Nel vortice delle notizie e delle informazioni che rimbombano nel circuito mediatico, tanto tradizionale che social, alcune vicende sedimentano altre spariscono od ottengono, scarsa visibilità. Non solo in Francia, ma in Germania, Gran Bretagna, Spagna, Portogallo, Belgio, numerose e potenti sono le agitazioni, che coinvolgono soprattutto il settore dei trasporti, ma scarne le informazioni che arrivano da noi – solo in caso di incidenti se ne dà conto – e, tranne eccezioni, cala un silenzio micidiale sulle motivazioni che inducono ad incrociare le braccia. Questo perché, nonostante tutto, uno strumento antico come l’interruzione dei servizi e della produzione, rischia di creare processi di emulazione, di far ipotizzare che ci siano ragioni profonde per cui persone la cui vita e il cui lavoro si suppongono simili alla propria, scelgano di non rassegnarsi a provvedimenti vissuti come soprusi. Sono informazioni che rompono l’approccio emotivo all’informazione e possono produrre riflessione, comparazione, svegliare insomma da un torpore rassegnato. In Italia e non solo, le testate più autorevoli, i programmi di informazione e di approfondimento, i notiziari, tendono invece a realizzare una gerarchia standardizzata dei fatti capace di creare paure (come l’evolversi della guerra o le notizie di cronaca nera), di commuovere, di stupire, scandalizzare, indignare, a volte anche divertire o incuriosire, reazioni in gran parte emotive legate a vicende che durano l’arco di poche ore e che rapidamente vengono rimosse per far posto ad altre. Non importa neanche appurare se si riferiscano a fatti realmente accaduti, inventati di sana pianta o ricostruiti a dovere, ad uso e consumo di un pubblico di cui si pretende di conoscere già le esigenze e le aspettative. Si tratta comunque di merce usa e getta, che non lascia memoria e non induce a connessioni fra cause ed effetti, in cui non esistono dimensioni temporali ma un eterno presente per molti versi statico. Informazione da selfie, in cui riconoscere l’immutabilità del mondo in cui si vive, che non fa mettere mai in discussione la percezione della condizione umana né lascia spazio al libero arbitrio, alla possibilità di mutare il corso delle cose. Tutto è predefinito e i fruitori delle informazioni non possono far altro che assistere passivamente, al massimo tifare o riconoscersi, commentare al massimo, ma senza mai poter uscire da un conformismo stagnante. Anche gli haters che vivono a proprio agio in questa dimensione, giocano un ruolo predeterminato, confermano l’esistente con il livore, sono subalterni all’incapacità di criticare alla radice quanto accade intorno, mancando riflessione, messa in discussione, cultura politica e non. La dissoluzione di chiavi interpretative fondate sull’uso di ideologie diverse dall’unica dominante, crea assenza di confronto, conflittualità. Nulla va più confutato o analizzato, è inutile. Il mondo è così e così sarà per sempre, al punto che si passa indenni (si fa per dire) attraverso la condizione di crisi economica e sociale che si reitera nel tempo, attraverso una pandemia, perfino attraverso guerre che si avvicinano pericolosamente. Si rifiuta la guerra ma poi non se ne traggono le conseguenze, si vive in luoghi resi insicuri non certo dalla microcriminalità ma dalla povertà incombente, da un clima devastato, dalla riduzione atomizzata delle relazioni sociali, da assenza di futuro in cui prospettarsi, dal precariato che abbraccia ogni angolo dell’esistenza, ma si resta, nella maggior parte dei casi, passivi, arrabbiati, soli e rassegnati.
