Una serie di convergenze, alcune dettate da scadenze politiche, altre che incontrano forti sensibilità che parevano sopite, hanno determinato in questi mesi, in Italia, una sensibile ripresa della partecipazione attiva di uomini e donne, di ogni generazione, a forme diverse di mobilitazione. Difficile comprendere se sedimenteranno – molto dipenderà dalla capacità di chi anima piazze e campagne di estendere e dare continuità a questi segnali – ma sembra esserci un nuovo terreno fertile. Connetterle non è semplice, non sempre la presenza e la successiva mobilitazione sono onnicomprensive, ma qualcosa sta accadendo. Proviamo a individuare i punti nodali, dove il ragionamento politico incontra una sorta di “connessione sentimentale”. La contrarietà alla guerra ha faticato molto ad esprimersi, soprattutto dopo l’aggressione russa in Ucraina, a causa della complessità di tale conflitto. Ma il genocidio a Gaza, seguito agli attacchi del 7 ottobre, ma iniziato quasi 80 anni fa, ai danni del popolo palestinese, non ha permesso a molte e a molti di tacere. E da almeno un anno e mezzo non c’è settimana in cui una piazza, spesso tante piazze, non si riempiano di persone che chiedono almeno di cessare il massacro, la cui posizione contro il governo e l’esercito israeliano diviene sempre più dura ad ogni innocente morto, ad ogni notizia di catastrofe umanitaria, di carestia, di violenza che si consuma in quel piccolo pezzo di terra che oramai è voce disperata di tutto il mondo. Lì non è in atto un conflitto ma un sistematico genocidio che, per ammissione sfrontata degli stessi leader di Tel Aviv, ha come unico obiettivo far sparire la parola “Palestina” dalla storia, di cancellarne il popolo, oggi a Gaza, domani in Cisgiordania, per realizzare il deserto, attuare una deportazione di massa, come una nuova Nakba, la catastrofe, a cui si diede inizio il 15 maggio del 1947.
I venti di guerra, il cui olezzo si respira anche nel nostro privilegiato continente, porta i governanti a prospettare politiche di riarmo assurde, 800 mld di euro, per difendere i privilegi da un assalitore, da un invasore, che esiste solo nei progetti delle aziende che producono armi e nelle loro lobbies di cui sono pieni parlamenti, quotidiani, televisioni eccetera. E comincia anche a divenire chiaro che, nonostante le difficoltà che incontra a mantenere le promesse belliche la Commissione di Ursula Van der Leyen, (dovranno forse diminuire le pretese), l’aumento “dei cannoni farà diminuire la disponibilità di burro”, per tornare indietro nel tempo. Ovvero ulteriori tagli a scuola, sanità, welfare, contrattazione, insomma il peggioramento delle condizioni di vita di chi non diventa ricco creando strumenti di morte. E anche di questo, più che in passato, si discute, ci si confronta, ridiventa tema di dibattito che rompe il flusso di rassegnazione e silenzio. Smuove luoghi di discussione, al lavoro come nelle scuole – di cui parleremo a parte – nel mondo della sanità, laddove i colpi si fanno più feroci. E non è casuale che, negli ultimi mesi abbia tenuto banco un disegno di legge altamente repressivo e securitario, un tempo ddl 1660. Il governo ha forzato la mano per rispondere alle timide reazioni del Presidente della Repubblica e degli altri organismi di controllo preposti, trasformando buona parte dell’impianto in un decreto-legge quindi già in vigore. E se per la pace il 5 aprile a Roma, si vista finalmente una grande e composita manifestazione contro la guerra, altrettanto vasta è stata la partecipazione, sempre nella capitale, alla mobilitazione contro il “decreto della paura”, quello che introduce nuovi reati penali evitando accuratamente di indicare le ragioni di criticità attraversate da fasce sempre più rilevanti della popolazione. A leggerne il testo è evidente come il suo scopo non sia tanto o soltanto quello di punire il dissenso, quanto quello di prevenirlo. Come se il legislatore, tanto incapace nello scrivere norme applicabili in un leggibile italiano, abbia avuto però la gelida astuzia di comprendere come, la base di una suddetta legge, risieda nel prevenire comportamenti non graditi di inosservanza ai dettami del regime.
Si potrebbe ipotizzare che il sentore di qualcosa di profondo che si muove nella società, soprattutto nelle sue faglie più vigili, in quei settori di associazionismo in gran parte privo, oggi, di rappresentanza politica, potrebbe riscoprire presto, la sana forza motrice del conflitto sociale. Le reti contro il dl sicurezza, quelle contro la guerra, in particolare Stop Rearm Europe, sembrano aver trovato punti di saldatura significativi ed inclusivi, capaci anche di allargare i propri orizzonti ai movimenti transfemministi, ambientalisti, sindacali e antirazzisti. Difficile prevedere se questo avrà un seguito ma per ora c’è. La manifestazione contro il riarmo, il genocidio, la guerra, l’autoritarismo, che si terrà il 21 aprile prossimo, sarà un ottimo banco di prova, tenendo conto che, nella stessa data o in giorni vicini altre se ne terranno nel resto d’Europa.
