La Germania è inevitabilmente il paese chiave per determinare la prossima evoluzione dell’Europa e del progetto di integrazione economica e politica nella fase di fuoriuscita dalla pandemia. Abbiamo segnalato, nell’articolo della scorsa settimana pubblicato da Transform Italia, l’importanza del contesto internazionale per comprendere l’orientamento dell’elite politica ed economica tedesca. Gli eventi di questi giorni ed in particolare la crisi che si è aperta negli Stati Uniti a seguito dell’assassinio ingiustificato di un afro-americano da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis, non possono che rafforzare questo intreccio fra contesto interno e dimensione globale.
La proposta avanzata da Ursula von der Leyen, a nome della Commissione europea, per un piano straordinario di sostegno agli Stati che sono stati più colpiti dagli effetti del Covid-19 rappresenta sia una parziale correzione di rotta rispetto ai tradizionali dogmi dell’austerità e del pareggio di bilancio, sia un rafforzamento della dimensione sovranazionale della risposta alla crisi. Il partito tedesco di maggioranza si è esposto in misura significativa a favore di questa impostazione come attestano le prese di posizione dei candidati alla presidenza della CDU in gara per subentrare alla Merkel. Una Merkel che ha saputo riprendere in mano il timone dopo una fase che sembrava di progressivo sbandamento. Persino un giornale conservatore (ma più intelligente di altri portavoce dell’opinione pubblica di destra) come la Frankfurter Allgemeine Zeitung è sceso in campo a difesa dell’Italia e contro il luogo comune di paesi del Sud sempre pronti a vivere di rendita sulle spalle dei “frugali” del nord.
La Germania è consapevole che il quadro internazionale sta cambiando. La Cina si presentarsi come la possibile nuova potenza egemone, e questo crea qualche preoccupazione in una classe dominante che dopo la seconda guerra mondiale si è sempre ancorata all’idea di far parte di un Occidente guidato dagli Stati Uniti, in grado di imporre la propria supremazia tecnologica ed economica, prima ancora che militare, sul resto del mondo.
Sembra farsi strada la consapevolezza che gli Stati Uniti non potranno essere più chiamati ad adempiere ad una funzione di leadership del mondo capitalistico più avanzato così come l’hanno svolta dal 1945 in poi. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica questo ruolo sembrava ormai tale da non poter essere soggetto a nessun tipo di contestazione.
L’Amministrazione Trump, contrariamente alla sua retorica sul “rendere l’America di nuovo grande”, è un segnale evidente di un indebolimento delle fondamenta strutturali del potere imperiale americano. Nel 2019, per la prima volta da quando è stata fondata, l’organizzazione globale che gestisce i brevetti internazionali ha visto le richieste cinesi superare quelle degli Stati Uniti. Su un terreno cruciale come quello del 5G, i cinesi e, in particolare, la Huawei, sono oggi più avanti delle aziende statunitensi.
L’ossessione anticinese che attraversa la destra americana (ma che trova ascolto anche nella leadership democratica) non ha la stessa natura del maccartismo antisovietico degli anni ’50. Allora il conflitto era ideologico e in parte militare, ma la guida tecnologica ed economica occidentale era incontrastata, malgrado l’illusione prodotta dallo sputnik e dalla corsa allo spazio. Oggi questo predominio non c’è più. Il peso degli Stati Uniti sull’economia mondiale è decisamente ridimensionato.
È curioso osservare come nella destra repubblicana ogni giorno si levi la voce di qualche esponente più o meno importante che propone misure punitive nei confronti della Cina. Ad esempio è stata avanzata l’ipotesi di azzerare il debito USA che si trova in mani cinesi (oltre un triliardo di dollari) oppure di avviare procedure giudiziarie contro la Cina per chiedere di pagare il costo delle conseguenze dell’epidemia negli Stati Uniti. Tra le ultime idee in circolazione (ripresa dal South China Morning Post) l’esclusione della Cina dal sistema delle transazioni in dollari. Tutte misure che risultano o impraticabili o tali da produrre più danni di credibilità agli stessi Stati Uniti che non all’economia cinese. Persino l’ipotesi di allontanare una parte degli studenti cinesi in quanto presuntamente collegati a strutture militari ha mandato nel panico le Università americane che rischiano di perdere il ricco bottino delle tasse d’iscrizione.
