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L’illusione del nuovo nucleare va respinta in nome di un’energia e di una società giuste e democratiche

Intervista ad Angelo Tartaglia di Alberto Deambrogio

Angelo Tartaglia è stato professore di Fisica presso la Facoltà di Ingegneria del Politecnico di Torino, ed è oggi membro dell’Istituto Nazionale di Astrofisica. Ha esteso i suoi studi ai problemi dell’energia, dei modelli di sviluppo, della pace e del disarmo. Si occupa di impatto delle attività umane sull’ambiente. Da alcuni anni è impegnato nell’applicazione della logica dei sistemi ai problemi trasportistici, con particolare riferimento al progetto delle ferrovie ad Alta Velocità. Lo abbiamo raggiunto ed ecco cosa ci ha detto a proposito di clima, emergenza ambientale, rapporto politica/scienza e tanto altro.

Alberto Deambrogio: Professor Tartaglia recentemente il vice presidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, ha affermato che “l’inserimento del gas e del nucleare nella tassonomia europea è una questione che è stata sollevata da vari ministri, per il mix energetico del futuro abbiamo bisogno di maggiori energie rinnovabili ma anche di fonti stabili”. Prima di parlare nello specifico di nucleare, e al di là degli interessi di alcuni Paesi europei, vuole aiutarci nel descrivere quali sono effettivamente le energie rinnovabili? Esiste dal punto di vista fisico e scientifico una energia effettivamente rinnovabile?

Angelo Tartaglia: In senso stretto e letterale non ci sono energie “rinnovabili” cioè che possano, come l’Araba Fenice, risorgere indefinitamente dalle proprie “ceneri”. Quello dell’energia illimitata (e pulita) è un mito che fa il paio con il moto perpetuo che la fisica ha da tempo dimostrato essere impossibile. A sancirlo è il cosiddetto “secondo principio” della termodinamica. Al di là degli aspetti tecnici formali, quel principio dice che in un ambiente isolato qualunque trasformazione di energia al fine di produrre lavoro utile produce anche necessariamente “disordine” (in linguaggio formale: entropia). In altri termini non c’è ciclicità, ma l’energia, che di per sé, come la materia, non si crea e non si distrugge, quando la si “usa” (la si converte in lavoro utile) si degrada, cioè si trasforma in forme sempre meno utilizzabili fino a non esserlo più per nulla.

In concreto se consideriamo un sistema come l’ambiente terrestre in cui viviamo (in pratica uno strato superficiale del pianeta che va da qualche migliaio di metri di profondità rispetto alla superficie, fino alla sommità dell’atmosfera) esso si è fin qui mantenuto in equilibrio dinamico (come per un ciclista che sta pedalando e quindi rimane in equilibrio pur continuando a modificare la propria posizione e il proprio assetto) grazie ad un flusso continuo di energia proveniente dall’esterno che dopo aver prodotto una quantità di “lavoro utile” (il clima, la circolazione marina, la biosfera in tutte le sue forme…), ridotto alla forma entropica, viene scaricato all’esterno sotto forma di radiazione (infrarossa).

Mi scuso per questa rozza microlezione di termodinamica. A questo punto e in concreto che cosa può voler dire “energia rinnovabile”? Semplicemente energia che proviene da una fonte (esterna) la cui durata presumibile è molto molto maggiore dei tempi storici umani. Se prendiamo ad esempio il sole, la sua energia raggiante non è affatto rinnovabile, ma il meccanismo che la produce continuerà ad essere attivo verosimilmente per qualche miliardo di anni e pertanto per qualche secolo o millennio possiamo (fingere di) considerarla inestinguibile.

