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L’indimenticabile 1956: il punto di vista di Ingrao

di Franco
Ferrari

L’obiettivo di questo articolo non è di recensire l’ultimo film di Nanni Moretti, sul quale è già intervenuto Roberto Musacchio, quanto di riprendere alcuni temi di riflessione storica prendendo spunto da altri commenti, in particolare quello di Salvatore Cannavò, pubblicato da Jacobin Italia.
La valutazione sul contenuto politico del film (che è quella che qui mi interessa lascando da parte gli altri temi che pure vengono richiamati) è sintetizzata in questo modo nel sommarietto che precede il testo: “Facendo la ‘storia con i se’ (ndr: il film di Moretti), dà ragione agli insorti di Budapest del ’56 e ripara ai torti di Togliatti, rendendo possibile pensare al futuro.”

Cannavò racconta così il finale del film: “Il PCI del ’56 accoglie le ragioni degli insorti di Budapest e dei contestatori italiani, l’Unità titola, con simpatica naiveté, ‘Addio URSS’ e sulla base di questa decisione i militanti della sezione Gramsci (ndr: il cui segretario Ennio stava per suicidarsi nel film dentro il film che il regista Giovanni, alter ego di Moretti, stava girando) possono sfilare, insieme ai circensi del Budavari (ndr: il circo ungherese invitato in Italia nei giorni della rivolta), anzi in groppa ai loro elefanti, lungo i Fori romani in un tripudio di bandiere rosse sotto l’immagine rivoluzionaria di Lev Trotski.”
Su Trotski, Cannavò scrive che è “una figura che ancora oggi provoca repellenza in chi si è nutrito del comunismo togliattiano, quello che il film mette, giustamente, alla gogna.” Il richiamo alla “gogna” che, come definisce wikipedia “è uno strumento punitivo, di contenzione, di controllo, di tortura, utilizzato prettamente durante il medioevo”, non stupisce più di tanto dal vicedirettore di un quotidiano che non è certo noto per lo spirito garantista, ma soprassediamo per restare al giudizio politico che viene ribadito poco oltre. Dopo aver vantato l’utilità della storia fatta con i se, così come elaborata da Walter Benjamin, Cannavò ripete la sua tesi principale (ma verrebbe da dire la sua ossessione) ponendo come centrale la necessità di riparare i torti di Togliatti, “la cui eredità ha condizionato negativamente la sinistra anche dopo lo scioglimento del PCI.” Questo come condizione essenziale per rilanciare “l’utopia comunista”.

Come Tranform! Italia avevamo provato a rilanciare il tema del giudizio sulla storia e il ruolo del PCI e di come questa riflessione potesse aiutare a risolvere i problemi che la sinistra italiana si trova ad affrontare al momento attuale. Il nostro tentativo non ha trovato particolare risonanza, eppure involontariamente Moretti (seguendo l’interpretazione che ne dà Cannavò e ai fini del mio intervento poco rileva se la sua interpretazione delle intenzioni del regista sia o meno corretta) sembra voler contribuire a rilanciare quel dibattito.
Leggendo i commenti ci sono in realtà valutazioni diverse e persino opposte sulla rilevanza della dimensione strettamente politica del film e anche tra coloro che la valutano come importante c’è chi ha percepito più l’aspetto destruens come Cannavò (il togliattismo alla gogna) e chi invece il richiamo positivo a Marx e Engels (che forse non avrebbero gradito che di loro si parlasse come portatori di una “utopia comunista”) e il finale sostanzialmente ottimista. D’altra parte è anche naturale che un film, che non è un saggio storico, possa suscitare interpretazioni ed emozioni differenti, altrimenti si tratterebbe solo di un pamphlet politico messo in immagini.
In questo caso la sintesi politica che ne trae Cannavò può essere presa come punto di partenza per esaminare più che risolvere alcuni proposizioni che mi sembrano queste:

