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L’eredità No-Global e le questioni irrisolte…

di Tommaso
Chiti

di Tommaso Chiti –

A venti anni dalla prima mobilitazione internazionale contro la globalizzazione, che si tenne il 30 novembre 1999 a Seattle in occasione dell’incontro del WTO, quando decine di migliaia di manifestanti bloccarono le strade della città, da più parti la ricorrenza è stata colta come occasione di riflessione sull’eredità politica del movimento no-global.

I fatti, noti anche come la ‘battaglia di Seattle’ per i ripetuti scontri con la polizia, coniarono un nuovo paradigma di proteste su scala internazionale che, oltre a mostrare connotanti strategici sostanzialmente differenti da quegli precedenti – e forse in buona sostanza anche successivi – definirono nuove prospettive di riferimento per un’intera generazione alter-mondista.

L’esplosione del conflitto socio-economico verteva sulla contrapposizione fra le élite finanziarie e governative, dotate di un potere su scala globale spesso distante dal controllo democratico e quindi dalla sua legittimazione, da un lato; e la galassia di realtà associative, sindacali, autonome e comunità indigene dall’altro, che indirizzavano la loro protesta fisicamente contro entità spesso intangibili. Un contrasto fra la base della piramide sociale, rappresentata dalla cittadinanza attiva e più critica, e il vertice di quell’ordine neoliberista, che si era imposto come monocratico, dopo il fallimento dell’esperienza sovietica e della sua disgregazione.Al confronto fra occidente liberale ed oriente socialista, si era sostituto un paradigma fra Nord – benestante – e Sud – impoverito – del mondo, non certo solamente in termini geografici, quanto piuttosto per condivisione o meno delle dottrine legate al capitalismo finanziario.

In questa ridefinizione da ‘villaggio globale’, con il proprio centro situato nelle maggiori piazze d’affari di Manhattan, Londra, Francoforte, Milano e Tokio fra le altre; le periferie mondiali nei continenti africano, latino-americano ed euro-asiatico hanno rappresentato sempre più un bacino estrattivo di materie prime con le quali alimentare un sistema unidirezionale, verso mercati di economie mature.

Perciò larga parte delle proteste che seguirono il battesimo di Seattle si sono situate spesso nell’emisfero a Nord di questa configurazione, sebbene guardassero con molto interesse ed ispirazione ad esperienze come lo zapatismo in Chiapas e alla sollevazione del 1994 contro il NAFTA, oppure al pensiero critico verso gli imperi commerciali di Noam Chomsky e ai lavori di Naomi Klein, come ‘No Logo’. Non a caso infatti il primo Social Forum si tenne a Puerto Alegre ed anticipò di poco il riscatto politico delle masse operaie e contadine, che elessero qualche anno più tardi il candidato del Partito dei Lavoratori (PT) Inacio Lula da Silva a presidente del Brasile.L’eterogeneità delle componenti del mondo no-global, fatto da forze anticapitaliste, autonome, anarchiche o semplicemente alternative a modelli di sfruttamento ed accumulazione di profitti, si riuniva intorno alla prospettiva di un mondo più equo e solidale.Alle rivendicazioni operaie si affiancava il movimentismo studentesco, come già negli anni delle rivolte sessantottine, oltre però ad una connotazione più trasversale, che coinvolgeva settori di confessioni religiose, così come collettivi antagonisti, organizzazioni non-governative (ONG) e gruppi ambientalisti

Contro avversari tanto potenti quanto intangibili infatti si avvertiva il bisogno di coalizioni ampie, dal basso, cariche di rivendicazioni contro il capitalismo neoliberista e quindi animate da uno spirito di condivisione internazionalista fra cittadini del mondo.

Le differenti visioni però spesso finivano per determinare scelte tattiche anche divergenti, su come portare avanti la protesta. Così accanto a manifestazioni non-violente – come quelle animate dai gruppi Lilliput a Genova – si facevano strada azioni di disobbedienza civile, oppure di carattere più dirompente ed eversivo, mirate al sabotaggio di simboli del potere delle multinazionali – prevalentemente da parte di gruppi di “black-block”, oppure organizzate in funzione difensiva da scontri con la polizia – come nel caso delle ‘tute bianche’ – rispetto ad un livello di repressione sempre più violenta.

Sintesi emblematica e altrettanto critica della sovrapposizione di queste tattiche è rappresentata dalle proteste contro il G8 di Genova, dove la repressione salì a livelli drammatici e disumani di violenza, fino a fare vittime fra i manifestanti, tanto da essere definita come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale” da parte di Amnesty International.Una delle componenti fondamentali dell’evoluzione del movimento è rappresentata dall’utilizzo dei mezzi di comunicazioni e delle piattaforme di divulgazione, che proprio agli inizi del nuovo millennio vide coincidere la nascita di social network con l’esigenza sempre maggiore di divulgazione di immagini e video delle proteste, per la sensibilizzazione, così come per denuncia degli scontri e delle rispettive responsabilità. La spettacolarizzazione delle azioni, come le acrobazie aree del gruppo ambientalista ‘Ruckus Society’ a Portland, prevalentemente ad uso della stampa professionista, si cominciava ad affiancare massicciamente con l’auto-organizzazione dei servizi di comunicazione, operando però sulle piattaforme di quelle stesse multinazionali digitali al centro delle contestazioni, e riaprendo così il dibattito sulla proprietà dei mezzi di comunicazione.Altro tratto distintivo del movimento no-global divenne da subito l’organizzazione di manifestazioni di protesta proprio in corrispondenza con i meeting del Fondo Monetario Internazionale (FMI) o del G8 appunto.