Considerazioni analoghe possiamo farle riguardo alla fonte geotermica. Questa è originata dalla conversione in calore delle radiazioni emesse da alcuni isotopi radioattivi sparsi nel corpo della terra. Complessivamente il flusso è più di 10.000 volte più piccolo di quello solare, ma si può pensare che continui ad esserci per qualche miliardo di anni, dal momento che il tempo di dimezzamento o emivita (il tempo in capo al quale la quantità di materiale si riduce, per decadimento, alla metà di quella di partenza) dei principali elementi radioattivi naturali (isotopi dell’Uranio, del Torio e del Potassio) è superiore appunto al miliardo di anni.

Come terza fonte esterna di lunga durata posso ancora citare la gravità lunare (e marginalmente anche solare) che, accoppiandosi con la rotazione terrestre, produce le maree nell’atmosfera e negli oceani. Anche in questo caso, pur considerando che la luna si sta allontanando dal nostro pianeta al ritmo di quasi 4 cm all’anno, possiamo di nuovo confidare che l’intensità delle maree si manterrà cospicua ancora per miliardi di anni.

Per il resto possiamo osservare che sulla terra esistono dei “serbatoi” di energia in forme che possono essere convertite (sempre irreversibilmente) in lavoro utile: vale per il carbone, per gli idrocarburi fossili, per l’uranio 235. Quei serbatoi però sono finiti e progressivamente si esauriscono o, per dir meglio, il loro sfruttamento diviene sempre più costoso. In generale la durata di quelle riserve non ricostituibili, a partire da oggi, si misura, al ritmo di sfruttamento attuale e ancor più in caso di aumento della domanda, in decenni.

A.D.: Per ritornare a ciò che Dombrovskis ha definito “fonte stabile”, per ritornare cioè al nucleare, lei pensa che questo tipo di scelta sia utile all’interno del percorso, per molti versi obbligato, di riduzione delle emissioni di fronte a una crisi climatico-ambientale e sociale ormai innegabile?

A.T.: Dombrovskis riporta quanto gli suggeriscono dei consiglieri che esprimono gli interessi a breve termine del sistema produttivo insostenibile che abbiamo messo in piedi e dei paesi (come la Francia) che a suo tempo hanno investito nel nucleare e vorrebbero continuare a fare profitti vendendo ad altri le proprie tecnologie. Se il problema è quello di trovare una fonte di energia di transizione in vista di soluzioni future che siano sostenibili, a parte il riflettere sui meccanismi fisicamente insostenibili alla base della nostra economia, occorre trovare soluzioni che siano operative “subito”, visto che ci troviamo in condizioni di emergenza climatica e gli obiettivi posti dalla stessa Unione Europea fissano dei termini al 2030 e poi al 2050. Ora, di certo le centrali nucleari non potrebbero rappresentare una tale soluzione-ponte dal momento che la costruzione di una centrale ha tempi decisamente lunghi, come mostrano gli esempi del terzo reattore (di terza generazione) di Flamanville in Francia, che, iniziato nel 2006, doveva concludersi entro il 2014, con un costo previsto di 5 miliardi di euro, ma che è tuttora in costruzione con una previsione di completamento lavori per il 2022 e un costo finale di 19 miliardi; o quello del reattore di Olkiluoto3 in Finlandia (anch’esso tecnologia francese) la cui realizzazione si è avviata nel 2005 con un costo previsto di poco più di 3 miliardi e previsione di entrata in funzione nel 2009, data poi spostata progressivamente al 2012, poi al 2013, poi al 2019 e ora ipotizzata per il 2022 con costi nel frattempo lievitati verso i 9 miliardi.

In ogni caso i reattori si basano sul meccanismo della fissione nucleare, la quale, per definizione, produce scorie radioattive. Queste ultime sono una miscela di diversi radioisotopi che hanno tempi di decadimento che vanno dalle frazioni di secondo fino alle decine di migliaia di anni (nel caso del Plutonio). In concreto: un reattore può produrre energia per qualche decennio, ma lascia dei residui che sono pericolosi per molti secoli se non millenni. Un lampante caso di presente che compromette il futuro.