Il combinato disposto fra atomizzazione della vita quotidiana (frammentazione nei luoghi di lavoro, scarsità di vita aggregativa, frantumazione delle reti sociali e dei corpi intermedi) e ruolo della comunicazione mainstream, insieme ai processi di svuotamento della vita democratica nelle istituzioni, hanno permesso che, anno dopo anno, la partecipazione critica rispetto a quanto avviene nel Paese, perdesse sempre più ogni forma di spinta propulsiva. L’Italia ad oggi è teatro di piccoli conflitti frammentati, di vertenze che raramente riescono a convergere e a contaminarsi e darsi dimensione politica. Alle responsabilità soggettive e oggettive della cultura dominante -che fa il suo mestiere – non c’è stata capacità di far fronte, si continua a subire un’egemonia che è insieme di contenuto, di linguaggio e di metodo. I mondi della sinistra non omologata, da tempo, continuano a confrontarsi all’interno di una bolla che si va sempre più restringendo e da cui sembrano inadeguati ad uscire. La cassetta degli attrezzi con cui si dovrebbe guardare alla realtà per trasformarla è sempre meno utilizzata e rinnovata, si reiterano modalità rituali di controcanto che restano flebili e poco ascoltabili, considerate residuali, inutili a chi vede la propria qualità della vita inesorabilmente peggiorata. C’è un gap comunicativo. Mentre le culture neoliberiste sfrecciano, disseminando i corpi e le menti delle persone raggiunte del proprio marchio, il nostro mondo è spesso sospeso fra una incapacità di accettare di essere nel XXI secolo, rimanendo con le categorie di quello passato e la comprensione di aspetti parziali ma mai adeguati a ricomporre quanto avviene intorno. Un esempio che riguarda espressamente la comunicazione. Permane, anche se sottaciuta, l’idea che il consenso, la capacità di convincere della validità delle proprie tesi, sia direttamente proporzionale ai minuti di presenza nei programmi televisivi, in particolare nei tg e nelle fasce di massimo ascolto. La quantità che è in grado di tradursi in riconquista, non certo a breve termine, di egemonia. Fermo restando il fatto che, se non si ha modo di essere visibili sui media mainstream, semplicemente non si esiste, è il caso di domandarsi quanto il problema sia unicamente di minutaggio strappato al messaggio dominante. La mutazione dei codici della comunicazione e della circolazione di informazione, che si basa, come già detto, sul divieto di far sedimentare consapevolezze collettive, va analizzata ed elaborata in profondità. L’alto tasso di emotività utilizzato, magari semplicemente per fare share o, in maniera meno visibile, per ricostruire rigidità nella gestione dei rapporti sociali, si pensi ai reality che hanno ricostruito un modello di relazione fra i generi basato sulla subalternità, non può essere risolto irrompendo, parlando un’altra lingua, nei luoghi in cui si costruisce il consenso. E neanche si può risolvere – tentativo già fallito – di adeguarsi alla narrazione dominante con l’obiettivo di ridurre il danno o di modificarla dall’interno grazie a personalità – meglio dire personaggi – che sembrano uscire fuori dagli schemi precostituiti ma che in realtà li confermano. Occorre altro. Riappropriarsi dello spazio di quello che un tempo era “pubblico servizio”, è impresa quasi impossibile ad oggi. Occorre intanto la capacità di ridivenire fatto sociale impossibile da ignorare. Le intuizioni performative di realtà come Ultima Generazione, le azioni di disobbedienza non violenta, anche il recupero di un approccio situazionista di denuncia del presente, la stessa antica arma della satira, possono, con tempi non certo brevi, definire una sorta di lessico narrativo del presente radicalmente alternativo. Ma anche simili operazioni possono produrre effetti positivi di lunga durata solo se non si traducono, anche loro in un contenuto che si adegua unicamente all’emotività, al carisma, alla semplificazione della complessità. Sembra una contraddizione in termini ma è in tale senso che andrebbe impostata una ricerca interdisciplinare e approfondita. La domanda da porre e porsi è come far diventare contenuti, proposte, una visione di società diversa come possibile e realizzabile? Quali sono i nessi che, colpendo nella sfera dei desideri, della razionalità ma anche del sentimento, possono innescare scintille di presa di coscienza tali da non rimanere isolate? Intanto si dovrebbe entrare nella condizione di divenire coloro che propongono soluzioni sensate da cui si traggono benefici collettivi. Se la comunicazione neoliberista fondata sull’aspirazione ai beni e sul consumo crea nei più insoddisfazione perenne, infelicità, solitudine, quella che si dovrebbe essere in grado di proporre deve cercare di rovesciare letteralmente la piramide. Deve, come si diceva, proporre soluzioni concrete ma contemporaneamente far presagire anche l’idea di felicità collettiva a cui poter aspirare, fondata su un benessere che non si realizza nel consumo o nella vita vissuta come sacrificio.
