescita delle “forze produttive” attraverso l’innovazione tecnologica ne sono un elemento fondamentale) a discapito dei processi di liberazione e di estensione democratica. Ci si può chiedere se, per le correnti anticapitaliste e antiliberiste, si possa considerare ormai risolto il tema dello sviluppo economico (per il quale si pone semmai solo il tema redistributivo) e se quindi esistano già le condizioni materiali per un fondare nell’oggi un processo di liberazione umana.
Lo Stato dirige l’economia
Un secondo tema che emerge dai due libri, riguarda il ruolo della Stato nella direzione economica. La Cina ha assorbito elementi dell’economia di mercato e del profitto come logica dinamica dello sviluppo economico (a ricaduta anche lo sfruttamento del lavoro salariato come motore della produzione di ricchezza), mantiene però un forte ruolo di direzione politica dell’economia attraverso le imprese a proprietà statale e meccanismi di pianificazione, ovvero di definizione degli obbiettivi di interesse generale a cui gli attori economici devono tendere.
E’ la politica (e in concreto il gruppo dirigente del Partito) a definire quali sono i grandi obbiettivi da raggiungere, ad esempio l’eliminazione della povertà estrema, la creazione di una modesta prosperità diffusa, ma anche quelli più specifici come ad esempio la diffusione del 5G. Un assetto in contrasto con l’idea liberista (il Washington consensus ampiamente citato dai diversi autori) secondo il quale il mercato, ovvero l’azione spontanea degli attori economici, imprese o singoli che siano, produce il meglio per tutti. Lo Stato deve solo definire le regole, secondo l’ideologia thatcheriana, ricordata in questi giorni (“Dio li fa e poi – ideologicamente – li accoppia”, verrebbe da dire) dalla renziana Bellanova. Poi è il “privato” che deve gestire e quindi decidere che cosa, come, dove e con chi produrre. E stabilire sulla base dei rapporti di forza così costituiti quanto della ricchezza socialmente prodotta possa essere privatamente appropriata dal profitto e dalla rendita e quanto lasciato ai salari e al welfare.
La sinistra, quella che non è solo una destra mascherata, ritiene invece che la politica debba prevalere sull’economia e che la definizione dell’interesse pubblico e sociale debba primeggiare sull’insieme degli interessi privati. In questo c’è una convergenza con lo spirito cinese, da cui però diverge sul fatto che l’interesse collettivo sia poi definito da un vertice politico ristretto che funziona per cooptazione e con un dibattito pubblico che sebbene presente a livello di reti sociali (e qui forse sarebbe interessante avere più informazioni non limitate ai meccanismi censori), resta assente nei grandi mezzi di informazione.
Globalizzazione, cooperazione sociale, deglobalizzazione
Un terzo tema che la Cina ci sottopone è quello della globalizzazione. La stampa cinese in questi mesi ha ampiamente argomentato la difesa del processo di globalizzazione, inteso come sviluppo dell’integrazione economica e tecnologica a livello mondiale. Naturalmente si può pensare che questo sia legato al fatto che in questa fase la Cina tragga notevoli benefici da questo processo. Gli Stati Uniti (versione Trump, ma non solo) che sono stati promotori e garanti dell’ordine liberale internazionale del dopoguerra, cominciano a pensare che oggi quel sistema si stia sviluppando in una direzione che rischia di far loro perdere il primato globale.
Trump, seguendo una politica perseguita da tempo dalla destra repubblicana, sta facendo saltare tutti i meccanismi di governo mondiale, sia politico che economico. Si è visto anche nel caso dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, dalla quale è uscito, mentre la Cina la difende. Non perché l’OMS sia subalterna alla Cina (in una certa misura, essendo una struttura intergovernativa, è subalterna a tutti gli Stati) ma perché risponde ad un’idea di gestione condivisa dei problemi globali.
A sinistra oggi si parla di “deglobalizzazione” (ne parla ad esempio Monica Di Sisto, sul primo numero di “Su la testa”), ritenendo che il processo di integrazione dell’economia a livello mondiale abbia prodotto maggiori condizioni di sfruttamento nei paesi capitalistici avanzati senza offrire vere prospettive di sviluppo ai paesi del Terzo Mondo. Certo non è stato così per la Cina e per i cinesi che invece da questo processo hanno ottenuto indubbi benefici.
Ora nella globalizzazione sono intrecciati due processi diversi. Il primo è la socializzazione delle forze produttive, ovvero viene sviluppata la cooperazione sociale ai fini della produzione di beni che servono a tutti e non solo alle oligarchie. Questo è un aspetto che non può essere semplicemente soppresso senza danno. Diverso è l’effetto del controllo capitalistico di questa cooperazione sociale, con le ricadute in termini di finanziarizzazione, sfruttamento, distruzione della natura ecc. Scorporare i due elementi non è facile ma credo sia operazione più vicina all’ispirazione del movimento che venne correttamente definito “altermondialista” e non fu invece “sovranista”.
Una contraddizione che è presente nella strategia cinese, e che mi pare non abbastanza evidenziata nei libri qui considerati, è quella di integrare un sistema che utilizza meccanismi capitalistici sottoposti a una direzione politica dell’economia integrandolo in un assetto economico mondiale che resta capitalistico e di un capitalismo di impianto liberista. Se per i cinesi questo non è un problema perché vedono possibile e necessaria la cooperazione tra modelli diversi, la logica liberista è una logica intrinsecamente “totalitaria”, tende a non tollerare la convivenza con principi economici diversi.
Anche l’Unione Europea, oltre agli Stati Uniti, contesta il fatto che la presenza cinese sia spesso garantita da imprese di proprietà dello Stato. Il paradosso, dal punto di vista liberista, è che questa contestazione avviene perché le grandi imprese cinesi godrebbero di “aiuti di Stato” ma anche perché risultano – in vari ambiti – più efficienti di quelle private occidentali. Mentre per definizione, nell’ortodossia liberista (come da citazione della ministra “Thatcher” Bellanova, sopra richiamata) lo Stato non sa gestire attività economiche ed è sempre meno efficiente del privato.
La Cina tende a proporsi, ed in parte ad essere, un modello alternativo di sviluppo economico a quello delineato dal “Washington consensus”, ma accettando contemporaneamente di interagire con un mondo che continua sulla sua vecchia strada. E gli elementi autoritari presenti nel modello cinese sono tali da non poter pensare realmente di diventare esportabile nei paesi capitalistici avanzati (e in una parte di quelli più arretrati). Qui c’è inevitabilmente un punto di conflitto.
In conclusione la Cina (e i due libri che abbiamo richiamato) ci sollecita a discutere di: rapporto tra sviluppo economico e liberazione in un progetto di alternativa di società; di primato della politica sull’economia e di espansione della democrazia; di globalizzazione e deglobalizzazione. Insomma come ci vogliono segnalare gli autori dei testi richiamati è proprio vero che parlando di Cina si può dire: “de te fabula narratur”.