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L’inquietante Germania di Friedrich Merz

di Franco
Ferrari

Avevo deciso da qualche giorno di scrivere un articolo dedicato all’evoluzione della politica tedesca e alle implicazioni di ordine generale che essa pone, con il titolo che vedete, e nel frattempo, questa mattina, leggo nella nota politica di Andrea Colombo sul Manifesto che anche Macron e Meloni sono “preoccupati dalla Germania”.
“Nel giro di poche settimane – scrive Colombo – con scelte sempre più muscolari e bellicose, ha chiarito (ndr: Merz) che la sua visione della guida franco-tedesca dell’Europa sarà molto tedesca e poco francese. Nelle modalità indicate dalla presidente Von der Leyen e sulle quali il cancelliere tedesco è blindato, il piano di riarmo costringerebbe sia la Francia che l’Italia a svenarsi senza peraltro poter mai raggiungere la Germania, che dispone di spazio fiscale infinitamente più ampio”. Va detto che le mosse del Presidente francese non sembrano meno bellicose di quelle tedesche, al punto che Macron è andato anche in Asia per alzare il tono dello scontro con la Cina. La differenza consiste nel fatto che le posizioni, spesso superficiali e improvvisate, del francese sono decisamente più velleitarie di quelle del tedesco.

Quali sono i cambiamenti in atto nella direzione politica della Germania e quali implicazioni avrà per tutta l’Europa?
Innanzitutto, e su questo direi che tutti gli osservatori sono concordi, c’è una crisi del modello economico tedesco fondato su un consistente apparato industriale e su una notevole capacità di esportare beni dal discreto valore aggiunto. La Germania ha continuato ad accumulare surplus commerciale un po’ in tutte le direzioni, dentro e fuori l’Unione Europea, con grandi aspettative derivate dalla crescita del mercato interno cinese e il conseguente sviluppo del più grande “ceto medio” del mondo. Il mercantilismo favorito da una certa fase della globalizzazione era accompagnato dal basso costo delle risorse energetiche garantito dalla Russia.
Ora il modello non funziona più per effetto dei mutamenti tecnologici, dall’ascesa della Cina come produttore e non solo consumatore di beni strumentali (l’automobile prima di tutto) e dal risorgere del protezionismo statunitense, accentuato da Trump ma avviato da Biden, oltre che per i riflessi della guerra russo-ucraina.
Gli ultimi anni dell’economia tedesca si sono caratterizzati per l’oscillazione tra stagnazione e recessione. Alcuni colossi come la Volkswagen contano a decine di migliaia la riduzione del numero degli occupati. Le previsioni per il 2025 e il 2026 non sono molto migliori. Per ora l’unica idea che è venuta alla borghesia tedesca e ai suoi rappresentanti politici è di puntare sul militare. Se la Volkswagen piange, la Rheinmetall ride.

La corrispondente di Le Monde a Berlino, Cécile Boutelet, segnalava il caso di una piccola azienda bavarese che già da alcuni anni si era riconvertita al settore militare e ora registra grandi aspettative di crescita. Il massiccio piano di investimento deciso dal governo per le spese militari sembra offrire nuove prospettive anche per molte altre aziende che soffrono i colpi della crisi delle grandi imprese automobilistiche. Non tutti sono convinti che questa prospettiva possa davvero rilanciare il capitalismo tedesco. Il sindacato IG Metall – riferisce la corrispondente del Monde – ha messo in guardia contro l’illusione che la difesa possa rimpiazzare l’automobile nell’economia tedesca. Il dibattito si è particolarmente acceso da quando, a marzo, la Rheinmetall ha sollevato l’ipotesi di incorporare la fabbrica della Volkswagen di Osnabruck, minacciata di chiusura dal 2027.
I posti di lavoro aumenteranno nelle armi ma questi non compenseranno quelli perduti nell’automobile e l’IG Metall cita il caso della fabbrica di treni Alstom in Sassonia che è stata riconvertita nella produzione di carri armati, ma con un numero di lavoratori impiegati drasticamente ridotto. Nonostante queste note critiche la riconversione nel militare sembra essere al momento, la principale idea della borghesia tedesca e dei suoi rappresentanti politici per risolvere la crisi del modello economico sul quale si è basata la Germania.
Per farlo si è completamente capovolta la visione del ruolo economico dello Stato. L’ordoliberismo, l’ideologia che ha dominato la politica economica del dopoguerra con qualche periodo di interruzione in momenti nei quali la spinta sociale e il rafforzamento del movimento operaio aveva aperto una prospettiva diversa, attribuisce allo Stato un ruolo di definizione delle regole del mercato ma, attraverso il vincolo del pareggio di bilancio riportato in Costituzione, non un intervento attivo nell’economia. Questo principio che si è cercato di imporre al resto dell’Europa con una qualche brutalità durante la crisi del 2010 e anni successivi, ora che viene visto come ostacolo dalla Germania per risolvere i propri problemi interni, è stato accantonato in poche settimane.