Del resto il WTO e le altre istituzioni finanziarie o intergovernative rappresentano tuttora un sistema di globalizzazione corporativa, condotto dalle élite con accordi di vertice in riunioni a porte chiuse, a protezione degli affari economici dal controllo popolare.

A rappresentare una cesura in questa consuetudine furono soprattutto i cambiamenti di tipo tecnologico e ancora di più la militarizzazione degli spazi pubblici, dopo il susseguirsi di attentati, a cominciare da quelli dell’11 settembre negli USA. La crescente diffusione di un senso di paura nelle popolazioni e le misure di sicurezza pervasive contribuirono insieme alla repressione a disgregare sempre di più il movimento, svuotando le piazze variopinte ed internazionaliste, in favore di chiusure di tipo nazionale; tanto da rendere inefficaci le mobilitazioni contro le campagne militari in Afgahnistan ed Iraq sul piano politico, se non nella desistenza iniziale di Francia e Germania dalle missioni della coalizione internazionale. Una simile battuta di arresto sembra poi esser stata interrotta soltanto all’indomani della crisi economico-finanziaria globale del 2008, che ha nuovamente mostrato le contraddizioni di un sistema predatorio e speculativo, dove il benessere diffuso degli anni precedenti era in realtà una bolla di interessi scarsamente redistribuiti, causa di impoverimento anche fra lavoratori e di crescenti diseguaglianze sociali.

La moltiplicazione di movimenti di protesta anti-austerità, che hanno rilanciato la mobilitazione di quel “99% di noi contro l’1% dei Paperoni del pianeta” degli slogan al summit di Davos, ha registrato esperienze travolgenti come quella degli Indignados, oppure dei movimenti ‘Occupy Wall Street’ o ‘Occupy Frankfurt’, fino a sfociare nelle cosiddette ‘Primavere Arabe’ o nelle proteste di ‘Gezi Park’, dove alle rivendicazioni sull’equa redistribuzione della ricchezza si sono inserite istanze politiche sui diritti umani e democratici. Più di recente questi aspetti sono stati cristallizzati da altrettante mobilitazioni globali, come quelle di NonUnaDiMeno per la parità di genere e contro la violenza sulle donne, oppure quella dei Fridays For Future sull’emergenza climatica e per l’implementazione di politiche ambientaliste.Se da un lato si può quindi individuare in queste nuove ondate di mobilitazione internazionale l’eredità del movimento no-global, viene da chiedersi quali aspetti corrispondano effettivamente a quella stagione politica.Fenomeni di protesta come ‘Indignados’ e ‘Occupy’ sono segnati dalla stessa trasversalità ideologica e sociale e dalla stessa carica critica al sistema capitalistico, che contrappone le piazze ai palazzi del potere tecnocratico.

Una caratteristica significativa di queste esperienze di indignazione collettiva è stata quella di denunciare gli scandali e le iniquità, sensibilizzando l’opinione pubblica, senza però offrire alternative concrete, e senza riuscire ad incidere nell’agenda politica delle istituzioni globali.Sebbene la libertà di scambio di merci e capitali resti al centro del modello di economia globale, le forti restrizioni agli spostamenti delle persone e l’installazione di nuove barriere di confine contro i flussi migratori hanno determinato per molti movimenti un ripiegamento di tipo territoriale, con una connotazione più nazionale e comunitarista, invece che di tipo solidale o internazionalista.In questo senso, anche le dichiarazioni di emergenza climatica sancite da Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Irlanda e regioni italiane, spagnole o tedesche non si sono ancora tradotte in posizioni nette nelle Conferenze sul Clima (COP22) delle Nazioni Unite.La maggiore ‘insularità’ dei movimenti attuali rispetto a quelli del 1999, si ritrova inoltre nell’approccio frequente dello scambio di pratiche, piuttosto che nella costruzione di network internazionali.

Un esempio lampante è la trasformazione delle frange antagoniste nei disparati gruppi antifascisti militanti, che si mobilitano per fronteggiare raduni squadristi in Europa ed in America.

L’attenzione ad evitare simili avvitamenti di tipo nazionale non sembra però mancare all’interno del dibattito di movimenti come NUDM e FFF, che hanno portato tematiche femministe ed ecologiste fuori dalle rispettive nicchie culturali, grazie a manifestazioni oceaniche planetarie, fino ad imporsi – almeno mediaticamente – nelle decisioni istituzionali. Altrettanto importante è l’analogia nella composizione anagrafica di simili movimenti, spesso composti per la maggior parte dalle generazioni più giovani con una visione alternativa di sviluppo e di convivenza.

Nonostante il capitalismo iniquo e speculatorio continui ad avere effetti devastanti sulla ‘Madre Terra’, rispetto al precedente movimento no-global sembra tuttavia ancora debole la critica sistemica alle forme di produzione e redistribuzione. In questo senso, esempi importanti e di segno inverso si possono piuttosto ravvisare nelle recenti proteste sociali in Ecuador, Haiti, Libano e Cile, dove le rivolte contro corruzione ed austerità contengono una critica al modello capitalista, focalizzata su un mondo più sostenibile.

FONTI:

http://fondazionefeltrinelli.it/la-globalizzazione-dei-movimenti-no-global-dal-popolo-di-seattle-al-friday-for-future-passando-per-genova-2001/

https://www.jacobinmag.com/2019/11/seattle-world-trade-organization-protests-socialism

https://www.citylab.com/life/2019/11/seattle-wto-world-trade-organization-protest-riot-1999/602806/

https://www.rosalux.de/publikationen/mediathek/demoradio/#pk_campaign=rls-newsletter&pk_kwd=12-2019

https://www.commondreams.org/newswire/2019/11/25/20th-anniversary-battle-seattle-activists-honor-history-and-todays-movements

https://societyandspace.org/2019/11/30/reflections-upon-the-battles-in-seattle-at-20/

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