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L’editto che estese il diritto di cittadinanza a tutti

di Maria
Pellegrini

Moltissimi bambini e ragazzi di origine straniera nati o cresciuti nel nostro paese, che si sono formati nelle nostre scuole e sono legittimamente parte della società italiana, sono discriminati perché non hanno ancora alcuna effettiva possibilità di acquisire la cittadinanza prima di aver compiuto i diciotto anni. Si discute da anni su questo problema senza trovare soluzione.

Se guardiamo la storia romana antica ottenere la cittadinanza fu il frutto di lotte sanguinose, dure contese fra conservatori e innovatori all’interno della stessa classe dirigente romana. Questo processo era stato contraddittorio, ma anche inarrestabile. Il diritto di cittadinanza romana, si estese abbastanza uniformemente, anche se in lunghi periodi, a popolazioni intere, soprattutto per alcuni provvedimenti illuminati di Cesare e di Augusto, e di quello strano ma intelligente imperatore che fu Claudio, il quale, avvalendosi anche della preesistente pratica di liberare in certi casi i propri schiavi, giunse a circondarsi di liberti, facendo di tre di essi, Callisto, Narcisso, Pallante, addirittura un gabinetto di governo da lui stesso presieduto. Ma egli fu energico promotore anche dell’accoglimento di influenti cittadini provinciali in Senato: ne è prova l‘iscrizione della famosa Tavola di Lione trovata, sia pure in frammenti, in questa città. Il contenuto di essa, e i criteri che la ispirano sono riportati per esteso dallo storico latino Tacito nei suoi “Annali,” di cui è opportuno ricordare alcune righe significative (XI, 24, 25), riguardanti la perorazione di Claudio in favore della concessione del diritto di cittadinanza a uomini meritevoli delle province, e della loro cooptazione nel Senato romano: «Portata che fu l’Italia fino alle Alpi, non solo i singoli individui, ma le terre e le genti si unirono nel nostro nome. Ci fu allora una stabile pace all’interno; guadagnammo gli stranieri all’esterno quando furono accolti nella cittadinanza i Transpadani e quando, sotto specie di fondare colonie militari in tutto il mondo ammettendovi gli uomini più validi delle province, sovvenimmo all’impero esausto. Dobbiamo forse pentirci che siano qui venuti i Balbi dalla Spagna, e uomini non meno insigni dalla Gallia Narbonese? Esistono i loro discendenti, che non sono da meno di noi nell’amore verso questa patria […] All’orazione del principe seguì un decreto del Senato; gli Edui furono i primi ad ottenere il diritto di sedersi fra i senatori romani: per antica alleanza e perché sono i soli fra i Galli che si dicono fratelli del popolo romano».

Sarà questo l’avvio e il consolidamento di una sempre più vasta omologazione multietnica di cui testimonia non solo la presenza di illustri personaggi della cultura e della politica provenienti da territori non italici: quali Seneca, Lucano, Marziale, di derivazione spagnola come Balbo, amico e consigliere di Cesare e persino i primi imperatori Traiano e Adriano, anch’essi di origine spagnola. Ma verranno in seguito anche imperatori africani (Settimio Severo), illirici (i Costanzi e Costantino), dalmati (Diocleziano). Un fatto singolare è che l’estrema aggressività della conquista romana sia stata in certi casi rilevata e documentata proprio da scrittori romani, ad esempio da Cesare, che nel “De Bello gallico” riporta il discorso violentemente antiromano del capo celta Critognato (VII, 77-78), e da Tacito che  nella “Vita di Giulio Agricola” (31-32) riporta per esteso la violenta requisitoria del capo britanno Calgaco contro la costante prassi predatrice e  distruttiva degli eserciti romani, conclusa con la terribile frase divenuta proverbiale: “Solitudinem faciunt, et pacem appellant”, “fanno il deserto e lo chiamano pace” (31). Per di più, ancora Tacito, nel prezioso trattatello “La Germania” non esita a elogiare la primigenia forza, anche morale delle popolazioni germaniche, confrontata con la decadenza e corruzione del popolo romano.

