In queste ore si continua a combattere la feroce battaglia per il controllo della citta di Bakhmut (se si preferisce la denominazione ucraina) o Artyomovsk (se si utilizza quella russa), dove le truppe di Zelensky rischiano di restare intrappolate di fronte alla forte pressione degli uomini della Wagner. Sembra che nello scontro si vedano anche i primi Leopard, forse trasferiti dalla Polonia, ma le informazioni che circolano sui social sono spesso manipolate dalla propaganda dell’una e dell’altra parte.
L’esito dello scontro non avrà probabilmente un’influenza decisiva dal punto di vista militare ma potrebbe averla da quello politico. Metterebbe in difficoltà la retorica della vittoria possibile entro l’anno, inclusa la riconquista della Crimea, di cui si fa promotore il governo ucraino. E la Russia dimostrerebbe che, nonostante le evidenti e ripetute difficoltà del suo esercito, l’enorme costo umano ed economico dell’invasione, è comunque in grado di ottenere risultati militari sul terreno. Tanto più se potrà disporsi in una posizione prevalentemente difensiva.
Ogni passaggio del conflitto presenta un bivio che può portare in due direzioni diverse. O riconoscere che la guerra non può essere vinta sul campo da nessuna delle due parti e quindi l’unica strada ragionevole è aprire una trattativa vera, oppure inoltrarsi sempre di più sulla strada dell’escalation militare.
Gli Stati Uniti, da cui evidentemente molto dipende sulla possibile evoluzione della guerra, proseguono in una linea che da un lato mantiene un massiccio investimento economico e militare a sostegno del governo ucraino, dall’altro cerca di isolare maggiormente la Russia sul piano internazionale in modo da stringerla in una morsa che chiuda soprattutto l’afflusso beni che è largamente riuscito finora a sfuggire alla stretta delle sanzioni (come ben analizzato in un altro articolo da Alessandro Scassellati). Questa è la finalità del viaggio di Blinken nei paesi centroasiatici, frutto del tracollo della vecchia Unione Sovietica, nel quale è impegnato in questi giorni. Mentre, contemporaneamente, tiene alta la pressione nei confronti della Cina per evitare che le relazioni fra i due paesi diano comunque ossigeno ai russi.
In Europa e nel mondo resta ancora molto debole il fronte della pace che spinge per una de-escalation della guerra, la ricerca di una soluzione negoziata e per invertire il percorso che, a livello globale, spinge verso una nuova “guerra fredda”. Una definizione di comodo che evidentemente non tiene del tutto conto dei profondi mutamenti avvenuti sullo scenario globale negli ultimi decenni.
Negli ultimi giorni si sono registrati alcuni timidi segnali di iniziativa politica e di massa contro la guerra e contro la retorica bellicista assunta dai governi europei e da gran parte delle forze politiche maggioritarie. Ci sono state manifestazioni a Berlino, in Belgio, in Italia (anche se ancora di modeste dimensioni) e una iniziativa promossa da Podemos in Spagna. La sinistra resta però nel complesso ancora piuttosto divisa fra lo schieramento di campo anti-russo da un lato o (in misura molto più marginale) pro-russo dall’altro e l’affermazione di una forte visione autonoma che apra una prospettiva diversa da quella del proseguimento infinito della guerra, con il conseguente negativo impatto su tutti i futuri assetti internazionali. In diversi paesi la guerra, ridotto l’impatto economico più rilevante sul costo dell’energia, viene ancora vista come un problema lontano. E alcune forze di sinistra ritengono prioritario concentrarsi sulle questioni sociali interne (la lotta contro la riforma delle pensioni in Francia o i diritti del lavoro e il salario minimo in Spagna).
Se guardiamo allo scenario mondiale si sono registrati alcuni fatti importanti. La presentazione delle proposte cinesi, su cui torneremo, la rivendicazione di un possibile ruolo autonomo di alcuni governi latinoamericani come il Brasile di Lula e la Colombia di Petro, la rottura avvenuta al G20.
Una parte importante del mondo, siano essi i governi che l’opinione pubblica, reagiscono in modo diverso al conflitto. Per alcuni si tratta di un problema locale in un contesto lontano. Altri vi leggono il “doppio standard” del blocco occidentale, responsabile di interventi militari e guerre, al di fuori di qualsiasi legittimità internazionale, che hanno causato la devastazione di interi Stati e un numero di vittime civili (secondo fonti statunitensi attendibili sono quasi 400.000 per effetto della cosiddetta “guerra al terrore” promossa dagli Stati Uniti), rispetto al quale gli 8.000 denunciati dall’ONU per la guerra in Ucraina delineano un contesto certamente tragico ma minore.
Inoltre una parte significativa dei Paesi esterni al blocco occidentale, certo con non poche ragioni, vedono l’apertura di un nuovo conflitto ideologico e militare globale come un mezzo attraverso il quale gli Stati Uniti e in generale l’Occidente contano di difendere i propri interessi materiali di fronte all’emergere di nuove economie che non si accontentano di svolgere un ruolo secondario negli assetti del capitalismo globale.
In questo contesto va collocata l’iniziativa della Cina che ha proposto nelle ultime settimane due impegnativi documenti. Uno relativo ad affermare una visione complessiva di sicurezza globale, l’altro più specificamente indirizzato a delineare una prospettiva di uscita dal conflitto in corso in Ucraina.