Lo sguardo torna ancora verso la Francia. Sono molte le ragioni per cui le mobilitazioni transalpine riescono ma la principale è da ricercarsi nell’indisponibilità da parte della popolazione e senza scontri generazionali, ad accettare che aumenti il tempo di lavoro da sottrarre al tempo di vita. Niente di rivoluzionario quindi, ma un collettivo e salutare NO, chissà quanto pre – politico, che finisce col mettere in discussione le stesse decisioni imposte in ambito UE. Per uscire dalla bolla sono esempi del genere che devono farci ragionare, non per essere replicati ma per adeguarli alle aspettative di una società italiana fra le cui pieghe esistono aspettative che forse conosciamo troppo poco. Da noi l’idea che si lavori a vita sembra ormai penetrata quanto quella che poco si possa fare con i bassi salari o con l’idea che il costo di un alloggio diventi spesso proibitivo. Come sembra ancora insufficientemente difficile far divenire elemento di rottura la devastazione ambientale prodotta dal modello di sviluppo. Forse uno dei pochi ambiti in cui l’inconciliabilità con le condizioni di vita attuali è capace di creare lacerazioni collettive è la lotta al patriarcato, soprattutto quando la si esercita nella declinazione intersezionale (classe, genere, razza). Incrinare almeno uno dei pilastri dello sfruttamento è tentativo da provare, con ogni mezzo e non è la presenza sporadica in qualche talk show a poter incidere in tal senso. Quei luoghi, come le istituzioni, figli della logica maggioritaria, sono impermeabili, vanno agiti ma sapendo che possono essere necessari ma non diverranno mai sufficienti a mutare i rapporti di forza. La sola intuizione che potrebbe, con tempi medio – lunghi, rivelarsi performante, è quella di alimentare il senso di insoddisfazione che tali luoghi del consenso contribuiscono a costruire. Ogni mezzo è buono e lecito a tal proposito, dall’utilizzo consapevole dei social media al ricostruire forme di aggregazione sociale corporea, negli spazi più insospettabili, per renderli luoghi della politica. Possono farlo, in forme di contro – narrazione del presente, mezzi espressivi antichi come il teatro e la musica e la produzione sensata di podcast, videoclip, installazioni artistiche, performance irriverenti verso il potere. Nei quartieri delle periferie metropolitane il presente trova espressione, a volte anche fortemente politicizzata, in trapper e rapper, in momenti di affermazioni di un se indesiderato dal conformismo dominante e sovente represso tanto da leggi grottesche come il decreto anti rave, quanto da forme più insinuanti, legati ad ordinanze comunali, con cui si debellano i luoghi di socialità o, peggio ancora, li si normalizza legandone l’esistenza all’amministrazione benevola di turno. Sono spazi di contro cultura, come erano negli anni Settanta, capaci, come allora, di reinsegnarci il presente nella sua vastità inesplorata. Siamo indotti a credere che dietro e oltre lo schermo piatto di un monitor o di una tv ci sia il nulla. Non è vero. Ci sono suggestioni spesso non rappresentate e magari non rappresentabili, che non trovano una propria dimensione onnicomprensiva anche perché hanno smesso di cercarla, ma in cui agiscono almeno un paio di generazioni affatto rassegnate. Se in tali ambiti si viaggia con la divisa dell’esploratore di fine Ottocento, non si comprende nulla, se invece si torna ad essere ricettivi verso i messaggi che giungono, si rischia di scoprire che la domanda di costruire connessioni fra saperi è superiore all’offerta disponibile.
Sia ben chiaro. Questo non si traduce in consenso, men che meno in voto o ritorno alle forme tradizionali della politica. Si può trasformare in interlocuzione, in apertura di percorsi in cui non è definita una separazione fra sociale e politico, fra pubblico e privato. Ma ci si riconnette con quella larga parte di Paese che: per ragioni di classe, di deprivazione di futuro, di carenza di strumenti per agire una qualsivoglia forma di conflitto, sembra dannata all’assenza e al lento vivere. Quello che l’assetto dominante sembra non poter reggere è la costruzione o ricostruzione di corpi intermedi, dalle modalità organizzative molteplici, che provano a ridefinire un “noi” alternativo ad uno sterile “io” e per fare questo non servono le comparsate televisive. Nel mondo dei talk si recita a soggetto, anche chi sembra entrare conquistandosi notorietà, raramente è in grado di soddisfare bisogni reali o artificialmente determinati.
L’alternativa diviene quindi rompere la bolla cercando di essere contemporaneamente all’interno di essa e agendone al di fuori, con una consapevolezza che richiede ricerca costante e capacità di nuotare in acque poco conosciute, in costante cambiamento. Sperimentare, comprendere anche la pluralità delle soggettività con cui ci si interconnette, una pluralità che è tanto oggettiva (dettata da differenze degli ambiti territoriali, di lavoro, generazionali ecc..), quanto soggettiva ovvero legata al fatto che nella frammentazione ognuna/o di noi è portatore di una molteplicità di bisogni, aspirazioni, elementi di insoddisfazione nel presente. Si tratta insomma di compiere una immersione nella realtà che non è raccontata mediaticamente, di leggere fra gli interstizi e le pieghe di un mondo infinito di relazioni da ricostruire e su cui tessere modalità di incontro e di confronto che non si possono esaurire nella cronaca quotidiana.
Una contro/comunicazione che oggi non esiste e che non può esaurirsi semplicemente nel contestare le tesi dell’avversario di classe ma deve produrre senso comune adeguato a scardinare quello dominante, deve divenire realmente antisistema – non come i precedenti esperimenti da laboratorio fondati sull’antipolitica – ma anzi, divenendo esso stesso programma politico e sociale. Non è, come troppo spesso si afferma superficialmente, una traversata nel deserto ma la scelta di tornare ad essere capaci di guardare l’interezza e la complessità del presente cogliendone tanto gli elementi compresi nel passato quanto quelli da riannodare nel presente. In sintesi potremmo dire che la bolla in cui ci siamo spesso, anche da soli, rinchiusi, può e deve essere fatta esplodere se si assume la consapevolezza che di contraddizioni in essere ce ne sono forse infinite, sta a noi volerle guardare sfidandole o scegliere di ignorarle, reiterando nostri stanchi rituali.
Stefano Galieni