  1. i rivoltosi di Budapest del 1956 avevano pienamente ragione;
  2. la posizione del PCI presa nel 1956 sull’Ungheria fu completamente sbagliata;
  3. il giudizio sul comunismo togliattiano non può che essere che totalmente negativo;
  4. l’eredità negativa di quel comunismo togliattiano (che poi fu sostanzialmente l’unico ad avere una dimensione di massa in Italia, con la sola eccezione forse di una variante del socialismo di sinistra per un certo periodo) ha continuato a pesare negativamente sulla sinistra italiana e si direbbe che pesi anche oggi, per cui è prioritario liberarsene. Non solo nelle sue eventuali espressioni politiche (non facili da rintracciare nella realtà politica attuale) ma anche con l’eterna dannazione della sua stessa memoria (e qui torna utile la già citata gogna auspicata da Cannavò);
  5. la figura di Trotsky “ancora oggi provoca repellenza in chi si è nutrito del comunismo togliattiano” (e sembra di capire che Cannavò non proponga un metodo diverso, storico e critico, per analizzare le diverse figure del comunismo ma di sostituire la repellenza per Trotsky ad una equivalente repellenza per Togliatti);
  6. infine si tratta di valutare l’utilità della storia controfattuale, quella fatta con i se, basata sull’empatia per i vinti (seguendo la sollecitazione a suo tempo avanzata da Walter Benjiamin).

Come si vede molte questioni con diversa rilevanza e in buona parte non del tutto nuove, alle quali non pretendo di dare risposte, semmai di andare a vedere come alcuni esponenti del comunismo italiano abbiano analizzato il 1956, anno che Ingrao definì “indimenticabile” e Di Vittorio “terribile”.

Il 1956 comincia a Barletta

La rivolta ungherese e il successivo intervento repressivo dell’esercito sovietico avvenne tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre. Nel frattempo però era avvenuto anche molto altro. In particolare il XX Congresso del Partito Comunista sovietico e poi la diffusione del rapporto segreto nel quale Chrusciov denunciava i crimini di Stalin.
Pietro Ingrao (nel 1971) sintetizzava così le tendenze di fondo di quell’anno: “inizio dell’era post-staliniana con l’esplodere di problemi, travagli e rotture nel mondo socialista; tramonto di vecchie dominazioni coloniali, emergere di nuovi Stati liberatisi da tali dominazioni e avvio (da parte degli Stati Uniti) di una strategia neocolonialista; declino aperto della formula politica centrista in Italia (e cioè della soluzione degasperiana), dispiegamento delle politiche e delle tecniche neocapitaliste e sommovimento quindi del quadro politico in Italia”.
Ma i primi mesi del 1956 in Italia furono caratterizzati anche da altro. L’inverno era stato particolarmente freddo e questo creò pesanti difficoltà ai settori più poveri della popolazione soprattutto al sud. Numerose furono le manifestazioni di disoccupati spinti dalle condizioni di miseria estrema nella quale si trovavano. A quelle proteste spesso la polizia rispose con le armi.
Il 4 febbraio a Venosa (provincia di Potenza) i braccianti effettuavano uno “sciopero alla rovescia” per chiedere i lavori per le opere pubbliche del Vulture. Polizia e carabinieri aprirono il fuoco e venne ucciso Rocco Girasole.  Il 7 febbraio ad Andria erano ancora i braccianti a chiedere lavoro e venne ucciso Domenico Ruotolo. Il 20 febbraio a Comiso, un’assemblea di braccianti che protestavano per la mancanza di lavoro venne assalita dai carabinieri che uccisero Paolo Vitale e Cosimo de Luca.