A questo si aggiunga quanto sta avvenendo, anche qui con poco clamore mediatico, nel mondo della scuola. Numerose le scuole in cui docenti, studenti, personale didattico, non solo stanno prendendo dura posizione contro le cosiddette linee guida del ministro Valditara, esempio patetico di eurocentrismo suprematista, militarista e aziendalista, ma avanzano proposte di alternativa ad una idea della formazione che impedisce la nascita e lo sviluppo di senso critico, che cerca nessi con la società reale, che vuole contribuire a far uscire dalle aule persone in grado di difendere i propri diritti e la propria dignità. Un fenomeno silenzioso ma, almeno così appare, profondo e realizzato attraverso la costruzione di relazioni che impediscono di rendere la scuola e la formazione, corpi separati, se non militarizzati e impermeabili. Segnali arrivano dalle aziende in cui si cominciano a non accettare più lo stop ai rinnovi contrattuali che ha reso il lavoro in Italia fra i più poveri d’Europa, fra i più precari, insicuri, esposti al vento nefasto dei mercati finanziari, dell’imprenditoria predatoria pronta a giocarsi tutto sul tavolo di un innalzamento del profitto, ivi comprese le vite di chi lavora.
Sono piccoli segnali di conflittualità che restano frammentari, in cui la ricomposizione è ancora un sogno effimero e a cui manca ancora non solo una rappresentanza politica ma una comune rappresentanza sindacale. Un mondo complesso che merita, in quanto tale, un lavoro di inchiesta e ricerca per superare una visione del mondo vasto delle attività produttive e della circolazione di merci, adeguato al ventunesimo secolo. Ma è solo questo a far gridare alla partecipazione che torna?
In questo quadro, quasi per congiunzione astrale o, meglio ancora, perché l’assenza di discussione su questi temi nelle aule parlamentari ha portato a guardare altri orizzonti e a ritentare la strada della partecipazione referendaria si inseriscono le giornate dell’8 e 9 giugno. Difficile prevedere i risultati, la soglia oscena del quorum necessario a considerare validi i risultati (ricordiamo che occorre il 50% + 1 dei voti) sembrerebbe difficile da superare. Ma ne siamo certi? Comprendiamo appieno in quali circuiti viaggino le intenzioni di chi domenica e lunedì prenderà o meno la decisione di recarsi alle urne? Prevarrà la disinformazione televisiva, l’obbedienza alle forze di governo, l’assuefazione a non considerare utile esprimere il proprio parere o si comprenderà che questa volta non ci si affida a persone ma si decide se abrogare o meno alcune parti rinnegate nell’universo dei diritti? Si comprenderà che il licenziamento illegittimo, in grandi o piccole aziende non può essere monetizzato al ribasso, che i contratti non possono essere precari all’infinito, che essere uccisi o restare invalidi sul luogo di lavoro, non può non portare a pagare chi non ha tenuto conto delle norme di sicurezza? Si capirà – quinto referendum, anch’esso sul lavoro, ma spacciato come elargizione incontrollata di cittadinanza dai detrattori – che dimezzare i tempi necessari per divenire italiane/i a tutti gli effetti, compreso il diritto di voto, a chi vive, studia, lavora, paga le tasse, in questo Paese è solo un atto di investimento nel suo futuro? Peraltro, si tratta soltanto di apportare una modifica minima ad una legge (la 91 del 1992), razzista, fondata sulla falsa idea che si è italiani per diritto di sangue?
Potremmo anche ritrovarci, fra una settimana, deluse/i. Ma se non accadesse? Se si dimostrasse che il combinato disposto fra mobilitazioni di piazza e voto referendario, fra scioperi e dibattiti, può ricostruire quel “noi” che manca da decenni in questo Paese? Un noi plurale, magari litigioso, mai completamente unitario, che dovrà reimparare a muoversi col metodo del consenso, ma capace di unirsi e di trovare il proprio minimo comune denominatore, quello in grado di far vivere un corteo come un referendum in quanto parte dello stesso percorso, una protesta e uno sciopero, una sana riconnessione tale da farci comprendere come il futuro non si migliori da soli, ma solo attraverso una convergenza comune e faticosa. Non sarà forse il ritorno al “Movimento dei movimenti”, ma qualcosa di innestato nel presente, intersezionale e intergenerazionale, con propri molteplici codici comunicativi e proprie modalità di rendersi potenzialmente radicale, capace di comprendere che guerra, corsa al riarmo, disastro ambientale, patriarcato, razzismi, nazionalismi e fascismi, sono in fondo unicamente facce di quel sistema di sfruttamento a cui ci siamo, ormai da troppo tempo, abituati come se fosse una religione, come se fosse natura immutabile. E se invece valesse ancora la pena partecipare per cambiare?
Stefano Galieni