In ogni modo questo lungo e tormentato processo di unificazione, anche se quasi mai di armonizzazione, troverà la sua conclusione nell’editto di Caracalla che, nel 212 d. C., estenderà il diritto di cittadinanza a tutte le popolazioni dell’impero, sia pure con il fine di poter applicare ad esse una rigorosa tassazione che non avrebbe potuto praticarsi nei confronti di popolazioni prive di cittadinanza romana e quindi straniere. L’editto di Caracalla (chiamata Costituzione Antoniana perché il vero nome dell’imperatore datogli dal padre Settimio Severo era Marco Aurelio Antonino e Caracalla gli era stato attribuito dal nome di una tunica lunga gallica o germanica che usava indossare) aprì la strada a una stagione di progressiva romanizzazione dell’impero. Pertanto l’integrazione e la parificazione fra tutte le regioni, soprattutto fra quelle dell’Oriente e Occidente, erano certamente necessarie per eliminare le differenze giuridiche esistenti fra i sudditi.  Il provvedimento di Caracalla realizzava l’unificazione politica di tutti gli abitanti liberi dell’impero traducendo concretamente sul piano del diritto il principio dell’uguaglianza degli uomini.

Ulpiano, politico e giurista romano, contemporaneo di Caracalla, testimoniò: «coloro che abitano nel mondo romano, in base alla Costituzione dell’imperatore Antonino sono diventati cittadini romani».

Una funzione fortemente unificatrice per il suo fortissimo ascendente spirituale  e morale, fu esercitata dal Cristianesimo – malgrado le feroci persecuzioni subite e le numerose e combattive eresie che lo travagliarono -, il quale ebbe come fondamentali punti di riferimento personalità di straordinario rilievo, quali Gerolamo, nativo di Stridone in Dalmazia, Ambrogio di Treviri, Agostino di Tagaste, in Africa: tutti, ma soprattutto Gerolamo e Agostino, profondamente pervasi da cultura classica, tanto che Gerolamo giunse a dire di «non sapere se sentirsi più ciceroniano o cristiano». Il Cristianesimo costituì in ogni caso non solo un collante insostituibile fra popolazioni di ogni parte dell’Impero, ma anche una guida spirituale capace di suscitare correnti di pensiero che avrebbero potuto costituire teorie anche di ecumenismo politico. Nell’epoca dei regni romano-barbarici alcune eccezionali personalità tennero viva e operante, nelle coscienze e nella società, la duplice e feconda tradizione cristiana e romana: Leone Magno, papa con il nome di Leone I, che arginò e respinse, non con le armi ma con la sua parola e il suo carisma, Attila e i suoi Unni discesi minacciosamente nella penisola; Boezio con la sua sapienza, la rigorosa vastità della sua cultura, e la fermezza di fronte alla condanna a morte decretata contro di lui da Teodorico, di cui egli era stato amico e stretto collaboratore; e infine Cassiodoro anch’egli di vasta cultura classica e religiosa, e fondatore in Calabria del Monastero di Vivario, presso Squillace (suo luogo natio), ove egli stesso si chiuse, mentre l’intera penisola era devastata dalla guerra goto-bizantina, attendendo alle sue opere, soprattutto esegetiche e didattiche, orientando e al tempo stesso anticipando l’attività dei monaci copisti che avrebbe poi costituito nelle grandi abbazie dei secoli VII-VIII, quei centri preziosi per la decifrazione e il restauro di numerosi manoscritti di opere della classicità. Ma il merito maggiore di Cassiodoro è forse quello di essersi impegnato, prima del suo ritiro nel Monastero di Vivario, e mentre era ancora prefetto del pretorio, in favore di una convivenza pacifica fra Romani e Goti, fra vinti e vincitori, per un’armonica fusione etnica e una rinascita civile dell’Italia.

 

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