Ma la vicenda più grave accadde a Barletta, il 14 marzo dello stesso anno. Come racconta l’Unità del tempo, quel giorno, “oltre quattro mila donne e lavoratori, spinti dalle loro gravissime condizioni di vita cui fa contrasto l’assoluta inadeguatezza dei provvedimenti governativi, si ammassavano pacificamente dinanzi alla sede della POA (ndr: la Pontificia Opera d’Assistenza). Una delegazione di rappresentanti di lavoratori veniva ricevuta dal dirigente di quell’ufficio, al quale veniva presentata la richiesta di una sollecita distribuzione di pacchi di viveri in giacenza da diversi giorni. Mentre nell’ufficio si discuteva, fuori – all’improvviso – agenti di polizia caricavano le donne, ferendone alcune e lanciavano bombe lacrimogene. Ne nascevano i primi tafferugli e una comprensibile esasperazione degli animi. Per riportare la calma nella folla e per indurre la polizia a cessare le cariche, intervenivano il sindaco, compagno Paparella, e i dirigenti della Camera del lavoro e dei partiti popolari (ndr: formula con la quale si indicavano il PCI e il PSI).
La situazione si avviava ormai alla normalità quando, verso le ore 13,30, sopraggiungevano rinforzi di polizia, spediti da Trani e Andria. I poliziotti piombavano di nuovo sui manifestanti, e si assisteva alle tristemente note scene di violenza. Si ripetevano numerosi tafferugli, finché – a un tratto – la polizia apriva il fuoco.”
Due braccianti, Giuseppe Spadaro di 49 anni e Giuseppe Di Corato di 28 anni, muoiono nel giro di pochi minuti. Un terzo, Giuseppe Loiodice di 21 anni, operaio disoccupato, morirà qualche giorno dopo.

Sarà Pietro Ingrao, allora direttore del giornale a recarsi a Barletta e a raccontare per i lettori chi erano le vittime.
“Giuseppe Spadaro aveva 49 anni: era sposato con 7 figli di cui l’ultimo di 17 mesi. Era bracciante permanente, non possedeva nulla, salvo qualche letto, sedia, tavolo, misera suppellettile. Dai tempi della vendemmia era disoccupato. Negli ultimi due mesi non aveva trovato una sola ora di lavoro, salvo due giornate per spalare la neve. Aveva 100 mila lire di debiti presso un solo negoziante in conto di pane, olio, farina, e un’altra scadenza pendente, 3 mesi di pigione da pagare. Bisogna conoscere la casa per cui Spadaro pagava la pigione: comincia e finisce in una stanza sola, in cui vivevano tutti e nove, il padre, la madre, i sette figli. Perché in questa stanza potessero entrarci, oltre alle nove persone, i letti, il camino, il bugliolo, il breve tavolo su cui si mangiava, è stato costruito su un lato, in alto, un soppalco in legno, dove dormivano in un solo letto 3 figliuoli e al quale si giungeva appoggiandovi la sera una scala a pioli.”
Il racconto di Ingrao continua con “la storia di Giuseppe Di Corato, bracciante nullatenente, come bracciante nullatenente è suo padre di 61 anni, malato, senza pensione, da sostentare. Da due mesi era disoccupato. Aveva 28 anni e per sposarsi aspettava il lavoro, quello di cui si parla nella Costituzione della Repubblica. Andava ogni tanto a tentare la sorte al porto, improvvisandosi scaricatore: con il miraggio di quali salari ognuno può immaginare.
Questi erano due – i più sfortunati – tra le migliaia che stavano mercoledì mattina dinanzi ai magazzini della Pontificia commissione di Barletta. Erano molti braccianti, donne, contadini, di tutti i colori e di tutti i partiti, esasperati da una indigenza cronica, totale e da alcune settimane tragica.” Il titolo a tutta pagina dell’Unità riportava: “Gli operai e i lavoratori di tutta Italia non tollereranno nuovi eccidi e violenze contro il popolo del Mezzogiorno”.