A.D.: Molti, compreso il nostro ministro alla Transizione Ecologica Cingolani, puntano a promuovere un nucleare di “nuova generazione”, che dovrebbe avere in sé tutti i pregi di un’energia inesauribile accoppiata a nessun effetto collaterale di breve o lungo periodo. Non passa giorno poi senza che questo o quel sito di informazioni lanci la notizia di un nucleare da fusione ormai acquisito. È proprio così? Abbiamo a disposizione una soluzione geniale dietro l’angolo e non ne sappiamo approfittare?

A.T.: La vicenda delle “generazioni” dei reattori a fissione ha un po’ la connotazione della favola. Quella di cui si è parlato di questi tempi è la “quarta”. La sua connotazione principale è quella di non esistere. C’è una pletora di varianti e versioni diverse di reattori sviluppati a livello sperimentale o progettati o ipotizzati e quanto vi sia di realmente nuovo e funzionante lo mostrano gli esempi già citati del reattore 3 di Flamanville e di quello di Olkiluoto3. Ricordiamoci che abbiamo bisogno di abbattere le emissioni climalteranti in un tempo molto breve e poi che il principio fisico che viene chiamato in causa è quello della fissione con le conseguenze che ho menzionato poco fa.

Riguardo alla “inesauribilità” del nucleare osservo che la materia prima è l’U235(Uranio 235) che deve essere estratto insieme al molto più abbondante Uranio 238 da miniere site in varie parti del mondo. Al riguardo stime fatte alla fine del secolo scorso indicavano, nel caso di un ricorso sistematico alla produzione di energia da fissione, una durata utile della risorsa dello stesso ordine di grandezza di quella del petrolio, misurabile in decenni.

Quanto alla fusione nucleare, vorrei raccontare un aneddoto personale. Io mi sono laureato in ingegneria nucleare nel lontano 1968. A quel tempo a noi giovani ingegneri veniva detto che i primi reattori a fusione avrebbero visto la luce entro una ventina di anni. Di anni ne sono trascorsi più di cinquanta e oggi sentiamo dichiarazioni e troviamo scritto sui giornali che i primi rattori a fusione cominceranno a funzionare tra una decina d’anni… Un conto è la ricerca che continua, un conto è la realtà applicativa ancora più che indistinta. Circa comunque la “pulitezza” dei reattori a fusione, se ci saranno, osservo che certo non si producono scorie ma si rilasciano neutroni che rendono radioattive le strutture del reattore, che dovranno poi essere trattate, pur essendo diversa la composizione dei materiali, più o meno come i residui della fissione.

Ancora un commento a riguardo della pratica “inesauribilità” della risorsa primaria. Per la fusione servono due isotopi dell’idrogeno. Uno è il deuterio che si trova nell’acqua pesante presente in natura nella proporzione all’incirca di 1 a 10.000 rispetto a quella normale, ma l’altro è il trizio. Quest’ultimo è radioattivo con una emivita di una dozzina di anni. In concreto il trizio compare sulla terra prodotto occasionalmente dalla radiazione cosmica (o dall’esplosione di bombe termonucleari) e poi ha un’esistenza effimera. Tradotto: non esistono miniere di trizio; occorre produrlo ad hoc. Per produrre il trizio si parte da altri elementi o isotopi leggeri, come il deuterio, il berillio o il litio e si attivano dei processi nucleari che richiedono altri reattori o acceleratori di particelle. Insomma, il fattore limitante per la fusione è la disponibilità della “materia prima” e dei processi nucleari necessari per lavorarla.

A.D.: In realtà pare che l’affollamento di molti soggetti, economisti, politici, opinionisti, si concentri sul fatto che occorra scongiurare in ogni modo la crisi di una crescita esponenziale e senza fine. Come hanno ricordato Dardot e Laval lo slogan è: sempre di più e sempre più velocemente. Per stare a quel passo servirebbero un pianeta e una energia senza limiti… E’ davvero possibile?