Quest’ultimo non può certo essere definito un “piano di pace” i cui possibili contenuti non possono che essere il frutto dell’intervento diretto delle parti. Che per ora sono lontanissime dall’ipotizzare una possibile reale trattativa.
Piuttosto si tratta dell’affermazione di una serie di principi che dovrebbero servire ad escludere un’escalation e a creare le premesse per un’uscita contrattata. La proposta cinese ha subito ricevuto un fuoco di sbarramento da parte delle cancellerie e degli addetti alla propaganda occidentale (più o meno travestiti da “esperti”). Naturalmente gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di riconoscere un possibile ruolo cinese in un conflitto di cui sono protagonisti in prima persona e cui voglio dettare tempi, modi e finalità. Certamente non gradiscono alcune affermazioni contenute del documento cinese che chiedono di “abbandonare la mentalità della guerra fredda” e di non rafforzare ed espandere i blocchi militari. La Cina riafferma anche la propria contrarietà alla politica delle sanzioni unilaterali, sempre utilizzate dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea, in quanto avvengono (e su questo non vi è alcun dubbio) al di fuori e contro il diritto internazionale. Forme di guerra non militare imposte sulla base dei meri rapporti di forza. Tanto più quando non colpiscono solo il nemico diretto ma vengono fatte ricadere anche su paesi terzi e persino, come avvenuto con la Germania nel caso del gasdotto Nord Stream 2 (problema risolto poi con metodi più sbrigativi), verso paesi che risultano amici e alleati, ma ai quali non si fanno comunque sconti.
La Cina riafferma, e dal suo punto di vista non potrebbe essere diversamente, la tutela della sovranità e dell’integrità territoriale di ogni Stato. Problema che l’evoluzione della vicenda ucraina dopo il ribaltone di Maidan 2014 e la mancata applicazione degli accordi di Minsk, diventa sempre più difficile da sbrogliare. Anche se esistono situazioni in altre parti del mondo nelle quali si è mantenuta l’integrità territoriale “de jure” accettando una separazione “de facto” e rimandando alle calende greche la risoluzione definitiva del problema.
Per quanto riguarda la proposta complessiva sulla sicurezza, i cinesi cercano di contrapporsi all’azione statunitense tesa a dividere il mondo in due blocchi politico-ideologici e militari contrapposti. Una linea che l’attuale Amministrazione, il cui orientamento è stato definito come “liberal-imperiale” o di “imperialismo keynesiano” perché collegato ad iniziative di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi lavoratrici statunitensi, persegue con molta aggressività. Il retroterra ideologico, in genere più evidente nel campo democratico che in settori repubblicani dove ancora circolano visioni isolazioniste (ma non necessariamente meno reazionarie), è quello del “destino manifesto” degli Stati Uniti. Che si traduce nel diritto dovere di governare il mondo e di identificare con la propria visione e i propri interessi ciò che costituisce la “legittimità internazionale”. Una presunzione che si accompagna ad un’enorme e continua espansione delle spese militari. Gli intrecci tra democratici e complesso militare-industriale non sono certamente minori di quelli di cui dispone la destra.
Quali sono i punti positivi e quelli che sollecitano valutazioni critiche della proposta cinese di sicurezza globale? Certamente il rifiuto di una nuova Guerra Fredda e il rilancio di forme di coesistenza pacifica e di gestione multilaterale dei conflitti. Una simile prospettiva non costituisce un modo per congelare i conflitti sociali interni ai singoli paesi ma, al contrario, ne favorisce il libero sviluppo.
Oltre a garantire l’intera umanità dagli esiti incontrollati di una crescente escalation militare alla quale si destinano enormi risorse economiche e finanziarie sottratte ad altre finalità di interesse sociale.
Una nuova “guerra fredda” rende anche molto più complicato poter gestire quell’insieme di problemi, cambiamento climatico, migrazioni, che non sono certo risolvibili all’interno dei confini dello stato nazionale.
Un punto sul quale il confronto con le tesi cinesi è invece più aperto e dialettico per le forze di sinistra, riguarda la possibilità di una globalizzazione “win-win”, nella quale tutti guadagnano. Questo potrebbe essere vero se si resta al rapporto tra le economie nazionali, ma lo è molto meno se si guarda all’articolazione e contrapposizione di interessi sociali all’interno delle singole economie. Si sono visti in questi decenni gli impatti negativi che ha avuto la globalizzazione (o almeno la sua forma capitalistica) sulle condizioni di vita e di lavoro di importanti settori popolari e anche di ceto medio. Effetti che hanno prodotto una ripresa di correnti nazionalistiche reazionarie che si sono poste come protettrici degli interessi materiali di questi settori sociali senza però mettere in alcun modo in discussione le condizioni di dominio del capitale sul lavoro. Anzi spesso utilizzando la retorica nazionalista per giustificare condizioni di sfruttamento ancora più radicali.
Un ipotetico “partito” o “fronte” della pace e del cambiamento sociale a livello globale non può non cercare di valutare con attenzione, anche se criticamente, il ruolo e le aspirazioni della Cina e la sua influenza sullo scenario globale. Ovviamente senza fare sconti su tutti quegli aspetti di politica interna (autoritarismo, condizioni di sfruttamento del lavoro) che non rendono certo questo Paese un modello di società alternativa.
Franco Ferrari