È anche in questo contesto politico e sociale che vanno esaminate le vicende del 1956 e le risposte che ad esse danno le varie forze politiche e del modo come rispondono ad una base sociale che non è solo una passiva ricevitrice di linee politiche manipolabile a volontà. Il dibattito politico e ideologico non avviene nel vuoto e il suo contesto è necessario per comprendere anche limiti e contraddizioni con le quali i vari soggetti devono fare i conti.

Ingrao: come fare avanzare il “nuovo” dopo il XX Congresso

Ingrao, che a marzo, abbiamo visto, accorre a Barletta per raccontare un pezzo di realtà sociale italiana, è tornato in diverse occasioni a trarre un bilancio dell’anno che lui stesso aveva battezzato come “indimenticabile”.
Nel 1971, nell’ambito di un corso di lezioni organizzato dall’Istituto Gramsci e intitolato “momenti e problemi della storia del PCI”, nel quale sono chiamati ad intervenire diversi dirigenti di primo piano, Ingrao si occupa proprio del “XX Congresso del PCUS e l’VIII Congresso del PCI”.
Esaminando il Congresso di Mosca che aveva avviato il contrastato processo della destalinizzazione, il dirigente comunista non manca di sottoporre elementi critici ma alla fine stila questo bilancio complessivo: “E tuttavia queste considerazioni sui limiti non possono cancellare la portata generale, il significato per così dire oggettivo che ebbe la svolta del XX Congresso. Al di là di tutto, con le tesi del XX Congresso, con la denuncia dello stalinismo, con i dibattiti che scatenò, si riaprivano, dopo decenni di offuscamento, la ricerca e la discussione sul socialismo, sui modelli di transizione, sulle forme storiche con cui approdare alla società comunista. Praticamente nel movimento comunista, e cioè nell’ala marciante del movimento operaio mondiale, una simile discussione era rimasta bloccata dagli inizi degli anni trenta, dopo la tragica liquidazione degli oppositori di Stalin (naturalmente non mi riferisco qui a opere singole, a tentativi di piccoli gruppi, ma a processi reali di masse e quadri). La stessa ricerca del VII Congresso della III Internazionale sui fronti popolari aveva riguardato l’avanzata verso il potere, non le forme e gli sviluppi del potere proletario.”

Nelle analisi dei paesi socialisti era stata fin ad allora “massicciamente presente l’apologetica, che, certo, si fondava su conquiste storiche, ma portava ad un rinsecchimento drammatico del marxismo e soprattutto lasciava che si accumulassero problemi e contraddizioni nelle società socialiste, senza costruire strumenti adeguati per sceverarli e risolverli”.
Nel dare un giudizio complessivo sulla posizione tenuta dal PCI nel corso di quell’anno Ingrao scriveva: “Sarebbe – a mio avviso – sbagliato sostenere che tutto il corpo delle posizioni che allora prendemmo sia stato valido. Ci furono evidenti forzature e sommarietà, sia nell’analisi dei problemi di fondo disvelati dalla critica a Stalin, sia nei giudizi che demmo, ad esempio, sui fatti di Polonia e di Ungheria. Nell’insieme, però, la linea del partito tenne ben fermi due elementi, a mio giudizio decisivi: 1) respingere le tendenze ad una difesa dogmatica del passato e orientare i militanti e le masse ad una ricerca e ad una iniziativa sulle questioni venute alla luce sia per ciò che concerne la costruzione in atto delle società socialiste, sia per le vie di avanzata al socialismo; oggi noi possiamo discutere la profondità e l’ampiezza dei risultati di un tale lavoro; ma è assai importante che quell’orientamento sia stato dato e mi pare indubbio che esso sia stato fecondo; 2) la convinzione che questo avanzamento del “nuovo” doveva realizzarsi nel fuoco di uno scontro politico mondiale in cui i gruppi dominanti dell’Occidente capitalistico tendevano a rompere lo schieramento di sinistra e antimperialista, a staccare da esso masse profonde, a mutare il quadro internazionale e i rapporti di forza fra gli Stati; di conseguenza, la convinzione che si dovesse mantenere la compattezza non solo del sistema socialista, ma anche delle file della sinistra, comprese quelle forze che – per le ragioni dette prima – riluttavano a prender atto del “nuovo” e che solo su una linea di lotta contro le manovre dell’avversario di classe e nel vivo di una tale lotta potevano essere guidate ad una maturazione.”