Ma l’indebolimento del peso economico si accompagna ad una complessiva perdita di credibilità da parte della Amministrazione americana che la rende incapace di guidare il blocco occidentale. Non si tratta solo del progressivo abbandono delle sedi multilaterali globali (ultima l’Organizzazione Mondiale della Sanità) ma anche della natura sempre più gretta delle scelte politiche degli Stati Uniti tutte orientate al consenso interno. Per di più il blocco sociale che sostiene Trump unisce l’avidità della classe dominante interessata solo al taglio delle tasse ad un insieme di gruppi motivati ideologicamente in varia misura dallo sciovinismo, dal razzismo, dal cospirazionismo e dall’integralismo religioso.
Occorre tenere presente che se anche questa coalizione sociale è probabilmente minoritaria nel paese, la natura del sistema politico degli Stati Uniti consente ampi spazi di manipolazione tali da permettere ad una minoranza di conquistare il potere. I Repubblicani, su questo versante, sono degli specialisti della truffa: dal gerrymandering (strumento per ridisegnare le circoscrizioni elettorali in modo tendenzioso), alla introduzione di vari ostacoli all’esercizio del diritto per allontanarne i settori popolari, allo smantellamento di tutti i meccanismi riequilibrio del potere presidenziale. Tutto questo rende imprevedibile l’esito del voto di novembre, anche considerata la debolezza di fondo della candidatura di Joe Biden e di tutto l’asse politico centrista che ha riaffermato il controllo sul Partito Democratico contro la candidatura di Bernie Sanders.
È evidente che in questo scenario la Germania non può pensare di continuare tranquillamente a gestire il proprio modello economico basato su una forte capacità di lucrare sulle esportazioni e di gestire un tirchissimo pareggio di bilancio. Per questo la Merkel ha aperto nuovi spazi ad una correzione nelle politiche europee. Per non farsi prendere da improvvidi entusiasmi occorre però tenere presente due fattori: il primo è che l’ideologia che caratterizza la CDU resta quella storica dell’economia sociale di mercato, che va intesa come subordinazione della società al mercato economico e non il contrario e su questo non c’è nessuna correzione di fondo; il secondo che non è certo che il tandem Germania-Francia riesca ad imporre a tutta l’Unione la proposta avanzata dalla Commissione.
L’opposizione viene da due fronti, i 4 “frugali” e alcuni paesi di Visegrad (Ungheria e Repubblica Ceca). Può darsi che questa opposizione sia fatta rientrare. Nel primo caso con aggiustamenti di bilancio in modo da ridurre al minimo l’esborso chiesto a questi paesi, con in più un po’ di minacce all’Olanda di chiuderle il rubinetto del dumping fiscale. Nel secondo facendo pesare che la struttura economica di questi paesi è sostanzialmente subalterna a quella tedesca e facendo balenare in questo caso il ritiro dei cospicui finanziamenti che arrivano dall’UE. Finanziamento che consentono ad Orban, ad esempio, di fare il sovranista con i soldi altrui.
Germania e Francia hanno un piano B, nel caso l’operazione della Commissione guidata dalla von der Leyen non riuscisse? Difficile dirlo. Potrebbe tornare in campo la carta della BCE da cui sono esclusi diversi Paesi oppositori perché non hanno adottato l’Euro e considerato che iniziative come quelle messe a suo tempo in campo da Draghi non richiedono l’unanimità. Per consentire di utilizzare questo strumento sarà indispensabile aggirare l’ostacolo messo in campo dalla Corte costituzionale tedesca. L’altra strada è accelerare un processo di cambiamento dell’Unione creando una superstruttura economico-finanziaria più integrata e basata su imprese europee di grandi dimensioni e monopolistiche che spostino la competizione dall’interno dell’Unione al mercato globale.
Sono per ora solo ipotesi, ma sembra ragionevole ritenere che entriamo in una fase di turbolenza. Se non vogliamo che i nuovi assetti siano solo il frutto dei mutamenti di equilibri interni alle classi dominanti, le forze sociali e politiche alternative dovrebbero provare a delineare una strategia adeguata ai tempi e alla posta in gioco.