A.T.: Ovviamente no e fa specie doverlo ricordare. La crescita di cui si parla in continuazione, al di là delle chiacchiere, è invariabilmente materiale: più cose, più materia manipolata, più energia per le manipolazioni e per il trasporto. In un ambiente finito, l’abbiamo già visto e rientra nell’ambito dell’ovvio, non è materialmente possibile una crescita infinita. C’è di più. Per ottenere un prodotto o un servizio reputati utili occorre utilizzare delle risorse materiali (energia inclusa): queste risorse necessarie possiamo chiamarle “costi materiali”. Ovviamente si fa in modo che questi costi siano minori del prodotto lordo, in modo che ci sia un margine di “utile”. Orbene, se la quantità di prodotti e servizi cresce i costi materiali crescono più in fretta. Come esempio possiamo prendere l’energia richiesta per aumentare la velocità di un veicolo: per raggiugere una velocità doppia occorre iniettare una quantità quadrupla di energia. Risultato: l’utile netto (prodotto lordo meno costi), con la crescita, progressivamente si riduce. L’andamento è caratteristico: dapprima l’utile cresce poi bruscamente crolla. Chi guarda indietro dice “vedete come siamo cresciuti? Continuiamo così!”; chi guarda avanti vede uno strapiombo.

Ma c’è ancora di più. Tra i problemi che nominalmente preoccupano coloro che hanno responsabilità decisionali c’è quello delle disuguaglianze sociali ed economiche. In effetti, pur in modo irregolare, le disuguaglianze continuano a crescere in tutto il mondo e sotto tutti i regimi; tanto dove sventolano le bandiere rosse cinesi, quanto nelle patrie del liberismo, come Gran Bretagna e Stati Uniti; per non parlare dei paesi “in via di sviluppo”. Quello che oggi tutti hanno in comune è il mercato globalizzato. Tutti giocano a Monopoli e nel Monopoli si inizia la partita tutti più o meno allo stesso livello e quando si finisce uno ha tutto e gli altri niente. Se l’esito non piace occorre cambiare gioco. In altri termini: in un ambiente finito la crescita competitiva, oltre a non essere materialmente sostenibile, comporta necessariamente (è la matematica a dirlo) una crescita delle disuguaglianze.

Il fatto è che l’attuale ordine socioeconomico mondiale si è parallelamente costruito una potente ideologia, ossia un sistema di rappresentazione e di narrazione che presenta quell’ordine come “giusto”, “naturale” e “necessario”, privo di alternative. Ciò anche contro ogni evidenza razionale, per non dire scientifica. La costruzione di ideologie giustificatrici di situazioni di fatto non è una novità nella storia umana. Nel medioevo e fino all’età moderna il dominio della “nobiltà” sugli altri, originato a suo tempo dalla pura e brutale applicazione della forza delle armi, è stato motivato con “l’ordine voluto da Dio”. Il saccheggio coloniale delle Americhe, dell’Africa e tendenzialmente del resto del mondo da parte delle potenze europee, è stato nobilmente giustificato dalla volontà di portare “la civiltà” ai “barbari” incivili; la supremazia dei bianchi, una volta di più europei, imposta alle popolazioni di colore anche in forma di schiavitù è stata giustificata niente meno che “scientificamente” con la teoria delle “razze” una delle quali superiore alle altre; e così via elencando. Oggi si arriva, nel caso dell’economia “mainstream”, a pretendere di trasformare uno stato di fatto in “legge di natura” sfiorando una vera e propria sacralizzazione che vede assurgere egoismo e avidità individuali a motori del progresso, in quanto ipostasi di una somma divinità: il Mercato, la cui “mano nascosta” provvede sapientemente a risolvere ogni problema. Questo delirio collettivo, particolarmente supportato da chi teme di avere più da perdere da cambiamenti di rotta, si esprime attraverso mille altoparlanti cercando di impedirci di vedere il burrone che è lì a due passi davanti a noi.