Questa idea che si dovesse restare dentro a questo quadro come condizione per riuscire a fare avanzare i necessari cambiamenti si traduceva nello slogan: “siamo da una parte della barricata”. Su questo Ingrao osserva: “Capisco che il termine era sommario, tagliava un po’ le cose con l’accetta e sembrava mettere in ombra sia le forze oscillanti (che pure esistevano) sia le contraddizioni interne all’interno della “barricata”. Questo termine però teneva chiaro un punto essenziale: indicava il posto da cui si combatteva, si discuteva e si criticava; e rendeva chiaro che era un posto interno allo schieramento antimperialista per il socialismo, per la pace.”

Ingrao riprenderà gran parte di questi temi in una lunga intervista del gennaio 1977 a Rinascita tornando sul 1956 considerato come anno di “svolta” per il PCI. Questa svolta si collegava al fatto che erano stati messi in discussione tutta una serie di elementi strategici di dottrina del movimento comunista. Ingrao li elenca in questo modo: “una analisi del capitalismo mondiale, visto in sostanza come stagnazione e progressiva degenerazione; una interpretazione ossificata e manipolata dei rapporti tra democrazia e socialismo; una concezione dell’internazionalismo fondata sui princìpi di uno Stato-guida e di un partito guida; una visione “monolitica” del campo socialista e della transizione al socialismo, riportata in pratica ad un solo “modello”. Furono tali punti canonici a ricevere un colpo decisivo nel 1956.”

Inoltre cominciò ad emergere una questione che prospettava la possibilità – prima che si realizzassero le rivoluzioni cubana e algerina – di “rivoluzioni socialiste non dirette dei comunisti”. Con quella tesi “veniva colpita un’idea carismatica dei partiti comunisti, non più considerati sempre e in ogni caso i veri portatori e garanti della coscienza rivoluzionaria. Insomma, si rompeva con un certo integralismo terzinternazionalista, si riconosceva che vi possono essere altre matrici, altre tradizioni rivoluzionarie”.
Secondo Ingrao, traendo in questo anche alcuni insegnamenti delle rivolte polacche e ungherese appena avvenute, la dichiarazione programmatica dell’VIII Congresso del Pci, tenutosi alla fine dell’anno, indica “chiaramente una forma diversa del potere socialista, e ripropone l’espansione della democrazia politica, fino all’autogoverno del popolo, come elemento insopprimibile, qualificante di una società socialista, di una transizione al comunismo.” Ci fu anche – secondo Ingrao – un cambiamento “nel carattere stesso del partito, se è vero che l’adesione ad esso, più che sull’elemento ideologico, si fondò sul programma e sulla lotta per un programma di avanzata al socialismo.”