Agustin José Menendez, dell’Università Complutense di Madrid, in un editoriale della rivista “European Law Open”, notava come ci fosse stato un perfetto tempismo tra la presentazione del piano “Rearm Europe” da parte di Ursula von der Leyen e l’accelerazione della volontà del nuovo governo di rimuovere il vincolo del pareggio di bilancio. La drammatizzazione dell’una sul “nemico alle porte” è servito perfettamente al socio tedesco per far passare nell’opinione pubblica nazionale (che resta però perplessa) il capovolgimento di una narrazione che ha dominato il panorama tedesco per decenni.
Il nuovo Governo ha deciso un piano di spesa straordinario di 500 miliardi nel quale ha dovuto mettere anche qualche concessione alle esigenze della transizione ecologica per avere il via libera dei Verdi, e contemporaneamente la possibilità di aumentare il bilancio, ricorrendo al debito, per le spese militari. Il cancelliere Merz ha promesso di fare del tedesco “il più grande esercito d’Europa”. Diversi osservatori hanno espresso un certo scetticismo sulla efficacia del piano di riarmo, non solo per le sue ricadute economiche, ma anche sul piano della stretta dimensione militare.
La guerra russo-ucraina ha dimostrato che molte classiche strategie sono superate dall’uso esteso dei droni, che possono fare molti danni e che hanno un costo limitato e sono in una fase di grande sviluppo tecnologico. L’altro elemento decisivo è che una ipotesi di guerra russo-europea estensione di quella russo-ucraina richiederebbe eserciti numerosi per un conflitto per molti aspetti simili alla prima guerra “mondiale” che fu in sostanza una guerra europea e che come tale venne definita fino a che non arrivò la “seconda” (come mi ha ricordato Roberto Musacchio).
La Bundeswehr conta su 181.000 soldati e già qualche anno fa si riteneva che ne servissero almeno 203.000. Ora, dopo la svolta militarista, Carsten Breuer, Ispettore Generale dell’esercito tedesco, ritiene che occorrano almeno 460.000 soldati ben equipaggiati. Un raddoppio che deve necessariamente passare dal ritorno ad una forma di coscrizione obbligatoria. Varie ipotesi in tale direzione sono ormai si sono affacciate nel dibattito politico tedesco.

La svolta impressa da Friedrich Merz, che si propone come il vero anti-Merkel mentre il socialdemocratico Scholz, defenestrato dopo la sconfitta elettorale ne era solo un pallido successore, richiede anche un nuovo protagonismo tedesco sul piano della politica estera. Non è più pensabile che uno Stato che si propone di costruire “il più grande esercito in Europa” possa continuare ad applicare il principio del “gigante economico e del nano politico”. Questa era la rappresentazione della Germania (non sempre del tutto vera) che doveva ancora in qualche misura “espiare” le responsabilità del secondo conflitto mondiale.
Oggi la grande borghesia tedesca (impersonata dalla coppia Merz-Von der Leyen) ritiene che per restare pienamente un gigante economico sia indispensabile diventare senza complessi un gigante politico. Non è un fatto marginale che si sia tornati a sproloquiare, purtroppo anche a sinistra, di geopolitica (ovvero l’ideologia reazionaria che legittima i conflitti tra Stati in quanto portatori di “interessi” interclassisti e immutabili nel tempo); la quale non si sostituisce ma si accompagna al liberismo cercando di arginarne la crisi di consenso e legittimazione.
L’accordo tra Germania e Ucraina per rafforzare la produzione militare in loco, anche finalizzata a colpire in profondità la Russia, indica chiaramente il nesso tra politica estera e militarizzazione quale strumento di costruzione di una “periferia” tedesca rivolta soprattutto verso est. Un’operazione non del tutto inedita ma che in un’altra fase era affidata soprattutto all’espansione delle industrie tedesche nei paesi dell’ex blocco socialista. Per un lungo periodo, l’Ungheria di Orban ha fatto parte di questa periferia industriale ma, evidentemente, negli ultimi anni ha trovato che quel legame non fosse più così solido o conveniente.
Attraverso la Von der Leyen, che ha delegato alcune posizioni chiave della Commissione ad esponenti russofobi emersi dai paesi baltici, che non vedono male una generalizzazione dello scontro militare con la Russia nella speranza di smantellarla in tanti staterelli, la Germania può rafforzare il suo fronte orientale. In questo scenario il recente voto polacco che ha visto il successo del candidato presidenziale del partito di estrema destra del PiS, può aprire qualche difficoltà per la nuova proiezione egemonica tedesca.