 

A.D.: Chi ripropone a vario titolo il nucleare come soluzione non è stato ancora in grado di dare una soluzione al problema delle scorie prodotte da quel sistema. Io sono piemontese e so cosa significa avere una “servitù” nucleare importante su un territorio totalmente inidoneo. In Piemonte però si sono sperimentate le comunità energetiche, un modo diverso, virtuoso e democratico di affrontare positivamente il tema della produzione di energia per i bisogni reali delle persone. Ce ne vuole parlare? Ci vuole dire di quali sviluppi è passibile quel tipo di progetto nonostante una normativa nazionale non sempre costruita per favorirlo?

A.T.: Sulle scorie è appena il caso di ribadire che non ci si può concretamente fare null’altro che metterle da qualche parte e aspettare che decadendo smettano di essere pericolose. Il guaio è che il “qualche parte” deve essere un luogo segregato di cui si possa ragionevolmente dire che per qualche millennio non verrà in contatto con la biosfera (quella che patisce il danno diretto della radioattività) e che non vi arriverà l’acqua che ha il brutto vizio di sciogliere le cose e portarle in giro. Depositi con queste caratteristiche al momento non si può dire che ce ne siano per cui le soluzioni adottate sono tutte più o meno provvisorie. D’altra parte chi può seriamente garantire che un certo deposito resti sigillato per secoli se non addirittura millenni? È sempre una concreta rappresentazione del principio del “prendiamo tutto quello che possiamo oggi, domani ci penserà qualcun altro”.

Ma veniamo al tema delle comunità dell’energia. In effetti l’energia è l’essenza vitale di qualsiasi sistema produttivo e, direi, di qualsiasi cosa in coevoluzione con l’ambiente. Nel contempo il consumo di energia è l’indicatore più diretto di quello che è l’impatto ambientale e climatico delle attività umane nella loro globalità. È quindi chiaro, che, se vogliamo recuperare un ragionevole controllo sulle trasformazioni climatiche già in atto e prevenire conseguenze estremamente pesanti prossime, occorre in primo luogo governare razionalmente i consumi di energia. Alla luce di quanto detto, tanto per cominciare, bisogna porre un tetto a quei consumi e anzi ridurli, a partire dai paesi che ne usufruiscono e ne hanno usufruito in maggior misura pro capite (Emirati, Stati Uniti, Europa …). Questo certamente vuol dire migliorare l’efficienza di tutti i processi, evitando comunque di scambiare la scienza con la magia (energia infinita e così via); ma contestualmente ci rimanda all’esigenza di rimettere in discussione il sacro meccanismo della crescita.

Ora, che cos’è una comunità dell’energia? Un gruppo di “utenti” dell’energia (cittadini, pubbliche amministrazioni come i comuni, imprese non del settore energetico) che, trovandosi in uno stesso ambito territoriale, si associano, in qualche forma istituzionale, allo scopo di far fronte da sé ai propri fabbisogni energetici usando risorse “rinnovabili” locali. A rigore ho arricchito la definizione di connotazioni territoriali e con la specifica dell’autoproduzione da rinnovabili, che nell’accezione più ampia di comunità non sono esplicitamente presenti. È però vero che sono le stesse normative a scala europea, nazionale e regionale a introdurre queste connotazioni, riferendosi alle CER (Comunità dell’Energia Rinnovabile).

Le comunità energetiche non sono una novità del momento, visto che nel nordest dell’Italia di oggi ce ne sono che sono state fondate più di un secolo fa. Ora però il lato buono delle istituzioni ha formalmente deciso di promuoverle e agevolarle, introducendo anche degli incentivi specifici. L’obiettivo è quello di responsabilizzare gli attori sociali riguardo al tema dell’energia e contestualmente dare un impulso alla diffusione degli impianti di produzione da “rinnovabili” distribuiti sul territorio.