La riflessione del ’90 e “l’errore di valutazione” sulla rivolta ungherese

Il dirigente comunista tornerà ad affrontare alcuni dei temi legati alle vicende politiche del 1956 nella sua autobiografia-intervista del 1990, in un contesto evidentemente cambiato dall’avvio del processo di trasformazione del PCI in un partito tra socialdemocratico e social-liberale e di crollo dei regimi dell’est Europa.
Ingrao ripercorre il confronto acceso che si aprì nel PCI e le ragioni delle contestazioni interne: “Quali erano le posizioni sui cui fondava questa contestazione? C’era un punto comune: la domanda di una critica molto più drastica e radicale dello stalinismo. Ma i punti di approdo e le stesse culture che stavano al fondo di quella critica erano assai diverse. Eugenio Reale, che era stato negli anni Quaranta uno dei collaboratori più apprezzati da Togliatti, ne traeva motivo per approdare alla socialdemocrazia di Saragat. Altri guardavano allora al Psi, come a una possibile forza, che rompesse con il comunismo, ma mantenendo una ispirazione socialista. Altri all’opposto criticavano l’Urss in nome del comunismo, sulla base di una interpretazione dell’istanza comunista, che vedevano tradita nell’Urss”.
Di fronte a queste diverse posizioni, la direzione del PCI, secondo Ingrao, fece blocco. In questo ci fu il timore “di un riemergere in Italia e nel mondo di un movimento anticomunista di stampo reazionario, e anche di tentativi internazionali di affossare il processo di distensione”. Ci fu in questa seconda direzione anche l’attacco militare di Francia, Gran Bretagna e Israele all’Egitto di Nasser che avvenne negli stessi giorni nei quali si radicalizzava la crisi di Budapest. Mentre circolavano in ambienti governativi italiani, ripresi dalla stessa ambasciata degli Stati Uniti a Roma, ipotesi di messa fuori legge del PCI. In diverse città ci furono tentativi di assalto alle sedi del PCI animati dai gruppi neofascisti.

Per quanto riguarda la rivolta ungherese Ingrao rivede le valutazioni precedenti parlando di “errore”. In proposito scrive: “È la valutazione d’insieme che demmo della rivolta ungherese che fu in radice sbagliata. Ho scritto io l’editoriale dell’”Unità” che si intitolava Da una parte della barricata. Quell’editoriale leggeva i fatti ungheresi come un ritorno controrivoluzionario che minacciava le forze del socialismo. Perciò un fronte, e una barricata, su cui bisognava schierarsi. L’analisi era falsa, non solo perché sopravvalutava la presenza di gruppi conservatori, ma perché tagliava con l’accetta una vicenda molto articolata e differenziata. Non solo non coglieva l’aspetto fluttuante, ancora aperto, che aveva l’evento, ma offuscava un punto essenziale: quel moto esprimeva una esigenza di libertà e di protagonismo operaio e popolare. L’errore politico quindi ci fu e fu serio, anche con conseguenze immediate nella vita italiana. Prima di tutto facilitò il distacco del Psi e quindi cambiò il panorama entro cui sinora s’era mossa la sinistra italiana. Sono persuaso che Nenni già pensava a un distacco. Quello sbaglio accelerò il processo. E la frattura con gli intellettuali fu seria.”

La stessa valutazione del PCI, meno schiacciata dall’idea che l’emergere di un conflitto armato dovesse costringere a scegliere una parte della barricata, nel documento approvato all’VII Congresso fu più articolata, anche se non modificava il giudizio di fondo sul possibile esito della rivolta ungherese: “La correzione degli errori denunciati dal XX Congresso, che avevano portato a non giustificate restrizioni della democrazia, a gravi violazioni della legalità e a seri errori nei rapporti tra stati socialisti, ha investito anche questo campo. Dove questa correzione non è stata fatta a tempo, come in Ungheria, il potere della classe operaia e tutte le conquiste del regime popolare sono stati seriamente minacciati, ed è stata aperta la strada all’attacco delle forze controrivoluzionarie, organizzate e stimolate dall’imperialismo…I fatti di Polonia e d’Ungheria mettono in luce che un sistema di stati indipendenti, in cui la sovranità dei paesi più piccoli non può essere limitata e messa in forse da interventi e pressioni degli stati più forti.”