Siamo di fronte all’evidenza che quasi tutti presupposti fondamentali della politica tedesca così come sono emersi dalla sconfitta del nazismo vengono smantellati ma ne resterebbe, apparentemente, solo uno: la difesa accanita di Israele. Il dovere tedesco di sostenere Israele era considerato la cartina di tornasole che ogni forma di revanscismo della Germania era ormai archiviato. L’evoluzione dello Stato israeliano ha però trasformato questo paese un punto di riferimento per l’ascesa del suprematismo occidentale e sostegno di un nuovo razzismo antiarabo. La regola della “realpolitik tedesca” che imponeva la difesa di Israele, in quanto Stato nel quale avevano trovato rifugio i sopravvissuti del genocidio perpetrato dai nazisti e dai loro alleati (tra i quali quei nazionalisti ucraini oggi celebrati con tutti gli onori a Kiev), si è trasformato nell’attivo sostegno allo sterminio di un altro popolo. Ha quindi cambiato completamente di segno.
La svolta “epocale” della Germania presenta certamente gli ostacoli e le contraddizioni che molti osservatori rilevano e non è facile prevedere quali saranno tutti gli sviluppi futuri. Ma anche solo il suo avvio richiede di realizzare un profondo cambiamento di mentalità nella società tedesca. Spostare centinaia di migliaia di lavoratori verso il settore militare, dal quale non sarà semplice tornare indietro, far passare l’idea della necessità di un consistente indebitamento finalizzato al riarmo, convincere centinaia di migliaia di giovani della necessità di arruolarsi e di essere pronti alla guerra, proiettare la Germania sulla scena globale quale potenza militare richiede un profondo cambiamento di mentalità nella società tedesca. Militarizzare le menti è una condizione necessaria per militarizzare l’economia e la politica.
A questo si accompagna qualche segnale di minore attenzione alle forme democratiche. Dalla democrazia basata sul rispetto delle procedure alla Kelsen, all’idea che sovrano è chi decide sullo Stato di eccezione alla Schmitt (per riprendere il vecchio dibattito) la coppia Merz-Von der Leyen sembra aver cambiato orizzonte. La decisione di cambiare la Costituzione convocando il vecchio Bundestag, perché in quello nuovo, espressione della rinnovata volontà degli elettori, non ci sarebbe stata una maggioranza sufficiente, è stata una forzatura che indica quanto meno un minore scrupolo nel rispetto del proceduralismo come fondamento della democrazia. In questi giorni a fronte della sentenza di un giudice che ha contestato la legittimità del respingimento di un rifugiato, Merz ha dichiarato che il governo andrà avanti lo stesso. Da parte sua la Von der Leyen ha deciso di invocare la clausola 122 dei Trattati per sottrarre il suo piano di riarmo all’esame del Parlamento. Ha affermato il primato della “decisione politica” (lo stato d’eccezione) contro il rispetto della supremazia della legge. 

Bisogna essere preoccupati per la Germania? Senza pensare che ci sia una inevitabile tendenza di questo paese a risorgere sempre nelle fattezze degli elmi chiodati o delle camicie brune anche perché, in questo momento, l’Italia non è certo in grado di dare lezioni ad altri, che la borghesia tedesca scelga nuovamente la strada del militarismo per risolvere la propria crisi non può certo lasciare indifferenti. Ma nulla è scontato e anche per questo occorre costruire un grande e unitario movimento contro la guerra e il riarmo. In Italia ci si sta provando con l’appuntamento del 21 giugno a Porta San Paolo, Roma. Possiamo anche dare forza a tutti coloro che in Germania si possono opporre al nuovo corso di Friedrich Merz.

Franco Ferrari

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