Questo specifico approccio, molto positivo, al tema dell’(auto)approvvigionamento di energia ha però in sé anche una carica, per così dire, rivoluzionaria: l’energia all’interno di una comunità (tanto più che le normative a tutte le scale ribadiscono che le CER non debbono avere prevalente fine di lucro) non è trattata come una merce che si compra e si vende, ma come una risorsa vitale che viene prodotta e poi scambiata all’interno del gruppo i cui soci concorrono a sostenere, condividendoli, i necessari costi. Finché queste esperienze si mantengono alla scala di gioiellini dimostrativi in aree periferiche del paese, tutto bene; ma immaginate che le CER (e i gruppi di autoconsumatori che operano collettivamente o AUC, altra opzione operativa all’interno dei condomini) prendano davvero piede e si generalizzino un po’ ovunque. La conseguenza sarebbe (sarà?) un ridimensionamento e più precisamente una drastica riduzione del mercato dell’energia, quello servito dalle grandi centrali, siano esse alimentate a combustibili fossili o anche da “rinnovabili” (grandi campi eolici, agrovoltaici e altro). Davanti a questa prospettiva il lato oscuro delle stesse istituzioni che promuovono le CER si preoccupa e provvede ad introdurre nella stessa normativa delle piccole e meno piccole zeppe volte a tutelare il divin mercato; in particolare i maggiori operatori commerciali del settore dell’energia si premurano di assistere le istituende CER, a patto di essere loro a indirizzarle se non a guidarle, visto che il lato buono dice che i grandi operatori non possono essere soci delle comunità.

Non entro in dettagli per non farla troppo lunga e vengo all’esperienza del pinerolese. Cosa abbiamo fatto finora in quel territorio? Cominciando alla fine del 2013 con uno studio di fattibilità su cinque comuni, si è sensibilizzato il territorio; si è arrivati a promuovere una legge regionale (d’iniziativa consiliare), poi approvata nel 2018; nel 2019 si è istituita, a norma di legge nazionale, una Oil Free Zone (che oggi annovera più di 30 comuni); si è progettata e predisposta una Comunità ampia sul territorio di sei comuni in forma di cooperativa per azioni e ora, 2021, quei sei comuni hanno costituito una Associazione Temporanea di Scopo finalizzata ad aggregare e gestire unitariamente le risorse per promuovere e avviare più CER a norma della legge ponte nazionale n. 8/2020 nonché del nuovo decreto attuativo della direttiva europea, che entra in vigore il 15 dicembre del corrente anno. In specifico, grazie anche al lavoro di docenti e giovani del Politecnico di Torino, è pronta una CER sul territorio di Villar Pellice, ne sono in progettazione due sul territorio di Scalenghe e una in Cantalupa. In Pinerolo si è anche istituito un AUC all’interno di un condominio ristrutturato grazie ad ACEA Energia.

Fuori dell’ambito pinerolese, ma sempre in Piemonte, si annoverano la costituzione (primavera 2021) di una CER nel comune di Magliano Alpi e la formazione di una ATS che raggruppa i comuni delle Unioni Montane della Val Maira e Val Grana. Un ulteriore progetto riconosciuto dalla regione riguarda i comuni della Valle di Susa. In Val di Susa, entro la fine di dicembre verrà istituita formalmente una CER nel comune di Venaus. Con tutte queste esperienze esistono contatti e forme di collaborazione. Altre esperienze ancora stanno avviandosi in vario modo in altre regioni. Ne cito un paio con cui i contatti sono più stretti e che vedono una collaborazione con gruppi del Politecnico di Torino: la Comunità Collinare del Friuli, che intende avviare, grazie ad un robusto finanziamento regionale, 50 CER; il GAL (Gruppo di Azione Locale) Meridaunia che comprende 30 comuni della Daunia (parte occidentale della provincia di Foggia) che si è attivato per promuovere delle CER e svolgere un ruolo nel “repowering” dei campi eolici da tempo presenti sul suo territorio.

Insomma, la “rivoluzione” sta partendo. Non tutti forse ne hanno colto la portata e soprattutto l’urgenza, ma ci si è cominciati a muovere nella direzione giusta.

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