La posizione che emerse come maggioritaria dal congresso del PCI, che si tenne poche settimane dopo l’intervento sovietico in Ungheria, e che veniva sintetizzata come lotta sui due fronti, verso le posizioni più radicalmente critiche nei confronti dell’Unione Sovietica come verso le tendenze, più sommerse, che respingevano lo stesso processo di destalinizzazione venne sostenute anche da quei dirigenti che poi rappresenteranno successivamente la destra del PCI. Amendola dichiarò ad una riunione di segretari regionali: “Quando l’Esercito Rosso combatte bisogna stare dalla sua parte. Bisogna combattere l’errata posizione secondo cui l’Esercito Rosso non dovrebbe mai intervenire in nessun paese, basandosi sul principio che la rivoluzione non si esporta; sostenendo questa posizione non si tiene conto del modo come si sono formati nel 1945 i regimi di democrazia popolare.”
Fra i massimi dirigenti del PCI, chi prese una posizione di maggiore apertura verso la rivolta e di critica verso la reazione sovietica, fu il segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio il quale, intervenendo in direzione disse: “Tutto sarebbe stato più chiaro se accanto all’esercito sovietico vi fossero state forze comuniste e operaie. È questa assenza che scombussola il partito. Il problema era di legarsi alle masse che erano insorte o che le sostenevano per cercare una soluzione. E’ questo che ho voluto dire. Quanto è avvenuto è gravissimo e deve insegnarci qualche cosa. (…) Cambiare i metodi di direzione in modo che un distacco come quello che si è verificato in Ungheria non avvenga mai.”
Di Vittorio, intervenendo al successivo congresso del PCI, non esprimerà una posizione alternativa a quella maggioritaria dichiarandosi soddisfatto “del giusto peso che il compagno Togliatti ha attribuito, nella sua analisi, alla provocazione reazionaria e ai gravissimi incredibili errori del partito e del governo ungheresi nell’immane tragedia dell’Ungheria”.

La posizione assunta dal PCI allora, benché sollevasse un diffuso dissenso nel mondo intellettuale non ne intacco in modo sostanziale il consenso nella società. Ci sono valutazioni diverse su quale fosse l’atteggiamento prevalente della classe operaia (di quella parte consistente che si collocava a sinistra), ma in generale si ritiene che fondamentalmente condivise la posizione del PCI (che nonostante la flessione degli iscritti avvenuta a seguito degli avvenimenti del 1956, poteva contare ancora su oltre 700.000 operai aderenti al partito) e in parte influenzò anche l’orientamento di una consistente minoranza del PSI. Secondo un sondaggio del tempo, effettuato dalla DOXA che per anni fu l’unica agenzia ad utilizzare questo strumento di indagine sociologica, si dichiararono a favore dell’intervento sovietico l’82% dei simpatizzanti del PCI e il 33% di quelli del PSI.

La questione ungherese è tornata ad essere oggetto di riflessioni e valutazioni diverse anche in tempi successivi, in forme necessariamente influenzate dal distanziarsi nel tempo e dal mutamento del contesto politico a partire dal quale si valutavano gli avvenimenti. Ne riparleremo in un prossimo articolo, in particolare analizzando il bilancio che ne fecero, a distanza di anni, Lucio Magri e Livio Maitan.

Franco Ferrari

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3 Commenti. Nuovo commento

  • Giacomo Casarino
    11/05/2023 11:27

    Col senno di poi é stupefacente come, al di là della polemica, parziale ed errata, di matrice trotskysta, sia mancata nei lunghi decenni un’analisi marxista sulla natura della società sovietica ( Krusciov era arrivato fino alla bestialità di proporre un progetto per le “basi materiali del comunismo….. in un Paese solo!), quasi che lo Stato-partito del PCUS garantisse il/per il “potere operaio”, cioé per una duratura transizione. E sul questo punto cardinale che hanno fallito (e sono morti) i partiti rimasti eredi della Terza Internazionale, e dunque anche il PCI, filosoficamente e teoricamente rimasto staliniano.

    Rispondi
  • giacomo casarino
    13/05/2023 11:28

    Il commento l’ho lasciato, ma voi l’avete cestinato. Bravi, bravissimi cari compagni!

    Ancora una volta sono radiato/ espulso come nel 1970: ne vado orgoglioso!

    Rispondi

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